Bellezza e forza estetica esplosiva nelle sculture di Rino Pagni

Un Michelangelo in un cantiere a noi contemporaneo. Scrive Adriana Conconi affrontando l'analisi critica: "Da artista contemporaneo non utilizza la materia, intesa come elemento primitivo che proviene dalla madre terra, da essa generata e da essa, poi, attraverso un lento e inesorabile processo ricondotta a se stessa, ma utilizza il materiale, elemento realizzato dall’uomo, quindi conosciuto e verificabile, come per esempio tubazioni idrauliche, cavidotti elettrici, barre di ferro, polistirene espanso, vetro resina, colla a caldo, tessuti, spago che in fase di esecuzione vengono plasmati anche con la fiamma ossidrica. Se l’uso della materia riconduce a una connotazione mitica nella sua essenza e nella sua imprevedibilità, il materiale riporta al reale, all’uomo costruttore, all’homo faber delle sue creazioni, così come peraltro una parte della scultura sin dal secondo dopoguerra si è indirizzata verso questa scelta, scarnendosi anche nella sua parte narratologica e volendo significare solo se stessa"
R.PAGNI, Prigione 2017, 2017, tecnica mista, 115 x 65 x 65 cm. Fotografia di Paolo del Freo
R.PAGNI, Prigione 2017, 2017, tecnica mista, 115 x 65 x 65 cm. Fotografia di Paolo del Freo

R.PAGNI, Prigione 2017 (part.), 2017, tecnica mista, 115 x 65 x 65 cm. Fotografia di Paolo del Freo
R.PAGNI, Prigione 2017 (part.), 2017, tecnica mista, 115 x 65 x 65 cm. Fotografia di Paolo del Freo

di Adriana Conconi Fedrigolli

Il titolo dell’opera risulta un evidente omaggio da parte dell’autore ai Prigioni buonarroteschi, sculture che con la loro potenza espressiva sono entrate a far parte dell’immaginario collettivo e sineddoticamente riconducono alla mente la condizione di mancanza di libertà in tutte le sue forme. Non è un caso che Sigmund Freud avesse nel suo studio di Vienna un calco del Prigione Morente (Parigi, Museo del Louvre) così come Gabriele D’Annunzio, nella stanza della Musa al Vittoriale, abbia scelto di porre anche lui il Prigione Morente, coperto nella parte inferiore da un drappo e che Henri Matisse nel dipinto La joie de vivre del 1906 (Filadelfia, Barnes Foundation) abbia deciso di far assumere alla figura, posta all’estrema sinistra, una postura molto simile a quella di quest’opera, riproposta dallo stesso Matisse nel dipinto Pianista e giocatori di dama del 1924 (Washington, National Gallery), in cui il calco in gesso di dimensioni ridotte appare collocato sul cassettone presente nella stanza. Un fil rouge che unisce attraverso la stessa scultura tre grandi maestri del Novecento che oltre a essere stati affascinati da Michelangelo hanno sentito parte imprescindibile del loro percorso esistenziale questo tema: la prigionia o la schiavitù, condizione che con modalità espressive diverse appartiene all’uomo di ogni tempo.
R.PAGNI, Prigione 2017 (part.), 2017, tecnica mista, 115 x 65 x 65 cm. Fotografia di Paolo del Freo
R.PAGNI, Prigione 2017 (part.), 2017, tecnica mista, 115 x 65 x 65 cm. Fotografia di Paolo del Freo

Difficile dare una risposta esaustiva riguardo alle motivazioni che hanno portato a prediligere tra i sei Prigioni michelangioleschi proprio quello Morente: Matisse potrebbe essere stato verosimilmente affascinato dalla perfezione anatomica data alla torsione delle membra, equilibrata dal contrapposto e dalla forma chiusa della figura, Freud e D’Annunzio si potrebbe ipotizzare che possano aver desiderato sottolineare, come memento quotidiano, la condizione più tragica della prigionia, quella che porta alla morte, senza possibilità di riscatto fisico o morale, iconografia ribaltata semanticamente in uno dei capolavori – mi si conceda il salto temporale – di Vincenzo Vela, lo Spartaco, realizzato tra il 1847 e il 1850 (Lugano, Palazzo Civico) in cui lo scultore di Ligornetto riesce a imprimere alle possenti membra dello schiavo l’immensa forza e l’ineguagliabile conquista che solo la libertà può dare e rappresentare nella vita di un individuo.
R.PAGNI, Prigione 2017 (part.), 2017, tecnica mista, 115 x 65 x 65 cm. Fotografia di Paolo del Freo
R.PAGNI, Prigione 2017 (part.), 2017, tecnica mista, 115 x 65 x 65 cm. Fotografia di Paolo del Freo

Anche Rino Pagni sceglie questo tema per Prigione 2017 – tecnica mista, 115 x 65 x 65 cm. – e già, è atto più che dovuto, riconoscergli coraggio sia nel confrontarsi con icone che hanno assunto un carattere universale sia nell’ affrontare, secondo il suo sentire, la situazione dell’uomo attuale, con una sincerità che nega il finto superomismo imperante. Da artista contemporaneo non utilizza la materia, intesa come elemento primitivo che proviene dalla madre terra, da essa generata e da essa, poi, attraverso un lento e inesorabile processo ricondotta a se stessa, ma utilizza il materiale, elemento realizzato dall’uomo, quindi conosciuto e verificabile, come per esempio tubazioni idrauliche, cavidotti elettrici, barre di ferro, polistirene espanso, vetro resina, colla a caldo, tessuti, spago che in fase di esecuzione vengono plasmati anche con la fiamma ossidrica. Se l’uso della materia riconduce a una connotazione mitica nella sua essenza e nella sua imprevedibilità, il materiale riporta al reale, all’uomo costruttore, all’homo faber delle sue creazioni, così come peraltro una parte della scultura sin dal secondo dopoguerra si è indirizzata verso questa scelta, scarnendosi anche nella sua parte narratologica e volendo significare solo se stessa. Pagni ritrae un uomo, scegliendo un modulo atipico, privo delle gambe, ma che per il taglio richiama i torsi della classicità. Le mani legate dietro la schiena e il volto reclinato, un volto iconograficamente vicino a quello di un Christus patiens. Due elementi fortemente esplicativi dell’opera: la prigionia e la piena consapevolezza della stessa. Ma ciò che vivifica l’opera e obbliga l’osservatore distratto a fermarsi a guardare Prigione 2017 sono la presenza di forme tubolari che escono prepotenti dalla figura avvolgendola sinuosamente. La mente corre all’immagine di serpenti, quelli per esempio dei capelli della Medusa caravaggesca o quelli marini che con le loro spire uccisero Laocoonte e i suoi due figli, immagine effigiata nel gruppo scultoreo, capolavoro dell’ellenismo (Roma, Museo Pio Clementino).
R.PAGNI, Prigione 2017 (part.), 2017, tecnica mista, 115 x 65 x 65 cm. Fotografia di Paolo del Freo
R.PAGNI, Prigione 2017,  2017, tecnica mista, 115 x 65 x 65 cm. Fotografia di Paolo del Freo

Pagni non intende dare raffigurazione a forze negative, anzi esattamente il contrario e attraverso l’insistenza su questi elementi estranei alla figura, ma legati a essa, trattati con colori a neon, sebbene smorzati, che richiamano quelli Jeff Koons, crea un corto circuito nell’osservatore che viene attratto dall’opera, ne rimane sorpreso perché inconsapevolmente una parte di sé tende a rispecchiarsi nella forma imprigionata, nella tensione delle membra, nel dolore silenzioso della figura. L’autore testimonia la prigionia dell’uomo contemporaneo, ma appunto in questi elementi tubolari, piegati, ruotati e compressi che emanano energia, manifesta la volontà di liberarsi da quelle strutture e sovrastrutture che lo imprigionano non permettendogli di esprimere se stesso nella sua compiuta verità. In essi scorrono idee sospese, speranze interrotte, desideri non ancora attuati, obbiettivi non ancora raggiunti, ma che Pagni è certo che troveranno la loro realizzazione ed esplicazione perché Prigione 2017 con uno slancio inaspettato e con un colpo di reni alzerà la testa, si scioglierà i polsi, getterà le maschere pirandelliane e sarà libero. Un’opera di grande positività e attualità in cui l’artista si mette in gioco completamente anche come uomo.

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Stile Arte è una pubblicazione che si occupa di arte e di archeologia, con cronache approfondite o studi autonomi. E' stata fondata nel 1995 da Maurizio Bernardelli Curuz, prima come pubblicazione cartacea, poi, dal 2012, come portale on line. E' registrata al Tribunale di Brescia, secondo la legge italiana sulla stampa