di Gualtiero Marchesi
[T]orno a parlare di Salvatore Sava. Il motivo è semplice. Questo artista mi è congeniale. Mi capita spesso – guardando alla sua produzione – di trovarvi affinità, tanto rilevanti quanto, talvolta, impreviste e imprevedibili. I lettori della nostra rivista ricorderanno, forse, le mie riletture di due opere di Sava (“Stile” 55), “Magica Luna” e “Le tre lune”. Me ne ero servito – per così dire – per ribadire una convinzione di fondo, alla base del mio credo creativo: per sostenere, cioè, che il Colore non vada lasciato a se stesso, ma vada piuttosto rafforzato dalla Materia. Quel concetto di Colore come entità inscindibile della Materia, insomma, che non mi stanco di ripetere, e che determina il perimetro delle mie contiguità con l’uno o l’altro artista. Ora chiedo invece aiuto a Salvatore Sava per parlare di Forma. Chiedo aiuto ai suoi “Fiori di pietra”. Che, sottolinea l’autore, “videro per la prima volta la luce nel 1997. Rappresentavano allora la fase finale di un’esperienza personale. Era il tempo della ‘Magica Luna’ …” (Ancora la “Magica Luna”!) “… Andavo alla ricerca dell’equilibrio” continua Sava “e mi cimentavo di trovarlo nelle forme più svariate. Mi accorsi allora che le pietre naturali contenevano nelle loro sagome scolpite dal tempo un grande equilibrio. Erano perfette. Nel loro aspetto casuale avevano trovato l’armonia col resto del mondo naturale. Ne presi coscienza e meditai. Con umiltà e rispetto ne scelsi un po’, dialogai con i loro silenzi, le posi su piedistalli e ne esaltai le caratteristiche forme vissute. In quella circostanza le pietre raccontavano delle storie tormentate di vita quotidiana. Ora le pietre ritornano, sono fiori dal gambo di metallo, armati solo di silenzio per narrare la loro storia”. Quelle corolle lapidee – metafore d’ogni contrasto, d’ogni antinomia del mondo, nella tensione verso gli astri e nell’abbandono declinante dell’avvizzimento, nella battaglia tra la perfezione e l’irregolarità, tra il liscio e il ruvido, tra la durezza inesorabile del marmo e la grinzosità del calcare, tra la geometria e i fantastici deliri – mi dicono, nella più complessa delle semplicità, tutto quanto c’è da dire sul ruolo della Forma, per se stessa, per il suo piccolo villaggio arroccato e per la sua appartenenza allo spazio infinito, in cui fiondarsi, in cui collocarsi come tessera musiva il cui posto è già stato assegnato dalla notte dei tempi e da un destino irrevocabile. In un altro angolo – altro, ma parallelo – sta la mia creazione: con quei fili d’acciaio divaricati quali steli sottili a partire dal minuscolo cubo minerale, origine e sostegno del loro libero flottare; e quei frammenti di formaggio, reliquie più fragili, ma parimenti nobili di fronte al vorticoso avvicendarsi delle molecole dell’universo.