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di Maurizio Bernardelli Curuz
Proiezioni oniriche di tratti universali guizzano sule tele di Franco Rinaldi. Verrebbe da pensare a una linea fortemente neoplatonica e per certi aspetti junghiana più che a un’elaborazione intesa, sensu strictu, come conseguenza evolutiva della poetica surrealista; anche se i luoghi intellettuali non sono, in fondo, così distanti; là, al centro del movimento bretoniano, nel raccordo tra Freud e Marx, si lavorava a un concetto di elaborazione del rapporto tra realtà e sogno che mettesse in linea il moderno – inteso nella connotazione di palcoscenico della mostruosità del quotidiano – e il sogno come fonte di inquietanti – o spiazzanti – interrogativi, capaci di segnalare l’assurdità di comportamenti acquisiti nell’alveo della normalità.
L’attività onirica, vettrice di pulsioni, era orientata dai surrealisti con la forza distruttrice di frecce intinte nel miele e nel curaro, a un’azione rivoluzionaria. A una rivoluzione dell’anima, che potesse incidere anche a livello sociale. Allora: l’es contro l’io corrotto; la profondità degli strati della psiche contro la superficie instabile di quella parte di personalità estroflessa sul mondo e ipnotizzata dal sogno borghese; la pulsione digrignante e flagellante contro il piano instabile di una banale razionalità che si manifesta come una cialda di materiale lieve, eppur possente, perché sorretta dalla volontà di potenza industriale. Il sogno si profilava allora nella valenza di un ordigno poetico rivoluzionario, capace di ribaltare i valori della realtà, dimostrando l’assurda incongruità di una materia disconnessa e di un equilibrio basato sul profitto, sulla convenienza, sul consumo che aveva come contrappeso il nulla. La rivoluzione di Rinaldi persegue altri sacri sentieri paralleli. Essa si basa sul rispetto dei luoghi del silenzio in cui l’assoluto sguscia come serpe presso una fontana greca o come un’aquila che getti ombre in planata, sulla candida vaporosità delle nubi.
Rinaldi intende la sfera onirica come cosmo; non come un’attività, pertanto; non come una catena di montaggio di brandelli di quotidianità ruminati dalla mente e rigettati sotto i denti per una nuova masticazione nel corso di compensativi ripensamenti notturni, ma un luogo di interconnessione tra il mondo di démoni-dei – intesi in senso neo-platonico – e il mondo degli uomini. E poiché l’anima umana è copula mundi, collegamento tra materia e idee immutabili, il sogno risulta il ponte sul quale l’arcano, l’intelligibile e il divino dichiarano, attraverso una forma, la volontà di manifestarsi.
Le figure e i corpi filiformi, che rinviano ad umanoidi con teste di girino, le flessuose animule che si staccano con leggerezza dai fondali dei dipinti di Rinaldi, remigando verso la luce e l’aria, gli occhi, i puri occhi privi di ogni corporeità e sorretti esclusivamente da una linea che li conchiude nello sguardo scrutatore di lampade confinate sulla cima di un lampione appartengono ai segni delle profondità e pertanto alla dimensione dell’assoluto.
L’artista invita a meditare, senza categorie preconcette. A riporre in questione una visione semplicistica della realtà. A considerare il rapporto tra corteccia e significato. Cosa sta, al di là delle apparenze; quali i caratteri ricorrenti del sogno, i suoi alfabeti? E come si manifestano le Idee? Come si configurano le armonie delle sfere, il gioco profondo dell’anima che connette il microcosmo dell’individuo al macrocosmo dell’universo? E soprattutto: cosa abbiamo perduto irrimediabilmente nella sottovalutazione dei messaggi che giungono dall’antro delle Naiadi in cui, in un azzurro luminoso, le idee galleggiano in forma di piccole sculture di pino? E quali sono state, per l’uomo, le conseguenze dell’amputazione – provocata dal bisturi positivista – della spiritualità e della poesia?
Un’umanità priva d’ali resta schiacciata al terreno, consegnata a una fragilità bestiale, sotto una gravità immane. Franco Rinaldi lavora sul versante di ricostituzione dei pensieri eterei ma fondamentali, su un’isola, dalla quale si dipartono erti sentieri che possono condurre a una dimensione spirituale. Significativo a questo proposito, per comprendere su un piano eminentemente concettuale l’opera dell’artista bresciano è la passione – corroborata da una costante frequentazione – per la poesia, cioè il genere espressivo più praticato e meno letto, nell’ambito della contemporaneità. Indizio e spia di un approccio alla tela che transita attraverso la gestione d’illuminazioni poetiche.
Poesia – in pittura, in parola – irrisa dalla società contemporanea per la sua meravigliosa inutilità; poesia che si erge in modo davidico contro le facili certezze del Leviatano meccanicista; contraria alla somma di piccole azioni senza significato e senza proiezione; contraria alla trinità blasfema (costo, ricavo, guadagno) alla quale risulta prona la religione dell’utilità; avversa a quel nichilismo di fondo nel quale il mondo della materia industriale sprofonda dopo il consumo. Poesia e pittura divengono così in Rinaldi le azioni di ribellione di ali candide, che si dibattono, dopo il taglio inferto dal razionalismo, con la violenza di code di lucertola spiccate dal corpo.
Eppure da regioni lontane, da porte chiuse, da meandri schiacciati e in parte diruti, da camminamenti sotterranei, da proiezioni junghiane, da cantine spirituali, da grotte di Naiadi, da cavità d’alberi monumentali emerge, con il soffio della provocazione spiritualista, l’ala dell’Idealismo vilipeso che Rinaldi raccoglie e compone sacralmente.
In questi giorni sto rileggendo Saul Bellow. Avevo meno di vent’anni quando mi arrampicai su Il dono di Humboldt, ma ora la mia anima è più matura a coglierne i significati abbacinanti. E’ un’altra dimensione rispetto al fragore nichilista di Miller di Tropico del cancro. E direi che si tratta quasi di una risposta polemica, fornita decenni dopo al capolavoro milleriano. Leggo Bellow e guardo Rinaldi per questo breve saggio. L’opera di Rinaldi, pur non deliberatamente, rotea attorno alle tematiche del libro poiché, per quanto minoritaria, nel Novecento, si è mossa una schiera non esigua di antinichilisti e, seppur casuale, l’accostamento tra Humboldt e il sogno flottante di Rinaldi, non è concettualmente infondato.
Entrambi riferiscono della battaglia tra poesia e produzione industriale, tra assoluto e tecnocrazia; Humboldt è l’eroe-poeta che combatte una battaglia perdente contro la logica produttivistica, pur essendone sedotto, attratto e poi respinto. Il Novecento contribuì a seppellire la poesia.
“Orfeo smoveva le pietre e gli alberi – scrive Bellow -; ma un poeta non sa eseguire un’isterectomia o inviare un’astronave nello spazio: non ha più alcun potere taumaturgico. Quindi i poeti sono amati, ma solo perché non sanno star al mondo”.
Le tele di Rinaldi inducono a pensare ai pieni e ai vuoti dell’anima. Credo che lo spazio dell’anima, una volta estirpata la sublime inquilina, sia stata trasformata in una dispensa che non possiamo sentire vuota sicché l’abbiamo riempita di scatole di pomodoro, scarpe, gelati, abiti, cinture, computer e cellulari, maionese e cozze. Ma ora siamo in crisi. In una crisi dei consumi che è certo prodotto della congiuntura ma che risulta moralmente fatale in quanto consente di riconsiderare quelle ali candide che si dibattono al suolo e la necessità di giungere ad innestarle nuovamente nel triangolo delle scapole; il nostro mondo ancorato al possesso, alla tangibilità, all’introiezione di materiale non appare più come un antidoto al deragliamento nevrotico. Il consumo rivela tutti i limiti poiché basato sulla coazione a ripetere e sull’alienazione. L’uomo, costretto a proiettare se stesso interamente sul prodotto – prima come produttore, poi come consumatore – perde la propria identità e diventa esso stesso oggetto di mercificazione. Il ritorno – o l’accesso – di masse al mondo della cultura rappresenta proprio questo segno di disagio, al quale fa seguito una riappropriazione dei beni immateriali.
Rinaldi percorre da tempo i sentieri che conducono all’immateriale. Non ha mai nemmeno operato finalizzando la propria produzione alla conquista del mercato, come spesso accade agli artisti; non ha mai trasformato le proprie opere in prodotto. Ha piuttosto lavorato affinché le tele si trasformassero in un terso specchio d’acqua. Uno dei suoi dipinti si riferisce al motivo di Narciso, che non contempla semplicemente la propria immagine, che non è innamorato di se stesso, come vuole la parte superficiale del mito, ma che ha la capacità di sondare in sé, con la malinconia che caratterizza lo sguardo acuto dell’artista, fino a rendere evidenti la stella polare e la croce del Sud.
E da una nebulosa indistinta, ecco allora il fluttuare – in Narciso e in Rinaldi – di forme e colori in divenire, idee e pensieri che abbandonano i luoghi delle profondità per riemergere al visibile, pur con una connotazione misterica.
La metafora equorea quanto l’allegoria legata al concetto di profondità dalla quale trarre il Senso, emergono dall’immagine poetica utilizzata dal poeta per descrivere la propria tecnica di captazione del Sogno.
Dopo “aver piantato il cavalletto sul bordo del pozzo dell’anima” afferma infatti l’artista, trasferisce sulla tela ciò che erompe alla luce. E’ un ripescaggio di archetipi – e il rinvio più vicino e intuibile è quello alle immagini-idee sulla ferrovia Klee-Mirò – che avviene grazie a un rapporto di complicità con le forme stesse, attraverso un’azione di rispetto.
Il cavalletto accanto al pozzo ricorda la vergine al limitare del sacro bosco dell’Unicorno nel pensiero estetico-allegorico del Medioevo. Il piccolo cavallo poteva essere avvicinato soltanto da una giovane pura, con la circospezione e la delicatezza necessari ad accostare un’anima sensibile, che rifugga ogni clamore e ogni brusca azione. Ora l’unicorno è l’anima. E l’anima fugge dal frastuono; fugge quando viene messa in dubbio, quando è colpita o è scientificamente negata e sostituita dalla topica freudiana – una sorta di officina psichica di tipo medico-meccanicista -; fugge quando è vilipesa, ritenuta incongruente con l’efficienza dei tempi; un fossile bislacco, proprio come l’unicorno.
Siamo nello stesso serbatoio d’immaginario collettivo. L’atto della pittura, in Rinaldi, prevede l’avvicinamento alla realtà spirituale attraverso un atteggiamento basato sul silenzio, sulla purificazione rituale che prevede la frequentazione di testi poetici, in attesa che le acque si plachino e il limo della contemporaneità, in perenne sospensione, si depositi. Le figure di Rinaldi emergono da quel punto.
Non è casuale che l’artista, giunga a una pittura di pensiero dopo una stagione di meditazione dechirichiana. De Chirico apre la porta della Metafisica che, a sua volta, batte una parte del percorso che avrebbe portato al Surrealismo. Ma tante tracce nel recupero dell’immateriale erano già presenti nella stagione simbolista, a partire dal momento in cui si decise di abbandonare la pittura retinica di stampo impressionista per passare dalla superficie al significato, dal transeunte all’eterno, dall’effimero al cardinale. L’impressionismo era collegato all’eterea sopravvivenza dell’istante, al canto apicale di una materia destinata alla caduta e alla putrefazione. Per questo, in gioventù, Franco Rinaldi, dipingendo in natura, accanto al collega Tita Mozzoni, accolse l’esortazione del maestro che lo invitava ad abbandonare i conforti tiepidi del paesaggio, il sole che imbeve le erbe, la piacevolezza del muschio che copre la radice di un albero. E da quel distacco Rinaldi parte per cercare la propria strada che porta al pozzo in sé.
La rivoluzione che sta in Gauguin fu proprio quella di indicare la coabitazione tra corporeo e immateriale, rifiutando la pittura en plein air, sul soggetto. Avvicinò il proprio sguardo a quello di gruppi o etnie marginali o culturalmente non toccati dal processo razionalistico della modernità. Era, anche questo, un atteggiamento finalizzato al recupero dell’acqua da un pozzo.
Rinaldi muove concettualmente da questi ambiti e, nel periodo di formazione, ripercorre i silenzi immoti dechirichiani, come accade in particolare in Natura morta con gesso, Minotauro o La battaglia bianca, ed esplora al contempo, un’altra realtà, quella cubista, suscitata dallo sviluppo delle ricerche strutturali compiute da Cézanne e dagli esempi primitivi dell’arte africana.
Ma presto, egli decide di agire, per quanto sia possibile, evitando programmaticamente ogni filtro. Sceglie di non passare alla pittura attraverso la pittura precedente, ma di giungere a un atto di rifondazione della propria percezione che gli consenta, in una sorta di scrittura automatica, di entrare in possesso dei linguaggi del profondo e di accoglierli nel momento del suscitante riapparire, tanto nelle armonie quanto nelle dissonanze compositive.
I titoli sono parte poetica dell’opera. E’ pertanto doveroso raccoglierli, esaminarli, come materiale meta-pittorico in grado di segnare il percorso di ricerca condotto dall’artista. In Rinaldi ricorrono i seguenti sostantivi: sogni, isola, giardino, montagna. Sono luoghi che stanno al di là degli spazi dell’ordinario.
Ricordiamo allora il fondale vivido de Il giardino delle Beatitudini (o La danza della vita) che ben si amalgama con le frenetiche figure antropomorfe che permeano la composizione, oppure il trittico Il Giardino delle delizie (o I sogni sognanti), che invita a una pace superiore dal respiro nirvanico, ad una vita priva di pathos su una porzione di terra le cui coordinate, purtroppo, non sono possibili da individuare sui piani cartesiani terrestri, concetto reiterato anche ne I personaggi del lago del mito.
Ambienti abitati da proiezioni di vita che condividono uno stato animale e, al contempo, un midollo vegetale, oppure esseri appartenenti alla mitologia, ma non a un Olimpo che rinvii alla tradizione greca o romana, quanto ad una mitologia astorica e atemporale, strutturale, condivisa, che alligna nel cuore di ciascuno, come accade nel dipinto Allo specchio del Narciso o in Medusa. Una lettura in grado di offrire elementi introspettivi e perlustrativi che ritroviamo Nel labirinto, rimando ai dilemmi che abitano l’essere umano.
Pure ne La moglie del giardiniere assistiamo alla rappresentazione di un ibrido umano-vegetale. Nel dipinto il soggetto è raffigurato con cromie fredde, chiare, di un bianco lunare, in contrasto con il fondale azzurro, dotato di vita propria.
Il diretto riferimento alla materia onirica risulta tema ricorrente nelle opere di Franco Rinaldi. Ecco Sul fondo dei sogni, L’uomo dei sogni, La cacciatrice di sogni, Cacciato nel sogno…
Ognuno di noi ha sogni o, alla peggio, li ha avuti. Il sogno è qui inteso in un’accezione attiva, in una connotazione d’indicatore di significato. O come, in Artemidoro, come un presagio.
“Un tempo sapevamo quella terra Tu ed Io, ed una volta là vagando siamo andati (…) nel dormire tu e io viaggiammo sicuri (…) per scoprire la tiepida viuzza tortuosa che ora non sappiamo più trovare” scrive Tolkien ne La casa del gioco perduto. Il romanziere inglese racconta di sogni perduti il cui ricordo permane da qualche parte, sopito, quasi irrecuperabile. Con Rinaldi ci affacciamo invece al limitare del pozzo in cui nuotano le Idee. Basta una tela per recuperarle.