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[N]el saggio Il demoniaco nell’arte, pubblicato la prima volta circa mezzo secolo fa e oggi riproposto in una nuova edizione da Bollati Boringhieri (320 pagine, 30 euro), il filosofo Enrico Castelli (1900-1977) offriva una sua affascinante interpretazione dell’eterna questione intorno alla coesistenza del bene e del male, dei loro limiti e delle loro potenzialità, attraverso un’originale disamina dell’arte sacra.
Tale analisi era accompagnata da un acuto commento a svariate rappresentazioni pittoriche del demoniaco, finalizzato a mostrare come in alcuni contesti culturali gli artisti abbiano rivestito il ruolo di veri e propri teologi.
L’autore, che in precedenza aveva affrontato una lunga serie di studi attorno ai problemi di un’interpretazione teologica-antropologica dell’arte, in questo libro si soffermò in particolare sulla produzione pittorica del periodo compreso tra il XIV e il XVII secolo ad opera dei diversi maestri nordici, da Bosch a Bruegel, da Cranach a Patinir, da Huys a Dürer, i quali avevano doviziosamente illustrato nei loro dipinti i tenebrosi meandri del demoniaco, della kabala, dell’alchimia. Del resto, è noto che, mentre in Italia il Rinascimento era pervaso da una concezione puramente idealistica, l’arte fiamminga riflettesse una forte inquietudine, un senso profondo di malessere sociale ed individuale e una crisi dei valori sempre più accentuata, che espresse con forme pittoriche spesso pervase da un particolare gusto per l’orrido.
Gli autori esaminati, il cui lavoro palesa indiscutibilmente l’influsso della teologia mistica del XIV e del XV secolo, scelsero in effetti di utilizzare la rappresentazione del male come una sorta di mezzo di contrasto attraverso cui indicare la via della santità, unica speranza di salvezza per l’individuo. Così, non stupisce che i temi dei grandi predicatori dell’epoca, come Jan Ruybroeck o il beato Enrico Suso, ricorrano per esempio con impressionante parallelismo nell’opera pittorica di Bosch o dei suoi seguaci.
Più in generale, il ricco catalogo iconografico raccolto da Castelli per accompagnare le proprie argomentazioni illustra come alla base di un’arte che nel compiacimento dell’orrido, del deforme o del falso paradisiaco riusciva a raggiungere spesso straordinarie atmosfere di terrore e di subdolo fascino, trovino limpida manifestazione alcune categorie quali il fantastico, il tremendum, il celato, il falso, lo sdoppiato, riferibili a una definizione prettamente filosofica del male, ovvero di ciò che è per sua natura orribilmente indefinito e indefinibile. Nei dipinti in questione, il diabolico appare precipuamente caratterizzato da una terrificante metamorfosi che non ha requie, poiché esso si incarna perennemente ora in una forma ora in un’altra, allo scopo di risultare ingannevole agli occhi degli stolti, e di indurli in tentazione.
Nelle opere di tutti gli “artisti-teologi” si verifica per esempio il frequente ricorso alla raffigurazione del fantastico, inteso come un irreale connotato in senso comico. Osserviamo nelle inquietanti composizioni di Bosch o nei disegni di Bruegel il Vecchio sorprendenti panorami zoomorfici, affollati da demoniache e oniriche visioni: sfilano in una parata surreale teste-case, capanne-copricapi, pesci alati o con le gambe, topi volanti, dita-rami, mulini-brocche, uccelli-rospi, uomini-arpe, gambe umane che terminano in virgulti, pesci sormontati da torri, corpi-cortecce al cui interno si tengono banchetti, e piedi e mani e occhi a non finire.
E ancora, nelle opere di Cranach fanno la loro stupefacente comparsa libellule-coccodrilli, in quelle del Civetta (Hendrik Met de Bles) ammiccano uomini-chiocciole, farfalle-scorpioni umanizzati, crostacei, bocche enormi di esseri indefinibili.
I demoni che sferrano la loro offensiva, spiega Castelli, nel loro non essere natura, generano il fantastico ad oltranza, manifestandosi in queste forme che spesso non mancano di suscitare ilarità. Ma l’aspetto comico si limita ai dettagli: infatti, il senso complessivo delle composizioni è dominato da un valore tragico, poiché è chiara l’allusione allo sconcertante e incessante assalto dei demoni all’uomo. E da ciò scaturisce anche il senso dello strazio che percorre, come un brivido, non soltanto le opere di Bosch, dei Bruegel, di Huys, ma anche quelle dei fiamminghi “minori”, tutti impegnati a rendere conto del doloroso confronto fra l’essere santo, condannato all’impossibilità della fuga, e la visione di ciò che è orribile, tanto tremendum da rappresentare la tentazione massima.
I demoni, infide e subdole creature, si celano agli occhi di chi osserva: esseri che si nascondono popolano quadri e incisioni di Cock, di Bosch e dei suoi seguaci, di Lucas van Leyden, dei Bruegel e degli innumerevoli imitatori. Le potenze del male sfruttano l’inganno che il desiderio di sapere favorisce, e si nascondono senza rendersi totalmente invisibili, per suscitare la curiosità ed indurre a commettere peccato. Contro la forza dell’estrema tentazione vince, unica, la grazia divina: se il mostruoso cioè rappresenta la lusinga più terrificante, esso può essere combattuto soltanto con la preghiera.
La maggior parte delle illustrazioni del tema della tentazione ha avuto per oggetto le vicende della vita di sant’Antonio (motivo frequentatissimo, che ha preso forme imponenti in opere capitali, come quella di Bosch al Prado). Martin Schongauer aprì la grande serie di queste raffigurazioni con un’incisione in cui il santo abate appare afferrato da una schiera di esseri infernali e mostruosi che lo portano in alto, nel tentativo di far nascere l’equivoco di essere strumenti di elevazione. L’unica risposta possibile viene indicata nella completa imperturbabilità, nella non-reazione, per dimostrare che non si è toccati dal male.
Questo profondo motivo teologico si ripete anche in Cranach, nella ridda strabiliante di deformi creature alate che spingono in aria la loro vittima, in Ian Mandyn, in Joachim Patinir e in Ian Wellens de Cock, che offre da parte sua una visione del Santo rapito da mostri, uno dei quali ostenta sul capo una clessidra aperta, simbolo dell’impossibilità di calcolare il tempo martoriante della tentazione. C’è da aggiungere un particolare iconografico non trascurabile. Perchè, in molte antiche rappresentazioni, il diavolo nasce come deformazione di un insetto? Dall’invasione delle locuste alle cavallette apocalittiche, la Bibbia risulta fonte primaria della rappresentazione del male sotto forma di queste piccole, fameliche, incomprensibili creature. Ma ciò è anche alimentato dall’assoluta negatività degli insetti rispetto alle colture umane e alla salute. Piccoli, insidiosi, spesso invisibili essi possono pungere, provocare dolore o insopportabile prurito. Al punto da tornare, in film e fumetti, nel Novecento come prototipo costruttivo della figura dell’extraterrestre, sia per forma che per colorazione.
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