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Con il termine “citazionismo” si indica una scelta artistica che “cita”, spesso in una rete di rinvii colti, la pittura e l’arte del passato, con particolare riferimento all’arte classica. Gli artisti che aderiscono a questa modalità espressiva rifiutano la completa cancellazione d’ogni dimensione del passato, proclamata dalle avanguardie, all’inizio del Novecento, e reiterata nello sperimentalismo novecentesco e nell’arte contemporanea, di matrice neo-dadaista e concettuale, pur con alcune eccezioni. In buona parte dei casi il citazionista usa la pittura come medium ed è un neo-figurativo. Sotto il profilo delle ascendenze è possibile individuare una linea intellettualmente vigorosa che parte da Puvis de Chavanne, viene rilanciata da De Chirico ed entra pertanto nella pittura metafisica e surrealista. Atmosfere sospese, incanti, incubi, labirinto che permangono nel bagaglio del citazionismo. Come evidenzia Jacqueline Ceresoli, nel saggio breve che qui pubblichiamo, esistono anche forme citazioniste nel campo del concettuale e dell’arte povera, che mettono in contrapposizione il passato e il presente, con cortocircuiti e contrasti imprevisti e imprevedibili (ndr)
di Jacqueline Ceresoli
[I] templi, le colonne, gli dei, gli eroi tragici, le ninfe pagane, le veneri, gli androgini, le figure alate, gli animali fantastici, i frammenti del corpo, i busti acefali sono icone di classicità, o presupposti formali evocativi di indubbio fascino, che suggeriscono variazioni sull’idea dell’antico agli artisti di ogni tempo. Il classico, ovvero la tradizione figurativa della cultura occidentale, è una fonte inesauribile d’ispirazione per licenze poetiche o visionarie trasposizioni di paradisi immaginativi da esplorare con la fantasia. Il tema, apparentemente facile, cela inganni e induce a riflettere sulla permanenza del passato nel moderno, nel pensare l’arte. Il ritorno alla memoria classica, all’ordine, alla nostalgia della perfezione dell’immagine, ai canoni matematici e al virtuosismo calligrafico consente agli artisti di rivisitare il mito in chiave enigmatica, rappresentando l’idea dell’arte nel presente. Per loro è importante l’idea del classico che interroga l’arte e sollecita lo sguardo affinché possa vedere le forme del mito. Agli artisti interessano le ombre, i riflessi, i colori, i vuoti, e le pause tra un pensiero e l’altro, cesure entro cui si plasmano mondi invisibili, vivendo un’esistenza visiva. Il mito, dai primi decenni del XX secolo, è rivissuto dagli artisti di ogni tempo attraverso l’immaginazione del classico che materializza sagome, fantasmi del profano, apparizioni o vocazioni di bellezza “ideale” accattivanti. Il padre degli artisti definiti “anacronisti” o “citazionisti” è De Chirico (anche se il “pictor optimus” non fu il primo a interpretare l’idea del classico per scoprire nuovi linguaggi, inscenando l’enigma della bellezza).
Gianfilippo Usellini (1903-1971) è un anomalo metafisico che ha trasformato la classicità in una intuizione surreale; i suoi eroi, tolti dall’Olimpo, sono stati trasportati in una dimensione fiabesca. L’artista compone allegorie del mito, che non hanno nulla a che fare con le accademie, i musei, ma animano la vita quotidiana . Nell’epoca della globalizzazione, il recupero del classico nelle opere moderne provoca quesiti irrisolvibili sull’estetica contemporanea, in perenne metamorfosi e per ciò inafferrabile. I pittori neo o post-classici, visionari, metafisici e concettuali nella loro rappresentazione di una dimensione mitica originale non si contano; l’idea del classico è una sfida dell’arte della visione.
Nel 1926 il gruppo di Novecento promosso da Margherita Sarfatti raccoglieva artisti che, sotto l’egida arcaicizzante, sostenevano il ritorno alla forma pura e al naturalismo, entrambi disgregati dalla sperimentazioni delle avanguardie condotte nei primi decenni del XX secolo. L’idea del classico è un rêve per ogni artista, per sconvolgere o perfezionare canoni di bellezza del presente ancora indefinibili. Il mito è un sogno, un’icona immaginaria, a volte un rifugio nostalgico, in particolare per la pittura definita colta o citazionista. In quest’ambito di ricerca sono rappresentativi Carlo Maria Mariani (1931), con le sue anacronistiche immedesimazioni neoclassicheggianti, e Stefano di Stasio (1948), di vena più ironica. Questi e altri cultori della mitologia, ispirandosi all’idea del classico, sollevano filosofiche questioni sul senso dell’arte e sul valore della rappresentazione. Non è questa le sede per discutere le numerose querelle tra gli Antichi e i Moderni, dibattute dal Seicento ad oggi; sappiamo che il ricorso al passato nell’arte è presupposto per individuare anche nei linguaggi tradizionali icone e nuovi miti. Le opere presentate in queste pagine riguardano artisti attivi dagli anni 60/70, che attraverso l’idea del classico riflettono sul concetto dell’arte e sul senso dell’opera. Le creazioni di Giulio Paolini (1940), un sofista e cultore della rappresentazione dei concetti di bellezza, metamorfosi, ermetismo, indagano variazioni sul tema dell’antico, proponendo una nuova mitologia e pensieri sull’arte.
Le installazioni di Fernando De Filippi (1940), a metà tra architettura e pittura, si distinguono per le loro componenti oscillanti tra il gioco e la tradizione, teatrini che inscenano enigmi metafisici, sofisticati templi o “macchine d’illusione”, dove si animano i miti mediterranei sublimati. In questi palcoscenici “di sogno” il protagonista è il desiderio di estasi estetiche, fluttuante nei luoghi della memoria. La sua Grecia immaginaria è una culla semantica, un miraggio dell’artista naufrago nell’oceano dei simboli, che per sopravvivere rende visibili visioni profane.
Vettor Pisani (1935) e Claudio Parmiggiani (1943) in alcune opere rivisitano le opere del passato con intenti più ironici, sulle orme di Marchel Duchamp e di Man Ray. Questi artisti intervengono sulle opere classiche, utilizzando spesso calchi di gesso trasformati in ready-made con intento ludico per scombinare i sensi dell’arte. Un altro esempio di intuizione visionaria del classico è la Venere blu dipinta da Yves Klein (1928-1962), un calco in gesso acefalo contrassegnato dall’inconfondibile profondo blu oltremare brevettato nel 1960. Per Luciano Fabro (1936), tra i protagonisti dell’Arte Povera, il mito, il rapporto con la tradizione sono tramiti di conoscenza: una sofia. Le sue complesse installazioni devono percorrere e interagire con lo spazio. Apparentemente semplici e di aura sacrale, le sue opere sono in realtà il frutto del massimo sforzo di ricerca per ottenere il minimo risultato formale per una percezione immediata di un lavoro svolto all’insegna dell’artificiale naturalezza, anche nei materiali scelti.
Valerio Adami (1930) è un pittore figurativo nostalgico interessato al soggetto classico per eccellenza, il corpo rappresentato nelle sue metamorfosi. L’artista dipinge figure vestite, nudi dai muscoli prominenti, uomini simili agli eroi tragici. Adami ha scritto: “La mia sola qualità è il classicismo del disegno”. Gli artisti fanno appello alla classicità per ricomporre miti infranti, realizzando falsi reperti greco-romani a volte rappresentati con l’occhio dell’archeologo, altre completamente trasfigurati per soddisfare un personale concetto di classico-fantastico nel culto della creatività.
Luigi Ontani (1943) interpreta il classico in prima persona attraverso “tableaux vivants” ambigui e affascinanti. Nei suoi atti teatrali unici celebra se stesso, autorappresentandosi in modo ironico e provocatorio. L’artista-attore gioca con la classicità trasformandosi nei diversi personaggi della storia mitologica e letteraria, e pone la sua figura ieratica come mito della trasformazione dell’arte.
Tony Oursler (1957), attraverso il video, lo strumento delle nuove forme dell’apparenza, coglie nella natura morta di calchi antichi dal titolo “Vanity”, l’assoluto inganno percettivo della memoria e la fragilità delle icone assurte a mito dell’arte. Le sue apparizioni sollevano non poche questioni sulla filosofia della visione. Vediamo solo ciò che guardiamo, e il mito è l’enigma del pensiero che pensa se stesso, eccitando la visione dell’arte come testimonianza di una verità illusoria.