Quando si pensa alla pittura umbro-marchigiana fra ’400 e ’500, è inevitabile che la mente vada a Raffaello, Bramante, alla cerchia di artisti che ruotano intorno alla corte di Federico da Montefeltro quali Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, Paolo Uccello, Giusto di Gand e via dicendo. A bene indagare però essi non sono gli unici protagonisti del panorama artistico e culturale dell’epoca. Anche se di “rango” inferiore, altri sono gli artisti che hanno saputo imporsi attraverso soluzioni stilistiche originali, alternative rispetto al gusto colto e raffinato degli intellettuali.
A tale proposito, uno dei più “singolari eccentrici” del Cinquecento marchigiano è senza dubbio Bernardino di Mariotto, un pittore-artigiano, nel senso più alto che tale definizione può implicare. Poco o nulla si conosce di lui e il suo nome non è certo di quelli che fanno parte dell’immaginario collettivo: non per questo la sua opera deve però essere considerata – come spesso accade – “minore”. Anzi. Bernardino nasce in Umbria dove lo troviamo attivo nel 1498. Dal 1502 al 1521, gli anni in cui dà il meglio di sé, si trasferisce a San Severino Marche, paesino dell’entroterra che insieme a Camerino e Fabriano diviene il crogiuolo di un certo fervore culturale. Qui la tendenza arcaicizzante del “gotico cortese” trova terreno fertile nel clima delle signorie locali, impegnate a perpetuare il loro potere cercandone conferma anche attraverso il consolidamento di una tradizione iconografica, per certi aspetti, già superata dalle più forti suggestioni rinascimentali promulgate dai grandi centri. La stessa tendenza, quella del “gotico cortese”, trova in Bernardino un interprete schietto, arguto e singolare la cui esperienza figurativa si fonda in larga misura sul quotidiano, senza disdegnare coloriture che non è sbagliato definire “popolaresche”. La sua pittura infatti parla lo stesso linguaggio della gente, è fortemente espressiva, quasi passionale. Ciò la rende comprensibile e in linea con le esigenze di una committenza ecclesiastica dagli intenti didattico-devozionali. Quali sono le peculiarità che rendono Bernardino di Mariotto “un ritardatario di genio”? Quali gli elementi che, oggi, agli occhi della critica, contribuiscono a definirlo un “nuovo protagonista del Cinquecento”? Anzitutto la sua capacità di caratterizzare i personaggi sino ai limiti del grottesco. Essi il più delle volte divengono gli attori, fragili e patetici, di una pittura farsesca, paradossale. Non è un caso se le sue tele hanno destato l’interesse di Federico Zeri che ha sottolineato questa sua prerogativa enfatizzandola attraverso un paragone a dir poco insolito che vuole i personaggi di Bernardino addirittura simili a quelli di Walt Disney. Zeri pone così l’accento sull’abilità del pittore nel restituire allo spettatore volti e figure stereotipate mediante una sintesi plastica dei tratti somatici dove l’espressione, di volta in volta, muta con semplici accorgimenti della linea precorrendo un atteggiamento prettamente moderno.
Ed è anche in virtù di tali considerazioni che gli angeli presenti nelle sue opere, il più delle volte, possono lasciarsi andare a pianti disperati: “piangono come in nessun altro pittore”, annota Vasari. Un bellissimo esempio è offerto dal “Compianto di Cristo”: nell’angolo a sinistra due cherubini dalle ali policrome versano grosse lacrime, amare. Il tutto accentuato da una mimica – in questo caso davvero disneyana – tesa a manifestare la profonda inquietudine di cui sono vittime nella drammaticità dell’evento. Il loro essere anime celesti, messaggeri divini, non li rende più immuni dai sentimenti umani: come noi provano dolore, soffrono, e lo fanno senza nascondersi. Questa è la novità sorprendente perché inusuale. In tal senso Bernardino porta alle estreme conseguenze una tendenza stilistica che non è tutta “farina del suo sacco” ma che trova in Carlo Crivelli (1430-1493?) un autorevole antesignano e una fonte da cui attingere. Crivelli, anch’egli operoso nelle Marche, dove lascia un’impronta fondamentale per lo sviluppo della cultura artistica dell’epoca, si forma sulle tracce dello Squarcione e di quel gusto protorinascimentale che fa capo a Jacopo Bellini e Antonio Vivarini. Pur rimanendo fedele agli stilemi del “gotico internazionale”, alle cornici dorate, ad una grafia acutissima e raffinata – degna di Pisanello e di Giovannino de Grassi -, è capace d’invenzioni plastiche e prospettiche notevoli. Sebbene i suoi riferimenti siano la pittura nordica, fiamminga e tedesca, nonostante non rinunci a suggestioni medioevali e bizantine (l’oro dei mosaici di San Marco – Venezia è la sua città natale – rimane impresso indelebilmente nella sua memoria), Crivelli riesce a dar vita ad una nuova realtà pittorica fatta di figure astratte – di un’eleganza eccessiva e in netto contrasto con la loro identità di Santi e di Madonne. Figure capaci di un pathos senza precedenti che si manifesta in piccoli gesti, nella contorsione delle mani, nell’inclinazione di una ruga, nella malinconia di uno sguardo abbassato, nella esternazione del dolore, appunto. Il suo Arcangelo Gabriele (1486), ad esempio, anziché gioire per la lieta novella di cui è portatore – la nascita di Cristo in terra – d’innanzi alla Vergine Maria palesa contrito il suo personale sgomento per il tragico epilogo del quale egli è già a conoscenza. Tutto questo accade con discrezione senza che lo spettatore se ne accorga in modo eclatante.
I gesti sono controllati, la profusione di oro e luce in cui si sviluppa la scena lasciano intatta la parvenza più superficiale di magia e sogno. Ed è proprio questa poetica travolgente, il sentore di una pittura che anela alla tragedia ad attrarre Bernardino. Egli fa propria, celebrandola, la nostalgia gotica dell’opera di Crivelli, di Lorenzo d’Alessandro e Luca Signorelli, i veri fautori di quel “Rinascimento umbratile”, nascosto. Il pregio dell’opera di Bernardino e di Crivelli, ossia l’inclinazione grafica stilizzante e minuziosa, diviene il suo stesso limite: il rischio è quello di sconfinare in una sorta di decorativismo, di sfociare in una pittura manierata e di maniera che per forza di cose è destinata a rimanere uguale a se stessa, a non evolvere in qualcos’altro. E’ ciò che succede a Bernardino di Mariotto. Una volta abbandonato San Severino egli torna nella natia Perugia. Qui il suo linguaggio risulta non essere sufficientemente aggiornato e fatica quindi ad emergere nonostante la copiosa produzione. Di lui rimane lo splendido gonfalone del 1509, intriso di una “luce univoca, solare”, di un’atmosfera metafisica di grande fascino dove la Madonna, ieratica e austera, scaccia il diavolo dalle ali di pipistrello (un vero cartoon). La parte nascosta dell’opera (il retro) è invece costellata di fiori e frutti segno della passione di Cristo metaforicamente rappresentato sotto le mentite spoglie di un cerbiatto che allude alla sua innocenza. Così come rimangono la “Madonna con il bambino” assisa in cielo, imponente e leggiadra, sospesa sul proscenio di un’autentica scena di genere e la “Madonna del rosario” parte di un polittico oggi smembrato e perduto. L’eredità artistica di Bernardino – che muore nel 1566 – viene raccolta dall’anonimo Maestro di Fiastra, un autentico naïf che riesce a far rivivere i colori puri e sonanti, il rigore descrittivo dei particolari secondo un’accezione che continua ad essere, in pieno Rinascimento, volutamente popolare.