intervista di Enrico Giustacchini
[L]a micetta raffigurata al centro di un quadro di Federico Barocci – quadro tradizionalmente conosciuto proprio come la Madonna della gatta – sembra custodire nelle profondità del suo inafferrabile sguardo di felino un segreto, ed un segreto non da poco. Dietro i volti di un assonnato Gesù Bambino e di una Madonna ragazzina, infatti, si nascondono in realtà due altri personaggi. Ma chi sono?
A suggerire una soluzione dell’enigma è Antonio Natali, in un saggio per la monografia Federico Barocci 1535-1612, pubblicata da Silvana Editoriale. Barocci per dirla con lo studioso Antonio Paolucci, è stato “l’alfiere più intelligente e più sensibile dell’arte della Controriforma che apre la strada a Caravaggio e alla Modernità”.
La Madonna della gatta giunge a noi dopo tribolate vicende. L’eccessivo calore a cui era stata sottoposta in passato durante una sciaguratissima rifoderatura aveva gravemente danneggiato la tela, rendendola pressoché illeggibile. Il dipinto era finito nei depositi degli Uffizi, dove era rimasto a lungo, dimenticato. A riportarlo alla luce, e alla vita, un provvidenziale e riuscito restauro, concluso nel 2003.
Gli storici hanno sempre sostenuto che l’opera, eseguita su commissione dei Della Rovere, dovesse essere datata al 1598, anno in cui papa Clemente VIII fu ospite del ducato d’Urbino. Ciò perché in un inventario di poco successivo v’è la citazione di “quadri uno grande di mano del Baroccio, della Visitazione di S. Elisabetta, con cornici grandi dorate, bandinella grande: fu fatto per la Cappella di papa Clemente quando passò”.
Nel soggetto della tela si può cogliere in effetti un nesso con l’evento che sarebbe stato celebrato dalla tela medesima, ossia la visita del pontefice. “Ma qui si tratta d’una visitazione d’Elisabetta a Maria – osserva Natali, – tema non ricavato dai Vangeli, dove si tramanda, sì, la memoria d’un loro incontro, ma in stato di gravidanza, e poi a ruoli invertiti: con Maria, cioè, che va a trovare Elisabetta. Da nessuna parte, nei Vangeli canonici, si ragiona d’una restituzione della visita. Perché allora questa scelta? Non sarà che la storia dipinta intende evocare qualcosa di diverso rispetto al transito urbinate del pontefice? Proprio perché inusuale come soggetto, non si potrà allora ipotizzare che la sua irritualità aspiri a sottolineare un accadimento che altrimenti avrebbe rischiato di non essere compreso? Si converrà che, se una visitazione canonica prospetta meditazioni sull’incarnazione del Verbo, una visitazione dopo il parto (qual è quella di Elisabetta, che spinge il figliolo ad interpretare fin da subito il suo ruolo d’ultimo profeta al cospetto del cugino appena nato) ribadisca semmai i significati di quella nascita; oppure, per conseguenza, adombri le allusioni ad un’altra nascita.
Tenendo a mente ciò – continua lo studioso, – si potrà tornare a rileggere la Madonna della gatta con l’intento di verificare se la sua trama non sia da mettere in relazione ad una vicenda che Barocci sia stato chiamato a celebrare. In effetti, viene spontaneo valutare la scena come una figurazione che fa perno ideale nel gruppo gentile di Maria col figlio. Elisabetta, elegante e austera, quasi si sporge col busto verso la cugina, ritratta nell’atto di ninnare il figlio. Il piccolo Battista, come giocasse a fare il gladiatore, tiene all’eroica la crocellina di canne e con la destra indica colui che è nato col destino di re. E intanto di scatto si volge a cercare l’intesa con lo spettatore, cui comunica l’eccezionalità dell’evento.
Dall’altra banda – considera Antonio Natali, – Giuseppe si ritaglia (come sempre gli tocca) un’ubicazione defilata. Stavolta, però, lui pure assume una postura orgogliosa: con la destra tira su la tenda che protegge le sue stanze dal viavai della strada, e però, come fosse un sipario che s’alzi a disvelare un colpo di teatro, esibisce la sposa (che è giovanissima al suo cospetto) e quel suo bimbo che dorme nella culla altalenante.
Il padre attempato si pone sul limite sinistro, lasciando, a chi guardi, la visione in lontananza d’un panorama, che ha nel Palazzo Ducale d’Urbino il cardine.
E proprio sulla direttrice che lega l’uomo a quel paesaggio, si pone, precisamente in asse, il Gesù dormiente, come se i tre fossero i protagonisti d’una trama da raccontare”.
Interpretato in tal maniera il quadro, come è possibile spiegare il collegamento con quanto registrato nell’inventario? A giudizio di Natali, “il nodo sta nella frase ‘fatto per la Cappella di papa Clemente quando passò’. Nel gergo della notizia (abbreviato secondo l’uso degli inventari), non mi sembra improponibile questa lettura: ‘dipinto per la Cappella fatta per la venuta di papa Clemente’. Dove fatta, oltretutto, non significa per forza costruita, ma anche, semplicemente, dedicata”.
Cadrebbe così la sicura datazione della tela al 1598, anno che costituirebbe invece il post quem per la medesima. Che cosa capitò dunque, negli anni subito successivi, di tanto rilevante da meritare una commemorazione? La risposta è facile.
Proprio nel 1598, il duca di Urbino, Francesco Maria II Della Rovere, era rimasto vedovo e senza prole. Un patto siglato con Clemente VIII stabiliva che, in mancanza di eredi, alla sua morte le terre del ducato sarebbero state annesse allo Stato Pontificio.
La decisa contrarietà dei sudditi a questa soluzione convinse Francesco Maria, seppur con riluttanza, a risposarsi; la prescelta fu una cugina, Livia, di appena quattordici anni, trentasei meno di lui. Le nozze si celebrarono nel 1599. Solo nel maggio del 1605, quando oramai si cominciava a disperare, nacque il sospirato figlio maschio, Federico Ubaldo: e ad Urbino e dintorni fu festa grande.
“Si diceva, ammiccando al nome della casata – scrive lo studioso, – che un tronco vecchio aveva germogliato. Riferimento alla quercia che gli stessi Della Rovere, d’altronde, ribadivano sovente nelle figurazioni delle opere da essi allogate e che ricorre anche nelle due lesene poste alle estremità laterali della Madonna della gatta. Ghiande e foglie di quercia sono parte del repertorio ornamentale che campeggia sul fondo delle paraste: si vedono nel quadro, pur nella difficoltà dei toni scuri; ma soprattutto spiccano sull’arazzo che Pietro Févère fu chiamato a tessere fra il 1663 e il 1664 per replicare la pala, giunta a Firenze coi beni portati nel 1631 alla corte dei Medici dalla figlia di Federico Ubaldo, Vittoria. Ed è presumibile anzi sia stata lei, Vittoria (che sempre serbò la pala nel suo patrimonio personale), a chiederne la traduzione in arazzo”, allo scopo di “tener desto il ricordo di una vicenda familiare ragguardevole”.
Vicenda riecheggiata in modo palese nel dipinto degli Uffizi. “Il duca d’Urbino – rileva Antonio Natali – è in età avanzata quando, come Giuseppe (definito ‘anziano’ nel Libro sulla natività di Maria, apocrifo, dalla Chiesa reputato affidabile), si sposa. E, al pari di Giuseppe, lo fa con una donna che, secondo la medesima tradizione antica, è poco più di una fanciulla: quattordici, come quelli di Livia, sono gli anni che il Libro le attribuisce all’atto del concepimento del figlio. Proprio così Barocci ritrae i coniugi nella tela: un uomo maturo che invita ad ammirare la moglie adolescente mentre culla, come in un gioco di bambole, il suo bimbo da poco partorito”.
E intanto la gatta, sorniona, sembra avere già compreso la verità.