I seni piccoli, il ventre morbido, le cosce tornite e le braccia dischiuse con garbo rivelano un fascino inebriante, cui il viso appena reclinato e le palpebre socchiuse, che sembrano tradire una pacata gravità, conferiscono un’aura impalpabile ed eterea.
Il nudo insieme florido e diafano, palesemente desunto da un remoto prototipo classico e mediato da memorie raffaellesche, eseguito da Federico Barocci (1535-1612), non appartiene ad una divinità pagana o ad un’avvenente cortigiana, bensì alla Vergine. Il disegno, concepito in preparazione all’Immacolata concezione oggi alla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, appare quantomeno anomalo, se non blasfemo: la nudità di Maria, lascia stupefatti, nonostante la consapevolezza che si tratti di un semplice abbozzo, destinato a rimanere tra le carte personali dell’artista.
E non si tratta di un caso isolato: anche lo studio per Il riposo durante la fuga in Egitto mostra una Vergine discinta, stavolta immortalata in posizione seduta, con la testa china e lo sguardo assorto, in cui si può intravedere la languida naturalezza di una bellezza mediterranea. Sulla tela, ovviamente, le languide forme verranno ammantate da una raffinata e castissima veste che non lascerà trapelare la più piccola porzione di pelle.
In vero, Barocci, la cui fama, nel corso del Cinquecento, toccò punte eccelse, era considerato dai critici coevi come l’interprete ideale di un grande percorso di devozione che avesse al proprio centro il mistero di Maria Vergine e Madre.
Una storia sacra, quella raccontata dal pittore urbinate, tanto intensa da propiziare rapimenti estatici, e così innovativa nelle sue suggestioni stilistiche da essere d’esempio per tanti altri artisti, come Guido Reni. La nudità della Madonna, dunque, non deve destare perplessità o sconcerto, ma va piuttosto intesa come un espediente indispensabile ai fini veristici della rappresentazione.
Lo studio particolareggiato della figura della Vergine era funzionale, ad esempio, alla resa dei panneggi, così come alla definizione di luci e ombre o alla messa a fuoco dei dettagli più minuti che sarebbero poi comparsi sulla tela. Che Barocci sia stato un autore di inesausta attività grafica, tale da non conoscere mai momenti di inerzia o esaurimento per la capacità inventiva, è un assioma condiviso dalla letteratura antica e dalla critica moderna: lo stesso Bellori, nelle Vite, ne aveva incensato le sperimentazioni stilistiche ed il rigoroso metodo, basato su bozzetti in scale diverse adottati sin dalle prime fasi di elaborazione dell’opera nonché sul ricorso al compasso di riduzione e di proporzione.
Nella sua Urbino, il Nostro aveva elaborato efficaci antidoti contro la visione metafisica del disegno propugnata dallo Zuccari e quella meramente empirica, priva di una tecnica scrupolosa, praticata dai più. Ad esse veniva contrapposta una sorta di simulazione del movimento derivata dalla volontà di interpretare con compiutezza tensioni naturalistiche: teste e particolari anatomici erano scandagliati in infinite tessere di puzzle; espressioni, posture e gesti, indagati secondo una mentalità ancorata a misurazioni “scientifiche” del tutto coerente con l’encomiata diligenza di Federico, che annoverava tra i propri parenti costruttori di orologi, macchine di precisione, compassi e strumenti meccanici.
La finalità precipua dei suoi schizzi, mirabili in ogni piccolo dettaglio, non si limita alla ricerca della perfezione anatomica, ma si estende ad evidenziare la luce, la gestualità delle pose, l’espressione dei volti, la grazia e la morbidezza dell’epidermide che investono ogni figura. Studiando la produzione grafica dell’artista ne risultano lampanti l’affinità concettuale con la pittura, ma soprattutto l’approccio inedito e l’innovativo linguaggio, di cui lo studio per l’Immacolata concezione rappresenta forse l’esito più icastico.
Il segno rapido, a tratti sincopato, con cui ne è descritta la silhouette, sembra anticipare Rembrandt; la reiterazione di particolari – soprattutto piedi – nello stesso foglio contribuisce a frangere l’unità spazio-temporale della visione del fruitore e ad incrinare l’equilibrio statico della messa in posa.
L’associazione di moto e tempo si accompagna allo stravolgimento della tradizionale concezione del disegno, che da segno si tramuta in colore: le linee sono rivestite con la luce, elemento primario della visione naturalistica (luce della natura) e della rivelazione trascendente (luce di Dio), e la scena è colta nel suo divenire.
Nel proprio costante desiderio di perfezione, Barocci intendeva creare i presupposti per giungere alla mirabile ed armonica fusione cromatica che costituisce il fascino dei suoi dipinti. Per lui, nell’abbozzo si manifestavano già in toto la potenza dell’invenzione e l’enfasi dell’azione. Anche per questo motivo i suoi fogli avrebbero in seguito colpito la sensibilità di artisti quali Rubens e Pietro da Cortona, che in alcuni pastelli mostrò di essersi avvalso del vellutato grafismo e delle sfumature opalescenti del Nostro.