di Maurizio Bernardelli Curuz
La reiterata presenza di silhouette o ritratti canini, caratterizza la preparazione delle opere del Caravaggio. Le immagini degli animali, si inseriscono in quel reticolo di trattamento dell’imprimitura che risulta ben evidente sia nelle radiografie che nelle immagini macro e che che è stato oggetto degli studi di chi qui scrive, negli ultimi anni. Caravaggio non lavora mai su una tela vergine.
Aveva, infatti, necessità, di dipingerla con un numero infinito di piccoli disegni, simboli, stemmi, figure di animali, che poi coprirà parzialmente, lasciandoli affiorare, grazie all’uso di vernici e velature, affinché interagiscano come motore di sommovimento della superficie e, al tempo stesso, come dispositivo di autografia.
Accanto al fiore, alla nave, al muso di leone stilizzato, alla colonna sormontata da un bambino o da un angelo, accanto, ancora ai rettili – tra i quali insiste, fortissimamente, la presenza di un colubro e di un drago – per tanti aspetti simile al ramarro – il cane appare con una forte evidenza espressiva, caratterizzandosi come personaggio buono. Anche da queste “damascature” di preparazione della tela risulta evidente l’amore dell’artista per i cani e ciò getta nuova luce – confermandone la natura di dato non episodico – sul rapporto di straordinaria intensità che l’artista ebbe con un cane, un barbone chiamato Cornacchia.
Cornacchia come il gracidante inquilino dei cieli e come una precisa figura della cultura ermetico-alchemica alla quale, certo, Michelangelo di Caravaggio doveva essere particolarmente vicino: il corvo minore. Cornacchia per il colore del vello, nero come l’ombra profonda, d’un colore cangiante come gli abissi pittorici di Merisi.
Il rapporto con gli animali, in Caravaggio fu attento e denso di comunicazione affettiva. E in altro modo non potrebbe spiegarsi, appunto – se non frutto di una passione intensa – sia il ritorno simbolico di cani da caccia o da compagnia, nei reticoli delle preparazioni che la propensione del maestro all’addestramento dei cani stessi.
Caravaggio addestrò, come vedremo. Cornacchia al punto da poterlo fare esibire in giochi complessi e divertenti, che diventavano allegri momenti di spettacolo per gli amici.
La vicenda di Cornacchia viene narrata da Giovanni Baglione ne “Le vite de’ pittori, scultori et architetti. Dal Pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a’ tempi di Papa Urbano VIII nel 1642”. Baglione, come ben sappiamo, era un concorrente acerrimo di Caravaggio, un pittore che aveva portato Caravaggio stesso in tribunale per il reato di diffamazione. L’artista lombardo aveva infatti pubblicamente dileggiato, in modo pesante, il concorrente, colpendolo duramente sotto il profilo professionale. Nonostante questo episodio di grave dissidio, Baglione fu il primo biografo del Caravaggio del quale, con assoluta sincerità, riconobbe la grandezza, nonostante avvertisse che il caravaggismo aveva prodotto gravi danni imitativi. E’ proprio affrontando la vita di un fedele emulo di Merisi, Carlo Saraceni (Venezia, 1585 – 1625) che Baglione si riferisce al cane Cornacchia. Sostanzialmente, Baglione descrive l’appiattimento assoluto dei modi dei caravaggisti, un processo imitativo assoluto che riguardava persino il modo guascone d’essere: eleganti nei modi ed evidentemente negli abiti – al di là delle annotazioni sui vestiti vecchi fino alla consunzione che il maestro portava – , abbigliati come nobili, orgogliosi, spocchiosi, i caravaggisti riprendevano le abitudini del maestro, come l’atteggiamento costantemente ironico e la passione per la cinofilia. Insomma: Baglione critica Saraceni perchè vuole imitare il maestro in ogni cosa, persino nella passione per i cani. E racconta che Manfredi aveva un barbone nero come quello di Merisi, al quale aveva dato lo stesso nome imposto dal maestro alla propria simpatica bestiola che era da tutti ricordata perchè in grado di “fare bellissimi giochi”- Scrive infatti Baglione: “Costui faceva del bell’ humore, e voleva andar sempre vestito alla francese benché egli non fosse mai stato in Francia, né sapesse dire una parola in quel linguaggio. E per chi gli protestava d’imitare Michelagnolo da Caravaggio, il quale menava sempre con sé un cane barbone negro, detto Cornacchia, che facea bellissimi giuochi, Carlo menaua seco ancor esso vn cane negro, e Cornacchia lo chiamava, come l’altro; cosa da ridere di questo homore, che nelle apparenze riponesse gli habiti della virtù”
Caravaggio aveva imparato a disegnare i cani nello studio del suo maestro, Peterzano, ma è ipotizzabile che la passione per questi splendidi animali – simbolo dell’amore fedele e delle dedizione – fosse precoce, considerato il trasporto per i cani e l’abilità nell’addestramento – e che fosse nata proprio nel paese di Caravaggio, tra il palazzo di Costanza Colonna e la casa patrizia del nonno Giangiacomo Aratori. Peterzano, il suo maestro, aveva frequentato la bottega di Tiziano e Tiziano utilizzava molto spesso i cani, nei dipinti, per conferire il tono dell’atmosfera della scena. Un cane placidamente addormentato e ripiegato in se stesso, sul letto ai piedi della padrona – come nella Venere d’Urbino – comunicava al lettore un senso profondo di tranquillità Un animale che abbaiava furiosamente, come in Diana e Atteone, conferiva un tono drammatico e rumoroso alla scena stessa. Come ho dimostrato in uno studio di alcuni anni fa, cani e piccoli animali domestici ebbero, in pittura, il ruolo prezioso di segnalare suoni irrilevabili, di accendere il sospetto di una presenza non vista, di annunciare l’arrivo di qualcuno, di mettere in guardia evocando una situazione di pericolo.
Anche Peterzano aveva fatto ricorso ai cani per connotare un’atmosfera, ma gli animali sembrava che avessero, in effetti, più un ruolo timbrico legato all’atmosfera e alla rappresentazione simbolica di fedeltà, che essere oggetto di quella modernissima effusione sentimentale che troviamo, poi, nel Caravaggio
I piccoli meticci nervosi di Tiziano e di Peterzano tornano nel dipinto parietale del Casino Ludovisi, a Roma, dipinto da Caravaggio attorno al 1597. Al dettaglio canino – al quale ha dedicato un’acuta nota la collega Claudia Renzi – Caravaggio si dispone con un atteggiamento di ironia grottesca. Anzichè assegnare a Cerbero il volto aggressivo di mostruosi molossi, simili a draghi, Michelangelo Merisi pensa di utilizzare un meticcio nervoso, dotato di tre teste. Un abbassamento di cornice aulica, una presenza in grado di rievocare i latrati, gli ululati e l’incontenibile, nervoso abbaiare dei cani di piccola taglia.
Novità assoluta di queste ore è l’isolamento, da parte di chi scrive – di un cane simile a un maltese, in grado di trasformarsi, alla distanza, grazie alle figure ambigue dipinte dal Caravaggio, in una sorta di unicorno – dipinto nella regione occipitale del cranio di San Pietro e in diretta interlocuzione con il volto di Cristo nella Vocazione di San Matteo (particolare che vediamo qui sotto). L’intenzione di dipingere un animale è evidente non solo per la modellazione del muso, ma per la presenza, incongruente, di una piccola forma scura e sferica che non si collega in alcun modo alla testa del santo. Un corpo estraneo che appartiene al simpatico animale, che rappresenta la Fedeltà.
Cornacchia, il cane-barbone sapiente e giocoliere del Caravaggio. L'amore dell'artista per i cani
Novità assoluta di queste ore è l'isolamento, da parte di chi scrive - di un cane simile a un maltese, in grado di trasformarsi, alla distanza, grazie alle figure ambigue dipinte dal Caravaggio, in una sorta di unicorno - dipinto nella regione occipitale del cranio di San Pietro e in diretta interlocuzione con il volto di Cristo nella Vocazione di San Matteo ( particolare che vediamo qui sotto). L'intenzione di dipingere un animale è evidente non solo per la modellazione del muso, ma per la presenza, incongruente, di una piccola forma scura e sferica che non si collega in alcun modo alla testa del santo. Un corpo estraneo che appartiene al simpatico animale, che rappresenta la Fedeltà