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di Matteo Corvaglia
Nel 1969 Cat Stevens si ammalò gravemente di tubercolosi. Era allora considerato una delle nuove promesse del cantautorato inglese: nel giro di pochi anni era riuscito a imporsi come il nuovo idolo teenager del Regno Unito, pubblicando un paio di dischi orecchiabili e dal gusto marcatamente retrò, infarciti di fantasie di archi e fiati, e piazzando qualche singolo (come la celebre Matthew & Son) nelle prime posizioni della classifica inglese.
Nonostante il successo dirompente e nonostante l’indubbia qualità compositiva di questo primo, acerbo materiale dato alle stampe, la fase giovanile della carriera del cantautore, quella precedente alla malattia, può essere considerata per molti versi trascurabile.
Non è un caso che le canzoni davvero immortali di Cat Stevens risalgano tutte ad un periodo posteriore al 1969, da Lady D’Arbanville a Wild World, dalla delicata Moonshadow all’inno pacifista Peace Train:la forzata convalescenza fu per Cat Stevens motivo di una vera e propria crisi esistenziale, portandolo a riconsiderare il proprio ruolo come essere umano e come musicista. Quando, dopo mesi di cure, uscì dal King Edward VII Hospital di Midhurst, località del West Sussex, Cat Stevens era uomo molto diverso rispetto a quando ci era entrato: ora era vegetariano, praticava lo yoga, e mostrava un acuto interesse per le religioni orientali e le pratiche di meditazione. Ma soprattutto, cosa ben più rilevante, aveva con sé una grossa manciata di nuove canzoni, scritte tra le lenzuola dell’ospedale: brani indubbiamente tormentati eppure in un certo qual modo ariosi, luminosi, colmi di quella misteriosa e palpitante speranza che da lì in poi avrebbe caratterizzato la sua produzione.
2. Copertina di Mona Bone Jakon
Qualche mese più tardi, nel luglio del ’70, Mona Bone Jakon, il terzo album di Cat Stevens, comparve nei negozi di dischi, presentandolo come un artista molto differente da quello con cui il pubblico aveva familiarizzato solo poco tempo addietro. Gli arrangiamenti erano molto più scarni, imperniati principalmente su linee di chitarra acustica o pianoforte, la voce più cupa e matura, i temi affrontati più impegnati e sofferti: le canzoni della raccolta stavano inconsapevolmente assurgendo a modello di assoluto riferimento per lo sviluppo successivo del folk inglese.
Il giovane cantautore si muoveva con maestria tra la consapevolezza dell’incombere della morte e la promessa di un futuro radioso, tra il rifiuto della fama e il rammarico per le inevitabili disavventure della vita, affidandosi a parole semplici ma mai scontate, paradossalmente difficili da interpretare pur nella loro naturalezza; sul retro del disco compariva una foto di lui immerso nella natura, con i capelli corvini lunghi fino alle spalle e un’inedita, folta barba ad adombrargli il volto. Per la copertina frontale, invece, era stato scelto un curioso disegno, unica testimonianza di quello che avrebbe dovuto in origine essere il titolo dell’album, The Dustbin Cried the Day the Dustman Died (“Il bidone della spazzatura pianse il giorno in cui lo spazzino morì”): su uno sfondo azzurro tenue campeggiava l’immagine di un ammaccato portaimmondizie di latta, dal cui coperchio, leggermente rialzato, fuoriusciva una lacrima di colore vitreo. Ciò che non tutti sanno è che l’autore di questa originale illustrazione è Cat Stevens stesso, così come furono da lui elaborate anche le copertine dei successivi tre dischi, Tea for the Tillerman (1970), Teaser and the Firecat (1971) e Catch Bull at Four (1972).
L’incontro di Cat Stevens con il disegno e la pittura era avvenuto in realtà molto tempo addietro, quando tra i banchi di scuola il giovanissimo Steven Georgiou (questo era infatti il suo nome alla nascita) otteneva scarsi risultati in tutte le discipline all’infuori di quelle artistiche: aveva infatti sin da subito sviluppato per queste ultime una forte predilezione, e vi dedicò gran parte del suo tempo fino a che, folgorato dall’avvento dei Beatles, iniziò a strimpellare la chitarra e a scrivere le prime canzoni. L’inizio della carriera musicale lo costrinse a mettere da parte qualsiasi altra passione (per un certo periodo aveva addirittura considerato di intraprendere la professione di cartonista), ma non abbandonò mai del tutto il disegno, che rimase per lui un interesse secondario, accessorio, ma pur sempre importante. Esistono una moltitudine di dipinti, schizzi, vignette da lui elaborati sin dai primi anni della sua carriera di musicista, talvolta addirittura pubblicati su riviste musicali al fine di pubblicizzare l’uscita di un nuovo singolo o di un nuovo disco, o inseriti in opuscoli riservati ai membri del suo fan club. Dunque la copertina di Mona Bone Jakon non fu affatto la sua prima esperienza come illustratore, ma diede senza dubbio inizio ad una lunga fase in cui il cantautore riuscì a far convivere felicemente le diverse sfaccettature della propria creatività.
3. Manoscritti di Trouble e di Katmandu
È probabile che in quel fatidico anno di convalescenza Cat Stevens non si limitò soltanto a comporre nuovo materiale musicale, ma si cimentò parecchio anche nel disegno. Tant’è che osservando la custodia di Mona Bone Jakon si rimane colpiti dal fatto che i manoscritti dei testi dell’album, su di essa stampati, siano corredati da alcune illustrazioni: pochi, essenziali abbozzi di inchiostro che hanno comunque il potere dirci qualcosa in più sulle canzoni e sul background esistenziale che le ha generate. Sopra il testo di Trouble, ad esempio, brano in cui il cantautore implora disperatamente di poter finalmente avere una vita libera dai guai, compare un paio di occhi minacciosi e inibitori, intenti a spiare da dietro i versi della canzone, quasi per ricordare che le sciagure possono sempre essere dietro l’angolo; il manoscritto di Katmandu, invece, è incorniciato dall’immagine di una ninfea in fiore, simbolo del luogo idilliaco in cui l’autore vorrebbe rifugiarsi per scampare al dolore. Questa interazione tra l’attività musicale e il piacere per il disegno è davvero rilevante per una visione d’insieme della produzione di Cat Stevens, visto e considerato che le sue canzoni e le sue illustrazioni hanno spesso molti tratti emotivi in comune:tracciati con nervose linee nere sulla carta bianca, gli schizzi di Mona Bone Jakon si mostrano pienamente in linea con l’atmosfera proposta dall’album, rivelando uno stato d’animo irrequieto, dilaniato da conflitti interiori, diviso tra la più profonda disperazione e la più intensa gioia di vivere.
4. Illustrazione di copertina di Teaser and the Firecat
Se si osserva la copertina di uno degli album successivi, Teaser and the Firecat, si nota invece un cambiamento di rotta. Lo stile utilizzato è meno inquieto e più disteso, sognante, come lo è il soggetto ritratto: sotto una luna piena e un cielo stellato, seduto su un marciapiede, un buffo personaggio con un cilindro sul capo è tutto intento a porgere una lisca di pesce ad un gatto dal pelo fulvo. Sembra quasi di trovarsi di fronte ad un fotogramma tratto da un cartone animato: effettivamente, per il lancio del disco, Cat Stevens lavorò anche alla creazione di un cartoon per bambini ad esso ispirato, nel quale fu tra l’altro inserita una delle nuove canzoni, la celebreMoonshadow. Così come i disegni ad essi accostati, anche i brani del disco mostrano un carattere totalmente nuovo, essendo in generale permeati da un’estatica serenità: poche canzoni sono in grado di comunicare lo stupore di fronte alle meraviglie del mondo come Morning Has Broken (con testo della poetessa inglese Eleanor Farjeon) o di trasmettere fiducia nel futuro come Peace Train, o ancora di raccontare l’oblio d’amore come How Can I Tell You.
5. dipinto del ’72
Cat Stevens ha dunque sempre utilizzato il disegno come forma d’arte alternativa, praticata più per passione che per altro, spesso trovando il modo di farla interagire con la sua attività principale, la musica. Quadri, caricature, abbozzi, fumetti hanno fatto per decenni da complemento alle sue canzoni, continuando ininterrottamente ad essere parte integrante della sua esistenza anche attraverso le sue numerose crisi spirituali, la più importante delle quali, alla fine degli anni Settanta, lo portò a convertirsi all’Islamismo e ad abbandonare le scene, dopo una decade di grandi successi. Per moltissimo tempo si persero praticamente le sue tracce: Yusuf (questo il nuovo, ennesimo nome con cui aveva deciso di farsi chiamare dopo la conversione) rompeva il silenzio soltanto con la pubblicazione di album fortemente votati alla propaganda della dottrina islamica, nei quali spesso si limitava a recitare poesie o preghiere accompagnate soltanto dal ritmo delle percussioni, e fece capolino un paio di volte nella pagine di cronaca per via dell’errata interpretazione di alcune sue dichiarazioni. Si era di fatto alienato l’interesse del pubblico occidentale quando, nel 2006, tornò nei negozi con il primo album pop in circa trent’anni, An Other Cup, con il quale sembrava avviarsi al recupero del sound che lo aveva decenni prima reso famoso al pubblico internazionale; la conferma arrivò tre anni dopo, quando comparve Roadsinger, il disco del suo grande ritorno, nel quale finalmente mostrava di aver trovato un connubio tra le tematiche spirituali e religiose che erano ormai diventate parte preponderante della sua vita e le sonorità folk che avevano caratterizzato il suo decennio d’oro. Ad oggi Yusuf/Cat Stevens è un artista attivo a tutti gli effetti, che dopo essere riuscito a domare il proprio caos interiore e a far convivere la propria arte con il nuovo credo è tornato a svolgere a pieno ritmo la professione che aveva scelto per sé molto tempo fa, quand’era poco più che un adolescente. La sua vicenda personale è una delle più insolite ed interessanti, così come insolito ed interessante è il suo rapporto con l’arte, o meglio con le varie forme d’arte a cui si è dedicato dalla sua giovinezza fino ad oggi. Che con le sue dita pizzicasse con le corde di una chitarra o reggesse una matita, o un pennello, è sempre stato capace di riproporre la propria intima concezione dell’essere artista: le sue canzoni e i suoi disegni trasmettono la stessa identica delicatezza, le stesse semplici eppure profonde emozioni, manifestando la stessa convinzione che in fondo la vita di un artista e le sue opere d’arte (di ogni natura) sono una cosa sola. L’arte è, per l’artista, inevitabile: spesso non è una scelta, ma qualcosa che era da qualche parte già scritto nel suo destino. E non è un caso che le parole più adatte a spiegarlo siano proprio quelle contenute in uno dei brani più famosi di Cat Stevens,Moonshadow:
Se un giorno dovessi perdere gli occhi
e tutti i colori per me si prosciugassero
se un giorno dovessi perdere gli occhi
allora non sarei più costretto a piangere.
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