di Gualtiero Marchesi
[R]ecensire Emilio Tadini comporta una particolarissima emozione. Perché Emilio è un amico. Perché mai come in questo caso l’operazione assume i contorni della piena reciprocità. Tadini ha dichiarato più volte il suo apprezzamento per le mie creazioni. In un’occasione ha scritto: “Con i grandi piatti – nella storia della cucina, della gastronomia, della tavola – si è sempre cercato di imitare una certa architettura sovraccarica di motivi decorativi. Costruzioni complesse, virtuosistiche, stupefacenti. I piatti di Gualtiero sembrano ispirarsi, invece, alla pittura. I volumi sono ridotti al minimo. Conta il disegno. Conta, soprattutto, il colore”. Ora tocca a me l’onore di omaggiare questo maestro contemporaneo. La coincidenza è splendida, quale migliore non ci poteva essere: parlo della straordinaria antologica che Milano – la mia e la sua Milano – gli dedica attualmente in quel tempio dell’arte che è Palazzo Reale. Anche il quadro che ho scelto è in mostra: si tratta di “Le figure le cose”. Figure e cose che diventano, nel mio piatto, “Il cibo la cucina”. Il parallelo non ha bisogno, credo, di ulteriori spiegazioni. Riaffiora l’eterna questione, il rovello filosofico attorno all’essere e alla sua rappresentazione, alla realtà “reale” e a quella visibile, raccontata, interpretata. Il nome delle cose, appunto. E la ri-creazione delle stesse, per intelligenza ed estro.
Nell’intervista che pubblichiamo nelle pagine precedenti, Tadini fa un’osservazione che mi ha colpito in modo particolare. Tutti parlano di me – dice in sostanza – nella mia duplice veste di artista e di scrittore, sottolineando il concetto di intertestualità; ma tale concetto è riduttivo. Penso al mio lavoro – aggiunge – piuttosto come ad un continuo staccarsi da un mondo per trasmigrare verso l’altro, e viceversa; e penso al librarsi magico dell’immagine. Non per nulla – poco prima – egli cita, tra i riferimenti fondamentali, la “mancanza di gravità” di Chagall; Chagall da cui partire, lungo tale percorso accidentato da separazioni recise e dilaceranti, per giungere, magari, nelle città delle cose della Pop art: e ritrovarvi, oltre la pesantezza oggettuale, il gusto frizzante della metafora. Un itinerario che s’accompagna a questo mio più recente: io che, partito da Chagall, dal lievissimo violinista fluttuante sopra un occhio d’oro, e transitato per Tadini, sono già proiettato – ne parlerò sul prossimo numero di “Stile” – verso il geniale pifferaio della Pop art, Andy Warhol, che pure ho avuto la fortuna di conoscere. Intanto, ho delineato il mio tributo ad Emilio ed al suo capolavoro, alla sua natura morta sbarazzina, che ascende al cielo su di un’invisibile scala di bava di ragno.
A come Aringa marinata su fetta di pane, B come Blinis e Burro affumicato, C come Calamaretti e Caviale, P come Panna acida: è la nomenclatura di un paesaggio combattuto tra solennità e turbolenza, avvinto dal filo tenace ed allappante del nero di mollusco, spezzato nei suoi volumi da segmenti che lo solcano scindendolo in scampoli geometrici. E i segmenti assumono sembianze diverse: filo tenero d’erba cipollina, o silhouette impeccabile di un prezioso coltello Robbe & Berking, teutonico rimando alla robusta posata raminga, balenante – tra beffa e sogno – nel quadro del mio amico Emilio Tadini.