Nel fienile della memoria di Giacomo Bergomi
Il Mantegna, Pitocchetto e tanta pittura colta
di Maurizio Bernardelli Curuz
S elimini subito l’equivoco che Giacomo Bergomi abbia percorso una strada parallela alla pittura naive per quanto i suoi soggetti siano antropologicamente contigui – nella delineazione del mondo della campagna – all’area vasta di un’espressione più o meno sorgiva, caratterizzata dal profilo della semplicità. La cultura iconografica del pittore bresciano è ben costruita, saldamente introiettata, così da creare una struttura di base che consente all’artista di non lasciare nulla alla leggerezza dell’improvvisazione, ma piuttosto di ancorare saldamente il suo atto espressivo al lessico e alla sintassi dell’arte occidentale, in una copertura che muove dalla monumentalità del Mantegna, che copre il periodo rinascimentale con Bellini, Savoldo e Romanino, che si confronta con Velazquez fino a giungere alla pittura picaresca del Seicento e del Settecento (con particolari e diffusi riferimenti all’opera di Ceruti detto il Pitocchetto) e che si pone ancora più in là, temporalmente, nell’osservazione del colloquio tra Gauguin e Van Gogh, fino a giungere nel Novecento pieno, dominato dallo scontro tra la forma (così fortemente sentita da Bergomi) e la sua dissoluzione, tra il ritorno all’ordine e la programmatica cancellazione delle riconoscibilità del tratto disegnativo, prassi, quest’ultima che Bergomi rifiuterà sempre, anche quando, nel periodo delle cascate, giungerà a lambire, in un’osservazione ravvicinata del fenomeno naturale, il mondo che, un passo più in là, sarebbe giunto nel territorio dell’informale.
Nei dipinti di questa mostra – nella quasi totalità provenienti dalla collezione del pittore stesso, opere che conservate come preziosi incunaboli – avremo modo di osservare, aiutati dalla lettura delle schede che abbiamo riservato ai dipinti, le citazioni colte presenti in questo artista.
E ritengo che proprio dalle colonne della rivista “Stile arte” e da alcuni interventi da noi svolti in convegni o in cataloghi sia stato posto per la prima volta in modo sistematico il retroterra visivo del maestro. Ciò è emerso da un nostro rilevamento sistematico che ci ha consentito di porre in luce l’intensa formazione visiva dell’artista che viene ad interloquire, nelle progettazioni dei dipinti, con altri due elementi: l’osservazione della realtà nel filtro del proprio ricordo e l’individuazione di una soluzione scabramente creativa. Nulla è pertanto lasciato, in Bergomi, all’atto arbitrario, a una sorta di rievocativa scrittura automatica o alla traduzione di un’emozione semplificata,
Certo, la nostalgia nei suoi dipinti è intensa e la semplicità sta nei suoi soggetti, ma non nella modalità della rappresentazione. La sua, del resto, è una nostalgia da intendere in senso omerico; un dolore vigoroso e inestinguibile, un senso di ristoro nel rammemorare, avvicinandosi, nel caso suo, a un’isola ormai perduta. Erano gli anni Cinquanta avanzati, epoca di vaste riprese nostalgiche, e dell’assunzione dell’idea che la linea della campagna fosse stata stravolta irreversibilmente dai prelievi della città e dal modello industriale imperante che aveva attratto forza lavoro, sradicando le popolazioni dai campi; e quel tempo di piante e di frutti, e di animali da cortile, che era rimasto stabile per almeno un millennio, attraversato dal respiro lungo di uomini e buoi che lanciavano dalla bocca nubi di denso vapore, come il fumo stesso era destinato a sparire e semmai a galleggiare nel ricordo o ad occupare gli spazi dei futuri musei. Si capiva che qualcosa di immane era avvenuto – e stava avvenendo – e che proprio in quegli anni una civiltà stava morendo e sarebbe stata definitivamente archiviata nel momento in cui gli ultimi testimoni fossero scomparsi. S’avvertiva allora la necessità di lenire una ferita, di recuperare, sotto la sacralità dell’icona, i luoghi sacri delle infanzie in cascina per capire esattamente chi si era stati e chi s’era, nel tempo, divenuti. Ex contadini; sottoproletari o neo-piccoli borghesi inurbati; oppure operai con Lambrette, balconcini con l’insalata, salami fatti stagionare nelle cantine di cemento nelle quali erano destinati ad andare in putrefazione.
Il nucleo da cui Bergomi parte è quello dell’alienazione. Che è un’alienazione appunto omerica poiché soltanto col ritorno alla propria terra l’uomo può pensare di essere ancora se stesso. E il ritorno, nel caso in cui non sia possibile, poiché la storia ha mutato gli orizzonti, deve avvenire almeno ritualmente.
Il percorso bergomiano si inserisce appunto per colmare un diffuso difetto di identità: dell’essere, in definitiva, qualcosa di diverso da sé, tra le palazzine della città, tra benessere e comfort, strade e auto Fiat, croissant e caffè. D’essere costretti a precipitare, per un’immensa energia gravitazionale, verso il nucleo urbano e al tempo stesso di sentire che il tributo pagato al miglioramento economico costituiva un evento peccaminoso, una sorta di vendita dell’anima al pagano demonietto dei consumi che elargiva piacere in cambio della cancellazione di ogni traccia dell’originaria identità. Come immigrati di una civiltà lontanissima nel tempo e nello spazio – eppur temporalmente vicina e contigua territorialmente alla città -, i contadini perdevano la propria lingua e le proprie abitudini nel grande, suadente trauma dell’industrializzazione. Dovettero persino sentirsi colpevoli i contadini inurbati, per quanto orgogliosamente esibissero le insegne del proprio successo a chi era rimasto in campagna. Colpevoli per una sorta di tradimento ineluttabile al quale dovevano soggiacere, essendo costretti a camminare sulla linea del progresso, senza potersi voltare. Sarebbe spettato agli artisti, di lì a qualche anno, trasformare la ferita del distacco in un segno di appartenenza tribale, attraverso il recupero delle antiche immagini del luogo comune di provenienza, trasfigurate dalla poesia. E Bergomi, in tal senso, fu efficacissimo.
Ma mentre la facile pittura commemorativa, tutta superficie, floreale, ingenua, si disfaceva sotto il più lene colpo di vento, in Bergomi il ricordo del mondo agricolo divenne sistematico recupero di mille fantasmi di pietra. Da questo discese un canto di dolore e morte, affrontato attraverso la gioia cromatica della rievocazione, tra le laiche liturgie del tempo perduto, tra uomini, donne e bambini che il pittore narra come se dovesse affrontare la descrizione delle creature di un Olimpo ribassato, eppur sempre divino. Un Olimpo di terra e di fango; un Olimpo di mortali divinità cantato dall’artista con una pittura di straordinaria maturità e vigore, anche in quelle opere che egli destinava specificamente al più facile scambio di mercato e pertanto caratterizzate da un certo ammiccamento tra pittore e fruitore; pure quei lavori, dicevo, risultano comunque ben composti e ben dipinti, quasi fossero lacerti delle opere maggiori, echi di una pittura complessa nel suo farsi, monumentale, erudita sotto il profilo dei precedenti a cui si richiama – ricca, cioè, di sottese citazioni iconiche – sorgente da un reticolo visivo che si rinsalda costantemente ai valori iconografici e narrativi dell’Occidente. Proprio per questo l’artista non lasciava spazio alcuno all’improvvisazione di quella pittura spontaneista che delineava, in modo semplice, il luogo perduto di una campagna edenica, mitizzata attraverso quei dipinti che tanta fortuna ebbero nei tempi in cui il mondo rurale sembrò all’improvviso, dopo un bombardamento culturale, esplodere con i suoi nontiscordar di me, le scarpette della madonna, le casette rurali, l’odor di spigo e di ranno.
Bergomi è un macigno che vola. Se dovessimo osservare le sue opere nel raffronto con uno dei più celebrati pittori che affrontarono con taglio di follia fantasmatica il mondo dei campi, con quel Ligabue che aveva offerto certi indimenticabili passi di allucinata bellezza contadina, ci accorgeremmo che Bergomi reggerebbe lo scontro con la forza di un vero campione; Ligabue è caratterizzato da una discontinuità degli esiti pittorici; spara un numero infinito di opere per cogliere, in definitiva, alcuni impeccabili centri. Bergomi – anche quando reitera certi moduli che parrebbero ormai stanchi, come quelli delle porte delle cascine – non sbaglia mai – pittoricamente parlando un colpo – un colpo. Ciò che differenzia i due è la fluttuante discontinuità del primo e la fermezza del secondo, contrassegnata da un ben radicato processo formativo. Selvaggia e follemente padana la mano di Ligabue; costante, precisa, corroborata dallo studio e dal continuo confronto con la pittura del passato la mano di Bergomi.
La robustezza bergomiana passa allora attraverso una sensibilità basata su una vasta cultura iconografica che emerge attraverso rinvii e parziali appropriazioni subito trasfigurate dal maestro. Egli è soprattutto un uomo che guarda avidamente tutto ciò che è pittura; si sofferma sugli antichi, balza avanti nel tempo della contemporaneità, retrocede recuperando il proprio imprinting visivo, caratterizzato da una cultura contadina ancora forte, al limite della violenza – che non ha nulla a vedere con la poesia dolciastra né con un sentimento nostalgico a bassa gradazione – e la rapporta frequentemente alla grande arte della tradizione, ai veneti del secondo Quattrocento e del Cinquecento, all’adorato Mantegna che costituisce la spina dorsale del suo sentire statuario, con quella magnifica petrosità che Bergomi mette poi a colloquio con gli esiti pittorici di Novecento e dei muralisti sudamericani. Ma anche nelle sue mezzene di bestie scuoiate che mostrano l’architettura mortale del costato, una costante con la quela la maggior parte degli artisti in odoroe di espressionismo si sono misurati, a partire da fiamminghi come Beuckelaear, oppure Carracci, transitando per Velazquez e arrivando sino alla dissoluzione della forma della bestia, che si propone come un’icona reiterata, in Soutine. La bestia squartata per Bergomi non è soltanto lo spettacolo contemplato dell’abbondanza. E’ l’immagine di una cultura violenta, che si riconosceva nel rito del sacrificio sanguinario.
E’ una promozione sociale quella che egli compie. Il linguaggio un tempo utilizzato per descrivere gli Dei e gli eroi diventa, trasfigurato, strumento per la rappresentazione di un mondo contadino dominato dalla linea di una scultorea semplicità.
Il Bergomi maggiore alberga in quelle opere che sono un monumento alla quotidianità, costruite da un punto di vista ribassato, affinché i soggetti siano petrosamente scagliati in direzione del cielo, in un’eco di eroismo; e non fosse per i piedi smisuratamente ampi dei suoi attori, per quel certo fare che inclina alla dilatazione del simbolo fino a lambire la crudezza grottesca; non fosse per la rudezza sorgiva di una civiltà che non conosce la sezione aurea nella costruzione dei corpi – ma che era tutta affaticata nel reggersi in bilico sulla linea sgretolata della sopravvivenza – ; se non fosse insomma per queste sue torsioni che si fermano a un passo dalla deformazione espressionista, egli sarebbe finito per divenire un interprete del realismo sociale. Eppure il filtro della poesia blocca, in quest’artista, ogni tentazione di fare della pittura un saggio di antropologia e di etnologia, quanto la sua ricchezza nel campo dell’iconografia impedisce il minimo cedimento in direzione dello spontaneismo.
La violenta solidità dei dipinti trae origine dall’atto di condurre la propria pittura tra il rinascimento padano e Novecento; uno stile che egli matura a Milano, negli anni della formazione in un ambiente che rilancia la concretezza ieratica di Carrà e la statuarietà di Funi, frutti di una lunga stagione nella quale ci si abbranca alla pittura – e a una nuova modalità figurativa – contro le insidie dei diluvi universali astratti. Ecco: ciò che risulta centrale in Bergomi è una ricercata statuarietà dei modelli e l’attenzione perdurante nei confronti del soggetto umano, giacché anche i suoi paesaggi sono sempre caratterizzati da una presenza lontana o da un’impronta umana o da un’eco di un’umanità affaccendata e vociante; e pure i suoi muri – quand’egli dipinge pietre, intonaci e mattoni – sono grevi di tracce di vita, quanto le solide muraglie di Ottone Rosai, nelle periferie, che puzzano di piscio e di ortiche.
Ed è proprio il vigore, quel vigore rude e tutto bresciano, quasi prelinguiistico ad essere il motore primo dell’opera di Bergomi. E’ la violenza silenziosa della materia e la sua immensa forza ad attrarre il pittore. Sì, la violenza silenziosa della materia, la possanza dei muri, la monumentalità volutamente primitiva dei personaggi che recupera dai fossi della memoria, ai piedi degli olmi, da aie polverose flagellate dal sole, tra erbe alte, lungo le rogge. Una materia che assurge a divinità quando dà corpo agli alberi o alle Natività.
“Così è per le atmosfere simboliche delle casupole di Carrà, dei paesi di Rosai, degli uomini vissuti del Novecento italiano. La pittura di Bergomi appartiene al Novecento, ma è più generosa, non stacca al figura dal sentimento, la rende compatibile e quindi introduce un pietà artistica nuova non sacrale e non laicistica – scrive Tonino Zana -Solo e profondamente umana, nella logica degli uomini semplici i quali credono fino in fondo che il fiore e il pensiero, i tetti e il cielo, i funerali e i bambini sono dentro, ogni giorno, nel villaggio della nascita e nei villaggi dell’ultima visita, di nuovo prevista, laggiù, alle altezze andine. L’arte di Bergomi è un’arte unita, ogni dipinto si ragguaglia ad un altro, non c’è una separazione poiché di tutto si compone il miracolo dell’esistenza, dei diavoli e dei santi, dei facitori e dei distruttori, degli inquinatori e dei puri di colore e di spirito”
Dicevamo di Mantegna. Bergomi l’ha osservato a lungo. Negli anni giovanili dell’artista bresciano, Mantova dedicò al pittore dei propri trionfi una delle prime grandi mostre della storia, una mostra di massa che sarebbe stato incunabolo di tante altre rassegne, dei giorni nostri. Bergomi dovette partecipare come ammirato spettatore a quell’evento o compulsare ripetutamente il magnifico catalogo. Egli, al cospetto del pittore della Camera degli sposi, rivela un autentico rapimento; Mantegna, il figlio del falegname di Isola di Carturo, ceduto, venduto forse, o comunque mandato in bottega e adottato dallo Squarcione, aveva le sue stesse radici contadine e la stessa considerazione della materia. E poiché nella bottega squarcionesca, Mantegna aveva avuto il prodigioso incontro con le statue antiche collezionate dall’avido maestro e padre adottivo, Bergomi vide in Mantegna un faro che gli indicava la strada di raccordo tra la classica raffinatezza di quei monumenti e le proprie origini legate alla terra.
Nell’artista bresciano, sottesi o evidenti, appaiono con frequenza i riferimenti al grande maestro veneto e non solo quando, in modo piuttosto esplicito, ritraendo contadini sdraiati e utilizzando uno scorcio prospettico raccorciato, Giacomo riecheggia e rilegge Il Cristo morto, l’opera più sconvolgente del Mantegna lanciata attraverso i secoli come canto sempiterno alla violenza inestinguibile del dolore umano di fronte alla fine; nella stessa costruzione dei volti, l’occhio bergomiano dimostra di aver accolto il suggerimento mantegnesco di pensare prima alla struttura marmorea dei crani – la quale se ben modellata, trasforma ogni uomo in una divinità eroica – che all’epidermide della pittura e della carne.
Studiando cataloghi d’arte, frequentando mostre, il nostro pittore assume il linguaggio classico e lo traduce in un repertorio linguistico ricco di lemmi dialettali, come in Gadda; egli prende la lingua antica, la risolleva, la rinnova, in un realismo eroicamente magico al quale non è estraneo lo stesso muralismo sudamericano. (E non è un caso, aggiungiamo, che Giacomo sia così attratto da quel mondo lontano, dal Sudamerica dei campesinos).
Ma mentre guarda al di là dell’Oceano egli osserva contemporaneamente le radici della pittura italiana, come Giovanni Bellini della Venere allo specchio; e ne abbiamo prova inequivocabile da quel vaso che Bergomi, in una natura morta con paesaggio, colloca su un davanzale contro un agreste paesaggio; stessa inquadratura del maestro quattrocentesco reso dal nostro con un’efficace pittura di sintesi, come una meditazione moderna attorno allo stesso tema; e poi quell’attenzione al mondo delle cose che fu caratteristica precipua dei pittori bresciani del Cinquecento, tra Romanino e Moretto. Bergomi osservò i ceffi romaniniani, i brani di natura morta che troviamo nei dipinti sacri di Moretto, i quali non risultavano, in alcun caso, come elementi di complemento decorativo, ma uscivano come necessità di una teologia della materia. Del resto Brescia combatteva l’anabattismo e il pensiero di Zwingli per dimostrare che Cristo scende tutti i giorni nell’ostia, collocandosi pertanto sulla linea della quotidianità; che, insomma, Cristo non è soltanto un personaggio storico, ma domina i tempi, si incarna, si consustanzia nel pane dell’infinito presente; ecco allora questa necessità pittorica di calarlo all’interno della vita di tutti i giorni, come materia, come Figlio dell’uomo.
La materia diviene sacra emanazione della divinità, come ben capisce Bergomi. Nell’ampio corpus bergomiamo possiamo notare anche la rilettura incessante di altri pittori cinquecenteschi della solidità. Brueghel il vecchio, ad esempio. Da Brueghel, il nostro artista assume diverse situazioni – si pensi al Cacciatore di nidi, che riecheggia in diverse opere del bresciano dedicate alla giovinezza contadina – e quell’idea di movimento incessante. E mentre gioca con i mantelli dei campesinos, durante i suoi viaggi di pittura in Sudamerica, l’artista dimostra di utilizzare il modo raffinatissimo di Savoldo nel cogliere i bagliori, come nelle sete delle Maddalene, traendo lumi diffusi, serici, di resa straordinaria, che solo la pittura antica sapeva evocare con quella magica nettezza.
La linea è sempre quella della materia trionfante. Ecco allora volgere lo sguardo, per realizzare i secondi piani delle sue affollate cascine, ai fondali di Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto: le sue città color sabbia, i piccoli portaroli che attraversano le piazze, l’evocazione di muri che alla distanza, sfumano nel color terra di Siena, vengono reinterpretati in chiave novecentesca da Bergomi. Poi Van Gogh – rispetto al quale resta l’ evidente omaggio della natura morta con scarponi – e Gauguin per quella sua capacità di trasfigurare il dato reale in una dimensione di concreta spiritualità dei mondi arcaici di Pont Aven o di Tahiti, nei quali contadini o primitivi vivono a fianco delle divinità. Ma è straordinario notare, come dimostriamo in questa rassegna, che il maestro fece persino propria, adattandola cioè al proprio sentire, alcuni soggetti dell’impressionismo, una pittura apparentemente distante dal suo linguaggio, ma assunta come punto del confronto tra luce e materia attraverso il rifacimento, in una chiave di derivazione cézanniana, della Casa dell’Impiccato di Pissarro, uno dei misteriosi e dolci-inquietanti monumenti impressionisti.
L’artista rappresenta un raccordo ideale tra la tradizione e l’innovazione, al punto da rientrare nel carnet di Dino Buzzati, giornalista, scrittore, ma pur pittore, quindi in grado di giudicare, con un’ulteriore chiave di valutazione, l’attività dei colleghi “…Dimmi,dimmi, cosa c’è di buono? – vuoi che te lo dica?… Tozzi, per esempio… Treccani… Cassinari… Banchieri… Aimone… Bongiovanni Radice… Novello… Stradone… Steffenini… Somare Guido. E poi, per quello che ricordo, De Rocchi, Carpi, Borgognoni, Bergomi” (Dino Buzzati, Corriere della Sera, 27/10/1967) .
Il valore di Bergomi è anche quello di interpretare il sentimento del tempo.
“Succede che,quando l’industria e l’urbanesimo spopolano le cascine, depauperandole dalle braccia che le onorano col lavoro, Bergomi sente stravolgere in sé le ragioni della sua pittura.- scrive Giannetto Valzelli – E’ come se diseredassero anche lui, gli cavassero il sangue, gli strappassero l’anima. E allora reagisce come può reagire la mitezza in persona. Va a ritrovare se stesso al di là dell’Oceano, fra gli amerindi e i meticci delle tribù andine, l’altra faccia dell’orbe terracqueo. I ragazzi, le donne, i vecchi che aveva familiarmente assembrato nell’aria di affranto delirio e di coriacea rassegnazione della sua Padania, cambiano pelle e braghe, assumono le sembianze camuse e il poncho di un popolo di formiche che alla terra chiede il nulla e il tutto per sopravvivere. (…) Apparentemente relegata in una lontananza siderale, questa che Bergomi amplifica- tornando ai teleri provocatorii – è ancora la sommessa, la spiantata, la dolente epica del mondo contadino ripudiato dagli altri in patria, ma da lui riconquistato intatto nel cuore di un altro continente, in quel mirifico linguaggio dell’arte che si fa dono universale”.
Un dono di pura, solida poesia.