di Enrico Giustacchini
Continua il viaggio di “Stile” nell’alta moda, per indagare il complesso di relazioni che intercorrono tra questo ambito creativo e le arti figurative. Enrico Giustacchini ha incontrato Pierre Cardin.
Cardin, lei ama affermare: “L’art c’est toute ma vie”. Ed in effetti, la sua sconfinata passione per l’arte è risaputa. Quali sono, tra i maestri del passato, quelli che predilige?
Il primo nome che mi viene in mente è Pisanello: per il suo gusto del racconto, per la sua fantasia, per la capacità di trasmetterci nei dettagli lo splendore dei costumi dell’epoca tramite una inimitabile fluidità del segno e delle forme. Ma certo non è il solo. Potrei anzi dire, banalmente se si vuole, che un po’ tutta l’arte mi piace: da Botticelli a El Greco, da Holbein alla pittura veneta del Cinquecento, dalla Scuola toscana ai fiamminghi… E poi le modalità espressive dei popoli antichi, gli egizi, i cinesi, i cambogiani… Lei sa che ho fatto quarantasette volte il giro del mondo? Ebbene, durante quei viaggi le visite ai musei hanno sempre occupato una parte considerevole del mio tempo. Ed i miei interessi sono sempre stati a trecentosessanta gradi, senza gerarchie preferenziali.
Ciò vale anche per l’arte contemporanea?
Com’è noto, tra le mie attività ce n’è una di cui vado particolarmente fiero: il sostegno e la promozione di giovani artisti di valore del panorama internazionale. A tal fine, nel 1970 ho inaugurato a Parigi una prima struttura multifunzionale, l’“Espace Pierre Cardin”, cui ne sono seguite negli anni successivi altre tre: “Concept Créatif”, Palais Bulles ed il castello di Lacoste, che fu residenza del marchese de Sade. Oggi qualche collega ha ripercorso le mie orme, ma io sono stato un pioniere (così come nella realizzazione di musei della moda: adesso tutti i grandi stilisti si fanno il museo personale, ma io fui il primo, e posso vantare una collezione di cinquemila abiti, che non ho mai voluto vendere). Per tornare alla sua domanda, sì, anche per l’arte contemporanea vale ciò che ho detto a proposito dell’arte antica: sono sempre disposto ad apprezzare il talento, in qualunque modo si esprima.
C’è però qualche tendenza recente che si sente di evidenziare in modo particolare?
Trovo molto interessante la pittura giapponese degli anni Novanta, che ha influenzato ed influenza molti autori occidentali, proprio come avvenne nell’Ottocento con il japonisme, che tanta attenzione riscosse tra gli artisti europei, a partire dagli impressionisti.
E le sue creazioni – l’alta moda, il design (a partire dalla celebre linea di mobili-scultura “Utilitaires”, del 1977, e via via tutto il resto) – hanno trovato ispirazione nell’arte, antica o moderna che sia?
Ogni forma di bellezza finisce per ispirare. In questo senso, è possibile che io mi sia ispirato all’arte. Ma certo, non in modo diretto. Certo io non ho mai copiato. Oggi molti copiano, anche nel mio settore, e spesso dall’arte contemporanea. Conosco colleghi che possiedono un gusto perfetto, impeccabile, ma che non sono creativi. Un grande creativo è chi riesce a realizzare cose che prima non esistevano; è uno che non copia, appunto. Per produrre un’opera d’arte basta un’idea. La tecnica aiuta, senza dubbio: ma l’arte è idea. Ed il mio motto preferito, il mio imperativo è “Creare”.
E la moda è una forma d’arte? Sembrerebbe di sì, se è vero che i suoi vestiti sono stati esposti nei principali musei del mondo, dal Metropolitan di New York al Gogetsu Kaikan in Giappone, al Victoria and Albert Museum di Londra…
Moda e arte sono forme espressive parallele. Come il design: a me piace sottolineare che posso fare un abito che somiglia a una sedia – con le fasce a mo’ di schienale, magari -, o viceversa.
Pierre Cardin artista, dunque; Pierre Cardin scultore, maestro ed instancabile sperimentatore di forme e volumi, inventore di abiti che proprio in virtù della loro originale plasticità – è stato detto – “sembrano stare in piedi anche da soli”. Lei ha dichiarato in un’occasione: “Nel mio lavoro, proporzioni e linee sono primordiali. Amo disegnare nell’assoluto, senza gli ostacoli degli angoli, dei colori. Io non amo che la semplicità”.
Sì, è vero… Creare un abito è per me dar vita ad una scultura. Io non seguo il corpo, il corpo non esiste, prima c’è la forma. L’abito è forma, è un vaso dentro cui mettere un corpo. Sono sempre stato affascinato dal cerchio, linea che non ha inizio né termine. Non mi piacciono gli angoli, sono un inciampo, un disturbo. Credo di essere stato influenzato, in tutto ciò, da una tensione “filosofica” verso l’infinito, concetto supremo a cui ogni uomo, insignificante granello di polvere, tende o dovrebbe tendere.
E’ anche per questo che le sue creazioni hanno sovente contenuto richiami – mi riferisco soprattutto agli anni Sessanta-Settanta – al cosmo, ai viaggi spaziali?
Allora io sognavo di andare sulla Luna: davvero, non metaforicamente. Sono l’unica persona a cui è stato concesso di indossare la tuta che aveva Neil Armstrong quando mise piede – primo essere umano – sul nostro satellite.
Tornando al concetto di abito come scultura: le sue sono state – almeno per un certo periodo – sculture polimateriche, seppur nella fedeltà al principio di purezza formale.
Negli anni Sessanta arricchivo i miei vestiti con materiali diversi: plastica, metallo, vetro, pietre preziose (false)… Ricorrevo all’asimmetria, alla tridimensionalità… Sono stato definito, e ritengo non a torto, un protagonista dell’avanguardia, un anticipatore di tendenza, e non nella moda soltanto. E che la mia “modernità”, che allora destò tanto scandalo, non fosse effimera, è confermato proprio dal fatto che quegli abiti ancor oggi sono considerati da tutti estremamente attuali.
Lei si è cimentato anche nella scultura vera e propria.
In passato, sì: ma da tempo, ormai, non scolpisco più. Scolpire era un altro modo per misurarmi con quel senso di manualità, di manipolazione che in me è sempre stato molto forte. Alcune delle opere realizzate – parlo di una quarantina di anni fa – sono nella collezione dell’“Espace”.
Cardin, lei ha avuto la fortuna di poter frequentare con assiduità alcuni dei maggiori protagonisti dell’arte del Novecento.
E’ così. Avevo poco più di vent’anni quando incontrai Picasso, Braque, Miró, Dalí, ed altri ancora.
In particolare, è con una figura peraltro complessa e problematica come Salvador Dalí che lei instaurò un duraturo ed intenso rapporto di amicizia.
Con Dalí ci si trovava spesso. Quando eravamo soli noi due, egli si comportava in un modo assai diverso da quello che la gente conosceva; era gentile, affabile, pronto alle confidenze: mi raccontava delle sue vicende di gioventù, del legame con García Lorca, delle estati felici trascorse a Cadaqués… Bastava però la presenza di una terza persona, perché si verificasse la metamorfosi: cambiava di scatto, cessava in lui ogni traccia di familiarità, iniziava ad atteggiarsi a personaggio, secondo gli stereotipi che oramai si portava appresso. Comunque è stato un vero amico, un amico indimenticabile. Il successo che ha accolto in tutto il mondo “Dalí Folies”, la commedia musicale ispirata ai testi e ai dipinti di Salvador e da me prodotta, mi ha dato perciò un’enorme soddisfazione, e va considerata quale affettuoso omaggio alla memoria di un maestro della pittura del Novecento.
E Fontana, alla cui esperienza spazialista le sue creazioni sono state spesso accostate? Lo ha conosciuto?
Ho fatto in tempo ad incontrarlo poco prima che morisse. Ho conosciuto bene, invece, la moglie ed i figli.
Vi sono stati artisti che si sono richiamati alle sue creazioni per realizzare le loro opere?
Ricordo Andy Warhol – che, come tutti sanno, non si separava mai dalla propria macchina fotografica – fotografare me ed i miei abiti: tra l’altro, devo dire, senza neppure aver chiesto prima il permesso. Ma lui era fatto così. E a proposito di fotografi, sono numerose le grandi firme che hanno collaborato con me: Cartier-Bresson, Cecil Beaton, William Klein ed altri ancora. L’anno prossimo a Parigi verrà allestita una mostra di miei ritratti eseguiti da questi maghi dell’obbiettivo.