Lo stoicismo e il cinismo – che vivono come sottotraccia nell’osservazione di una povertà diffusa – incisero notevolmente nell’ambito della rappresentazione dei filosofi nella pittura seicentesca. E i ritratti dei pensatori costituirono una tipologia rappresentativa – all’interno di una più ampia sezione che si andava configurando in quegli anni, la pittura di genere, cioè il racconto della vita quotidiana più dimessa – con il quale gli artisti si misurarono, fino ad identificarsi con essi, come accadde per il Ribera.
Abiti laceri. Rughe profonde – con le quali i pittori giocano la necessità di un’aderenza virtuosistica alla realtà -, aspetti dimessi fino alla più assoluta indigenza. E, in alcuni casi, cecità profonde, in grado di mettere in evidenza la ricerca introspettiva, l’allontanamento da ogni allettamento dei sensi. Ecco, in breve, il ritratto della filosofia.
Proprio in quegli anni, a differenza del periodo rinascimentale nel corso del quale, generalmente, gli intellettuali potevano contare sulla considerazione dei centri di potere – e condividevano, a livello generale, la ricchezza delle corti, come accadde, uno tra tutti, al raffinatissimo Marsilio Ficino -, si andò incontro a una scelta rappresentativa inversa rispetto alla raffigurazione dei filosofi, che persero progressivamente l’aura mondana in grado di renderli tanto simili a principi. Recuperando un’idea convenzionale del passato, i pittori secenteschi presero a delineare quella figura di intellettuale moderno, conoscitore del mondo, eppure tenuto progressivamente ai margini della realtà, giacché considerato improduttivo sotto il profilo della tecnica e della trasformazione del mondo.
L’esercizio del pensiero risultava, di fatto, secondo l’antica scuola cinica, inconciliabile con la minima comodità o, peggio ancora, con la ricchezza. Recuperando esempi dal passato classico, gli artisti esplorarono allora le rughe, gli stracci e le espressioni assorte dei filosofi, cogliendoli in una dimensione di totale povertà, che finiva per lambire l’abisso della più profonda miseria. Scelta ambigua, come polisemico – e pertanto ambiguo – fu tutto il pensiero barocco: se da un lato lo spettatore veniva chiamato a considerare con ammirazione la distanza del filosofo-straccione dalla materia infima a favore dello sviluppo di un percorso eminentemente intellettuale e spirituale, dall’altro lato poneva in luce l’evidente fallimento dell’esercizio del pensiero nell’ambito della trasformazione del mondo. Gli abiti laceri indicavano, al tempo stesso, il rifiuto degli aspetti più bassamente materiali del mondo quanto il bislacco, improduttivo atteggiamento del pensatore che comunque, pur accedendo alle conoscenze più alte, non era in grado di trasformarle in ricchezza e potere.
Il linguaggio pittorico scelto per la rappresentazione dei filosofi assume infatti, in alcuni casi, un registro grottesco. Essi risultano come persone totalmente aliene dal mondo. E ponendosi fuori di esso, diventano colpevolmente complici della propria povertà.
Certo era passato più di un secolo dal momento in cui Raffaello, nell’affresco della Scuola d’Atene, attorno alle figure elegantissime di Platone ed Aristotele – dotate della solennità di statue di carne, avvolte in toghe sontuose – aveva delineato decine e decine di pensatori, generalmente dotati di abiti eleganti e di foggia cortese mentre si confrontavano nello spazio nobile di un’ampia, ariosa e monumentale architettura che rinviava agli esempi augusti delle costruzioni del passato.
Il Seicento fu profondamente attraversato da istanze realistiche. E ai pittori non poteva sfuggire la difficoltà oggettiva della professione intellettuale in una società mutata rispetto agli orizzonti rinascimentali.
L’esercizio del pensiero e la distanza dagli allettamenti del mondo furono le basi su cui si sviluppava il ruolo dell’intellettuale nella modernità, che si collegava intensamente con la povertà di vita e la ricchezza di pensiero dei filosofi antichi. Ma come sempre avviene nell’ambito della mentalità barocca, l’oggetto della rappresentazione rivela forti indizi di ambiguità. Da un lato, infatti, gli artisti sottolineano la necessità inderogabile dell’intellettuale di convergere esclusivamente sui propri studi, dimenticando gli allettamenti dei sensi e la sfera materiale, rendendo, in questo modo, l’identità dei pensatori molto simile a quella dei santi. Dall’altro precipita gli intellettuali stessi nella dimensione di una condanna inappellabile sotto il profilo sociale: la povertà, per quanto corroborata da un pensiero forte, ha scarse possibilità, nella società secentesca, di incidere sui giochi del mondo.
Fra gli incunaboli della rappresentazione dei filosofi troviamo appunto le opere che vennero commissionate nel 1636 a Napoli dall’agente del principe Karl Eusebius di Liechtenstein a Jusepe de Ribera. Il committente aveva chiesto di disporre del ritratto di dodici pensatori, ma soltanto sei furono consegnati al nobile nord-europeo.
Ribera sembrò prendere i propri soggetti dalla strada come era avvenuto con i modelli di Caravaggio, trasformando il filosofo, come scrive Nicola Spinosa, in un “contadino qualsiasi incontrato nei vicoli di Napoli all’epoca del viceregno, in cui il pittore seppe percepire i segni dell’antica origine greco-orientale”. Si assegnava alle attività intellettuali un ruolo fondamentale, ma non compreso negli ambiti dei consueti riconoscimenti di denaro e potere. Si evidenziava il concetto che il pensiero più alto si esprime senza inseguire il denaro. Ma era vero – secondo l’ambiguità del barocco – anche il contrario: la preminenza del pensiero riduceva intellettuali e creativi ad occupare un ruolo socialmente marginale. Bisognera’ attendere le ondate illuministe. La violenza di un pensiero che si trasformerà in ghigliottina. (maurizio bernardelli curuz)
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