di Adriana Conconi Fedrigolli
Il quattrocentesco castello di Padernello fu lo scenario dell’incontro tra il conte Bernardo Salvadego (1834 –1887), raffinato e colto collezionista, e Antonio Salvetti (1854-1931), giovane artista senese che si trovava ad affrontare la decisione se dedicare la propria vita disegnando progetti architettonici e occupandosi di equilibri di masse, o se invece dipingere dal vero, come il critico fiorentino Diego Martelli (1838-1896), già coordinatore del movimento dei Macchiaioli, gli aveva suggerito durante la visita all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1878. Correva l’anno 1881 e Antonio Salvetti era sotto la guida del pittore bresciano Roberto Venturi (1846-1883), come scriveva nei suoi Quaderni :” (….) A quell’epoca mi ero dato già da pochi mesi, dopo gli studi accademici fatti a Firenze, allo studio pratico della pittura, sotto l’aspetto del colore sotto la guida di Roberto Venturi a Brescia. Egli era milanese, pittore di bella fama di raro ingegno, di non comune coltura. Per meglio addestrarmi alla tecnica mi aveva fatto copiare soltanto stoffe e mobili dal vero. (…)” Verosimilmente fu proprio attraverso il Venturi, sostenitore dell’Associazione Arte in Famiglia e dal 1878 socio dell’Ateneo di Brescia, che ebbe modo di conoscere Bernardo Salvadego. Quarto figlio del nobile Francesco Salvadego (1795-1874), originario di Rovigo, e della nobile Marianna Mainardi (1802-1869) di Cavarzene (Ve), luogo in cui nacque, Bernardo, così come i fratelli maggiori, studiò all’Università di Padova, dove risiedeva, e si laureò in Giurisprudenza. Nel frattempo la sua famiglia si trasferiva a Brescia a seguito dell’eredità che Gerolamo Silvio Martinengo (1753-1834) di Padernello o della Fabbrica aveva lasciato al cugino Alessandro Molin e questi, a sua volta, non avendo discendenza diretta, alle sue due sorelle: Maria, sposata con Giuseppe Panciera di Zoppola, e Alba, coniugata con Pietro Salvadego, madre di Francesco e nonna di Bernardo. Nel 1859 quando le forze franco-piemontesi si trovavano schierate contro gli Austriaci, Bernardo Salvadego si arruolò volontario come soldato semplice nel reggimento di cavalleria del futuro re d’Italia, Vittorio Emanuele II (1820-1878). A seguito dell’armistizio di Villafranca dell’11 luglio 1859 il Nostro, maturando il desiderio e sentendo una sorta di dovere civico-morale decise di far parte dell’esercito in quei delicati anni che avrebbero portato all’unificazione italiana.
Intraprese quindi il corso di Istruzione Militare prima ad Ivrea e poi a Pinerolo (To), divenendo sottotenente nel Reggimento di Cavalleria Aosta. Nel 1861 si trovava a Vigevano (Pv) e in una lunga lettera del 14 giugno indirizzata al padre si soffermava sulla recente morte di Camillo Benso, conte di Cavour (1810-1861), avvenuta il 6 giugno, dopo solo ottantun giorni dalla proclamazione del Regno d’Italia:” (…) Passando al serio, la disgrazia che ha colpita l’Italia più grande, ma grande assai, poiché con la morte di Cavour fummo privati di un genio che non ci sarà mai più il secondo. Vi assicuro che il giorno che siamo intervenuti noi tutti ufficiali al servizio funebre celebratosi in questo Duomo io non potei fare a meno di versare qualche lacrima. Povero Cavour lui che ha tanto lavorato per la causa nostra poterla vedere del tutto finita. Barbara sorte di quaggiù (…)”. Bernardo Salvadego successivamente divenne aiutante in campo del generale Alessandro Della Rovere (1815-1864) negli anni in cui questi era Ministro della Guerra e mentre stava combattendo contro il brigantaggio delle regioni meridionali della penisola. E’ documentato infatti che il nobile bresciano fosse al suo fianco nel 1862 a Spinazzola (Ba), uno dei luoghi dei più aspri conflitti. Fu quindi nominato ufficiale di ordinanza del Duca Amedeo d’Aosta, figlio di Vittorio Emanuele II, comandante della Brigata Granatieri di Lombardia. Il giovane Bernardo non si aspettava un incarico così prestigioso, come apprendiamo dalla lettera inviata al padre da Voghera (Pv) il 4 gennaio 1865: “ (…) Il generale Della Rocca, Capo della Casa del Re come suo primo aiutante mi faceva con tutta fretta interrogare se avrei di buon grado accettato il posto di Ufficiale di Ordinanza di S.A. il Principe Amedeo. La cosa mi riesce talmente inaspettata che al primo momento rimasi là senza poter rispondere, ma quindi per acquistare quella calma che si richiedeva in tale circostanza mi rimisi ai consigli e ai pareri del mio colonnello che furono tutti buoni e pel sì. La cosa doveva restare nella massima segretezza e perciò non te ne tenni parola in quel giorno tanto più che io ho creduto sempre che non sarebbe ormai per realizzarsi. (…) Mentre io di tutto questo non ne avevo la minima idea a Torino se ne parlava da oltre quindici giorni. Tutti rimasero stupiti di questa mia ignoranza credendo che la cosa partisse da un mio desiderio ed in seguito a passi fatti in proposito. Ma invece come tu ben sai io non ho mai domandato niente, e ciò non può che essere frutto di raccomandazione lasciata dal sempre compianto ex mio generale Della Rovere (…)”
Partecipò quindi alla campagna del 1866 e combatté con coraggio nella sanguinosa battaglia di Custoza del 24 giugno, dove in località Montecroce, modesto colle di fronte alla cittadina, il principe Amedeo fu ferito gravemente, mentre incitava il suo esercito ad avanzare contro il nemico. Fu proprio Bernardo Salvadego il primo a soccorrerlo, quando cadeva da cavallo, e data la vicinanza tra Custoza (Vr) e Brescia decise di trasportarlo nel palazzo di famiglia, posto in Via Dante. Così in una lettera del 6 luglio 1866 alla sorella Marietta ( 1841-1936) descriveva la battaglia : “(…) Ti assicuro che il 24 l’ho scampata bella. Col Principe fummo sempre alla distanza di 40 passi dagli austriaci, a guardarli a tirarci addosso ed animare i nostri ad avanzarsi. Oh come fischiavano bene quelle palle che si sentivano passarci vicine da tutte le parti del corpo. (…) Ti assicuro che il nostro Principe è un vero Eroe, quantunque ferito non voleva ritirarsi ed abbiamo dovuto portarlo via a forza, che se ne voleva stare ancora quantunque steso a terra lui a comandare. Il momento che lo portammo all’ambulanza fu ben brutto perché le palle ci fischiavano dietro (…)”. Al Duca d’Aosta successivamente fu conferita la medaglia d’oro al valore e l’episodio venne raffigurato in un quadro che attualmente si trova al Museo del Risorgimento di Torino. Si ha notizia che un’immagine del dipinto, con dedica, e un orologio da tasca fossero stati inviati in dono a Bernardo il quale, come scrive egli stesso in una lettera inviata sempre alla sorella Marietta, fu insignito anche di una medaglia al valore. Negli anni successivi il Salvadego vestì ancora la divisa d’ordinanza seguendo Amedeo d’Aosta in diversi viaggi diplomatici che gli procurarono la stima e il rispetto del re Vittorio Emanuele II e del principe Umberto I (1844-1900). Solo quando il processo definitivo di unificazione della penisola si poteva dire concluso, con la presa di Roma del 20 settembre 1870, il conte bresciano decise di lasciare l’esercito conservando il titolo di Capitano del Reggimento Lancieri d’Aosta. Terminato questo primo capitolo della vita di Bernardo Salvadego dedicato ai valori legati alla patria, che lascerà in lui traccia indelebile, tanto che nel 1882 sarà a Brescia tra i soci fondatori, poi per tre anni Presidente e quindi Socio d’onore, del sodalizio di mutuo soccorso chiamato L’Esercito, se ne apre uno successivo nel quale si mette in luce l’altra parte predominante del suo animo: il grande amore per l’arte e per la musica.
Ci piace pensare che questa seconda fase della sua vita, così diversa e in parte specularmente opposta all’austero rigore militare, sia maturata e cresciuta in lui anche a seguito del matrimonio, avvenuto nel 1871 con Caterina Ugoni (1846-1921), figlia del nobile Filippo (1794-1877), fratello minore del più noto Camillo (1784-1855). Bernardo Salvadego ebbe modo di frequentare e trascorrere molto tempo con il suocero, rimasto solo dopo la morte della moglie Camilla e dell’altra figlia Isabella, di apprezzarne lo spirito patriottico, cresciuto in lui militando in prima linea durante i moti insurrezionali che portarono all’indipendenza, di stimarne le doti intellettuali di letterato e l’amore sincero per l’arte. E fu proprio respirando quello che Filippo Ugoni portava ancora con sé degli ideali del cenacolo Tosio, delle lunghe discussioni con la migliore intellighentia dell’epoca nella sua settecentesca villa del Campazzo a Pontevico (Bs), che iniziò a dar avvio alla sua selezionata collezione di opere d’arte, nella quale confluirono in seguito le opere della famiglia Ugoni, poiché Caterina era l’ultima discendente, e anche quelle che Bernardo aveva avuto per successione ereditaria, soprattutto di artisti veneti. Negli scritti relativi al suo soggiorno nel castello di Padernello Antonio Salvetti, infatti, fa proprio esplicito riferimento ai quadri di scuola veneta presenti nella raccolta del conte, sottolineando come il colorismo lagunare abbia influenzato la sua stessa arte:”(…) Una sana efficace e sana influenza, specie per il colorito, credo che me la dessero certi bellissimi quadri antichi di scuola veneta dall’intonazioni calde dorate, alcuni attribuiti al Tintoretto, che si trovano appesi in tutte le sale del castello (…) “.
La collezione di Bernardo Salvadego nel 1881 era perciò già consistente, ancor prima della famosa, e dai contorni indefiniti, asta Fenaroli del 1882, nella quale, a seguito della morte di Gerolamo Fenaroli Avogadro (1827-1880), fu alienata la notissima collezione, tra cui i quadri di Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto, acquistati da Bernardo Salvadego insieme ad altre opere di maestri del Cinquecento e del Seicento Italiano. Il ciclo del Ceruti o di Padernello, formato da ben quindici tele, così chiamato in seguito perché conservato sino alla morte del figlio di Bernardo, Filippo Salvadego (1875-1965), indiviso all’interno delle mura del castello, rappresenta un unicum sia nel collezionismo bresciano ottocentesco che nazionale perché in esso è possibile leggere ed ammirare un’eccelsa manifestazione di quella scuola lombarda che partendo da Vincenzo Foppa, attraverso le tele di Girolamo Romanino, di Alessandro Bonvicino detto il Moretto e di Girolamo Salvoldo arriva con Giacomo Ceruti ad una delle sue massime espressioni. L’amore per l’arte che portò Bernado Salvadego a diventare un notevole collezionista e mecenate non rappresentava l’unico interesse del conte, perché era anche un sensibile cultore della musica. Questa sua predilezione era forse nata in lui durante il soggiorno torinese come Ufficiale d’Ordinanza del principe Amedeo d’Aosta, poiché spesso nelle lettere inviate al padre raccontava di serate trascorse al Teatro Regio, ospite del principe nel palco Reale, o in altri teatri cittadini.
Con il suo ritorno a Brescia divenne infatti parte attiva della Deputazione del Teatro Grande di Brescia, regalando alla città delle importati stagioni liriche, nelle quali tra l’altro fu messo in scena nel 1887 l’Otello di Giuseppe Verdi, penultima e celeberrima opera del compositore. Molte sono le testimonianze che si intrecciano per meglio definire il profilo in larga parte inedito del conte, ma quella che oggi maggiormente interessa è quella del pittore senese Antonio Salvetti che così scriveva: “(…) Mi trovavo una volta, ancor giovane, nella Bassa Bresciana, nel villaggio di Padernello, ospite del conte Bernardo Salvadego di Padova, che mi aveva incaricato di fare tre grandi disegni acquarellati del suo storico, splendido castello in cui lui dimorava (…)”.
Ai tre grandi acquerelli, se ne aggiunge uno di minori dimensioni, sempre eseguito durante l’estate del 1881, che raffigura uno stemma bipartito con l’arme dei Martinengo affiancata a quella dei Gonzaga, tratto da un dipinto ottocentesco presente in una piccola sala a piano terra del castello. E’ verosimile pensare che fu commissionato da Bernardo per ricordare la famiglia Martinengo, che aveva voluto la costruzione dell’edificio fortificato e di celebrarla quando vi fu l’unione con la casata dei Gonzaga, grazie al matrimonio del 1543 tra Eleonora e Gerolamo Martinengo. Gli altri tre acquerelli, citati in precedenza, raffigurano invece, quasi come illustrazioni fotografiche, il castello così come appariva nei decenni conclusivi dell’Ottocento.
Il giovane pittore si attiene ad una scrupolosa resa del vero cercando di soffermarsi sullo studio della luce nell’ambiente e nell’atmosfera che porta al mutamento del tessuto cromatico di ogni singola immagine. Sceglie perciò di raffigurare il cielo parzialmente coperto da nuvole passeggere in modo tale che i raggi del forte sole estivo si propaghino velatamente sui rossi mattoni dell’antica fortezza, sulle esili figure umane, caratterizzate individualmente, e sulla verdeggiante campagna che circonda la dimora signorile. Salvetti, che solo tre anni prima risultava il vincitore del Concorso Nazionale d’Architettura, appare attento a mettere in evidenza tutti i particolari architettonici del castello, che nel corso dei secoli subì diverse modifiche.
Non appaiono più gli originari merli e le camminate di ronda, così come le caditoie hanno in parte perso la funzione difensiva a favore di quella decorativa; il maniero, infatti, fu rimaneggiato in epoca settecentesca da Giovanni Battista Marchetti (1686-1758), come testimoniano, oltre che le molte trasformazioni interne, gli eleganti balconi in ferro battuto alle finestre, minuziosamente riportati da Salvetti, alcuni con il suggestivo gioco di chiaroscuri dei tendaggi interni mossi dal vento. L’artista senese dimostra in questi suoi primi saggi pittorici un’estrema padronanza disegnativa, una grande precisione prospettica e un attento naturalismo cromatico, maturati durante gli anni di tirocinio all’Accademia fiorentina, e sebbene appaia ancora alla ricerca di un suo specifico lessico figurativo, è interessato agli effetti della luce sui colori, prediligendo in queste opere la tecnica dell’acquerello e del pastello, particolarmente congeniali nel sottolineare la morbidezza e la trasparenza dei passaggi tonali.
Durante il soggiorno padernellese Antonio Salvetti eseguì anche un quadro raffigurante una giovane contadina che abitava nel piccolo borgo. L’opera è molto significativa nel percorso dell’artista perché è il suo primo quadro ad olio e il fatto che il suo maestro Roberto Venturi ne avesse lodato le qualità portò il giovane a dedicarsi interamente alla pittura e in un certo senso ad indirizzare la sua vita in quella direzione: “(…) Fu da allora che ideai e cominciai a mettere in pratica un nuovo orientamento di studi e di esistenza (…)”. Il quadro, noto con il titolo “La Mandriana lombarda”, fu dipinto proprio nel castello dei conti Salvadego. Un legame stretto e duraturo tra quest’opera e la terra bresciana che appare sottolineato dall’artista nell’aver inserito tra la firma e la data anche il luogo di esecuzione dell’opera: “ A. Salvetti Padernello 1881”.
Con un lessico vivace, ironico e molto propenso alla facezia, il pittore senese ci conduce in un viaggio a ritroso in anni a noi sconosciuti e in ambienti in parte scomparsi e dimenticati: “ (…) Fu a Padernello, lontano dal maestro e dopo aver visitato a Milano varie esposizioni di artisti lombardi e veneti, che mi venne la voglia di tentare una figura grande al vero in piedi a olio. Ci voleva un modello anzi una modella; perché le donne in questi affari, sono più pazienti più disponibili degli uomini. Adocchiai una giovane malghese (chiamasi così nel bresciano la guardiana delle malghe ossia dei branchi di vacche) e col di lei consenso e coi debiti permessi, la feci venire in castello a posare, nella stanza a me destinata per studio. Nelle mie ore libere del pomeriggio, mi misi all’opera con grande coraggio e passione iniziando il quadro con buona linea d’insieme, favorito dalla soddisfacente modella. Si chiamava Menega ossia Domenica. Era un tipo di ragazza ben piantata, forte bruna, sui diciannove anni; se non bella, simpatica e pittoresca. Per il continuo stare colle vacche aveva preso di quelle bestie i movimenti ondeggianti, solenni e quel loro sguardo attonito e sereno. Proveniente dal bergamasco parlava un dialetto non facile da intendersi. Essa poi non capiva affatto il mio italiano. E dovevo ripeterle molte volte le cose in vari modi per fargliele comprendere. Riflettendo sulla lingua italiana, mi diceva: – Ma come! Voialtri senesi parlate sempre così? Parlate come la maestra a scuola, come il prete in chiesa? Sempre così parlate fra voialtri, anche proprio quando siete soli, nella grande intimità, anche al buio? – Sì, sempre così; al buio, anzi più che mai – le rispondevo (…) Questa ed altre simili conversazioni intellettuali, in toscano bresciano bergamasco, non impedivano che il quadro progredisse. Volli fare di questo quadro uno studio serio, come chiaroscuro, come plasticità come forma e come colore. Vi misi tutto il mio impegno, tutto il mio entusiasmo, tutto quello che allora potevo sapere, valendomi del ricordo di cose moderne pittoresche e che più mi erano piaciute nelle esposizioni e soprattutto degl’insegnamenti del buon Venturi (…)”.
Le varie fasi della stesura del quadro de “La Mandriana Lombarda” si intrecciarono con avvenimenti che riguardavano la vita di Bernardo Salvadego e Caterina Salvadego Ugoni: “(…) Arrivati al colmo dell’estate il conte e la contessa erano partiti per i bagni di mare con tutto il loro seguito. Io ero rimasto il solo abitatore del castello ed ero affidato alla vecchia portinaia casante (brava cuoca e cameriera) che aveva tutte le premure per me. Il conte mi aveva lasciato altri lavori da eseguire e vari incarichi di fiducia. Nella solitudine di questo castello, già appartenuto ai Gonzaga di Mantova, ai Martinengo di Brescia, io mi trovavo benissimo, malgrado le dicerie sugli spiriti che l’infestavano e su una certa dama bianca che di tanto in tanto appariva la notte quando non c’era quasi nessuno e si aggirava per lo scalone e per la lunga fila delle stanze mandando gemiti. Io non sentii nulla, non vidi dame né bianche né bigie. Mi sognavo invece di essere divenuto una specie dell’Innominato dei Promessi sposi (prima della conversione, s’intende). Avrei voluto avere un manipolo di bravi, con dei brutti ceffi, bene armati a’ miei comandi e spedirli ogni tanto a saldare qualche mio vecchio conto o a rapire qualche cosetta di bello e di buono per mio uso particolare (…). Salvetti continua i suoi ricordi autobiografici con aneddoti e storie divertenti che hanno sempre come scenario il castello di Padernello: ” (… ) Già un mese era trascorso da che avevo cominciato il mio quadro. Menega principiava a capire l’italiano. Era una posatrice infaticabile, diligentissima, volenterosa: spesso allegra. Si divertiva a farmi qualche burletta. Vi racconto questa. Un giorno tornato dal castello dopo una passeggiata, all’ora consueta della posa, la portinaia appena mi vede, mi dice con faccia seria nel suo dialetto: – Sior Pitur, ghe oena siura che vel parlaga ignita de Bresa. L’ho fada sentar zo’n salot, ( Signor pittore, c’è una signora che vuol parlarle, venuta da Brescia. L’ho fatta accomodare in sala). – Chi sarà mai – dissi fra me – questa signora? -Salgo difilato su nel salone e vedo in fondo, presso il divano rosso, una signora in piedi, elegante con un gran cappello, abito chiaro alla moda, scarpini. Mi avvicino inchinandomi. Essa da in una gran risata. Era Menega che d’accordo con la casiera si era vestita con gli abiti della contessa lasciati nel guardaroba. “Mi dovrebbe ora pitturare così – mi diceva – pavoneggiandosi e agitando il ventaglio. – Non sono forse più bella? – No cara, – le dissi subito – io ti preferisco scalza, coi tuoi zoccoli senza cappello e col grembiule piuttosto che in questo lusso. Ognuno sta bene nei cenci del suo proprio stato. Il veleno di questo scherzo consisteva nel fatto che Menega, furbacchiola, sapeva che io avrei desiderato l’apparizione corporea nel castello, di una certa elegante signorina di Brescia che allora m’interessava .
Con il passare dei giorni il pittore concluse il quadro: “(…) Piaceva a Menega e alle sue amiche. Piaceva alla portinaia casante. Venendo ad una società più elevata, riscuoteva l’approvazione dell’arciprete, del dottore; del direttore di posta e tabaccaio, del fattore, e della maestra d’asilo. Ma io voleva il parere di un pubblico speciale e soprattutto del mio maestro Venturi. (….) Ben presto ebbi il piacere di rivedere Roberto Venturi e di presentargli l’opera mia (…) Egli dopo averla esaminata attentamente in silenzio per qualche minuto, si volse e mettendomi la mano sulla spalla mi disse: “Qui mi pare che lo scolaro voglia presto superare il maestro”. (…) Questo giudizio lusinghiero del mio maestro, segnò una data memorabile nella mia vita (…) Io decisi di lasciar Padernello e Brescia e di recarmi all’estero. Il demone dell’avventura e dei viaggi mi aveva invaso. Prima che io partissi, Menega volle un mio ricordo. Indovinate che cosa? Un pennello, di quelli che io avevo adoperato lavorando con essa. I miei pennelli erano per lei bacchette magiche. Antonio Salvetti riuscì ad affermarsi come pittore dedicandosi soprattutto alla ritrattistica e non tornò più a Padernello per moltissimo tempo: “(…) E poi…. gli anni passarono molti, veloci, inesorabili, or tristi or lieti (…). Gli anni, invece, per Bernardo Salvadego non furono molti da quell’estate del 1881, perché il 17 novembre 1887 veniva trovato privo di vita in un fosso nei pressi di Barbariga (Bs), colpito improvvisamente da un aneurisma aortico, all’età di solo cinquantatré anni. Nell’ultimo periodo della sua vita Bernardo è ricordato come particolarmente meditativo e solitario. La possibile spiegazione di tale comportamento si trova in una lettera scritta nel 1865 dal giovane conte Salvadego al padre, nella quale si mettono semplicemente in luce caratteristiche inedite di un esistenzialismo di sapore già tutto novecentesco: “(…) Se non mi è dato di trovare la calma dell’animo neppure nell’attuale mia vita tranquilla, tanto meno credo che la troverò fra la noia ed etichetta della corte. E non me ne importerebbe neppure dal lato dell’amor proprio poiché la vita non ha più alcuna attrattiva essendo caduto dai miei occhi il velo di qualsiasi illusione (…)”
Nella primavera del 1927 invece Antonio Salvetti ritornò nella provincia bresciana, ospite a Passirano del marchese Luigi Fassati (1881-1944) e questo è l’ultimo ricordo e l’ultima immagine che ci lascia del castello e della famiglia Salvedego: “ (…) Volli rivedere qualche tempo fa, Padernello. Vi fui ricevuto colla tradizionale cortesia e signorile ospitalità dal conte Filippo, figlio del fu conte Bernardo. Rimisi piede nel castello ripassando su quell’antico ponte levatoio che tante volte avevo alzato e abbassato facendone cigolar le catene. Tutte le rane del fossato e dell’ampia gora che bagna intorno il castello, gracidavano in coro solenne come una volta e mi pareva mi dessero il ben tornato. Rividi quelle stanze, quei ricchi austeri saloni, ove lavorai con tanto entusiasmo, dove sognai glorie e capolavori (…).
Bernardo Salvadego e Antonio Salvetti – L'incontro tra un generoso mecenate e un giovane pittore
L'artista realizzò tre vedute del castello di Padernello, quasi come illustrazioni fotografiche. Il giovane pittore si attiene ad una scrupolosa resa del vero cercando di soffermarsi sullo studio della luce nell’ambiente e nell’atmosfera che porta al mutamento del tessuto cromatico di ogni singola immagine. Il ritratto della mandriana e il racconto di Salvetti