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di Luca Turelli
[L]a lunga, iridescente coda dell’alchimia spirituale influì esotericamente sulla produzione artistica della fine dell’Ottocento, soprattutto in ambito simbolista, all’interno di quella rinnovata attenzione nei confronti del mondo occulto che si configurava come risposta al più crudo positivismo. Due blocchi si contrapponevano: la scienza ufficiale, che considerava la realtà come elemento palese, senza proiezioni spirituali, né dimensioni metafisiche e il mondo composito dell’occultismo, che moltiplicò la propria attività con il fine di dimostrare che al di là dell’evidenza fisica esisterebbero altri mondi contrassegnati dallo spirito, in direzione di Dio. Per dirla con un’immagine sintetica: i pronipoti di Adamo si fronteggiavano con i discendenti delle scimmie di Darwin.
In particolar modo fu un gruppo di Rosacroce, in Francia, che trovò, nell’espressione artistica, com’era stata tradizione rinascimentale, uno strumento per giungere ad un’esposizione velata di arcani, che lasciassero intendere l’esistenza di mondi sovrannaturali.
Il gruppo rosacrociano si trovò ad agire con pittori di grande rilievo tra i quali Pierre Puvis de Chavannes, Félicien Rops, Georges Rouault, Odilon Redon, Fernand Edmond Jean Marie Khnopff, Jean Delville, Ferdinand Hodler, Marcel Béronneau, a ulteriore prova della natura spiritualista e antipositivista del Simbolismo. Ma facciamo qualche passo indietro nel tempo, affrontando un viaggio alle radici dell’espressione artistica al servizio dell’alchimia, che ebbe grande sviluppo a partire dal Quattrocento, in seguito alle traduzione dei libri ermetici ad opera di Marsilio Ficino.
I simboli alchemici, nel Rinascimento – per quanto traslati in figure ermetiche – confluirono in diversi casi nella pittura. Possiamo ricordare le opere di Parmigianino – il pittore che si ridusse alla rovina nell’ambito della ricerche dell’Arte regia – ma anche quelle di Dosso Dossi, di Giulio Romano, di Botticelli, di Dürer e di numerosi altri che svolsero, attraverso figure geroglifiche, termine che in greco antico significa “incisione del sacro”, il ruolo di indirizzare, di coprire e svelare parzialmente i saperi maturati in Occidente a partire dal XII secolo. L’alchimia era considerata un’arte per pochi eletti. E la posta in gioco era altissima: la scoperta della quintessenza, dell’oro potabile, la produzione dell’oro stabile che era al tempo stesso materia e spirito. Quella che fu, di fatto, una corsa alla conoscenza nell’ambito della ricerca proto-tecnologica, fu pertanto coperta da uno stretto riserbo. Non tutti gli uomini avrebbero potuto avvicinarsi ai segreti dell’universo. Da qui discendeva che i percorsi di conoscenza fossero molto complessi e che i segreti alchemici e i risultati delle diverse ricerche compiute dalle diverse scuole potessero essere letti esclusivamente dagli iniziati (e chi volesse oggi avventurarsi in un testo alchemico antico si troverebbe immediatamente e inquietantemente perso in una foresta oscura, a causa di una descrizione che non descrive).
Il motivo per il quale l’arte figurativa assunse, in diversi casi, il ruolo di valida fiancheggiatrice dei testi ermetico-alchemici è legato al percorso tortuoso della conoscenza in campo esoterico, da affrontare dopo aver fatto propria la regola del lege et relege, del leggere e rileggere per penetrare al di là di un’evidenza che avrebbe potuto trarre in inganno.
Le illustrazioni librarie e i dipinti avevano così il compito di gettare una luce – anch’essa comunque velata – sui testi criptici degli alchimisti stessi; e poiché quest’arte, soprattutto a partire da Federico II, venne studiata e praticata nelle corti nello stesso modo in cui, nel Novecento, tra Usa e Germania si affrontarono ricerche per la realizzazione della bomba atomica, le conoscenze erano coperte dal segreto.
Con il passare del tempo, con i cocenti insuccessi nell’ambito della trasformazione della materia, con la nascita della chimica moderna, l’alchimia perse la connotazione tecnologica e assunse quelle caratteristiche spirituali che, in parte, erano già presenti nell’Arte regia. Si puntò infatti a considerare il percorso alchemico come una trasformazione della propria anima in direzione di un luogo dello spirito nel quale fosse possibile raggiungere conoscenze superiori e avvicinarsi alla conoscenza assoluta garantita da un avvicinamento a Dio.
Su queste linee spiritualiste si mossero diversi gruppi di nuovi alchimisti e di rosacrociani. Il loro fine dichiarato era la scoperta di un mondo che stava al di là delle evidenze banali alle quali il mondo borghese pareva voler soggiacere. Anche l’arte, come valore spirituale di esplorazione della realtà invisibile, contribuì a questa indagine. Nel 1892, infatti, grazie all’impegno di Joséphin Péladan, l’allora leader dell’Ordine della Rosa Croce, del Tempio e del Graal – una delle correnti in cui è suddivisa al tempo l’organizzazione mistica – e, in seguito ad uno scisma, fondatore dell’Ordine Cattolico dei Rosacroce, viene inaugurato in Francia un appuntamento artistico singolare: il primo Salone della Rosacroce, appunto.
Gli ideali su cui l’intero evento fece perno sono esposti dallo stesso Péladan ne L’art Ochlorocratique (L’arte Oclorocratica), primo volume de La décadence esthétique, in cui vengono propugnati quei nuovi valori estetici, morali e religiosi di cui il mistico è portavoce. “L’artista dovrebbe essere un cavaliere con l’armatura – afferma – appassionatamente votato alla ricerca del Sacro Graal, un crociato impegnato in una lotta perenne con la borghesia”.
Il salone diviene ben presto luogo d’incontro per artisti appassionati d’occultismo e per i nemici dichiarati del positivismo borghese, sede nella quale “restaurare il culto dell’ideale, della bellezza e della tradizione”, motivo per cui le opere impressioniste e moderne non sono ammesse. Vengono invece esposte le tele raffiguranti temi mistici, spirituali, soggetti di derivazione cattolica, mentre i soggetti naturalistici vengono rifiutati. Già nel 1883 Péladan si era del resto scagliato contro Courbet e il realismo che intende “distruggere” il tessuto dell’arte e dell’Occidente. I sommi pensatori, Leonardo da Vinci e Dante Alighieri (che sul manifesto dell’evento, realizzato dal simbolista svizzero Carlos Schwabe, regge una spada e indossa quella che appare una divisa templare), erano chiamati a simboleggiare rispettivamente, in una logica allegorica strettamente connessa alle dottrine dell’associazione, il custode del Graal e il doppio di Ugo di Payns, fondatore dell’Ordine dei Templari.
Péladan annunciava, nell’ambito del programma dei Rosacroce, pubblicato nel 1893, che “uno dei requisiti necessari per divenirne membro è quello di ricercare e insegnare le norme della Bellezza”. L’esperimento artistico, che si ripeté altre cinque volte, fino al 1897, registrò un notevole successo. Puvis de Chavannes, Rops, Rouault, Redon, Khnopff, Delville, Hodler, Béronneau, furono solo alcune delle personalità illustri che parteciparono al salone. A questo punto dobbiamo fare un altro passo indietro per ricordare cosa fosse l’Ordine dei Rosacroce. Nato in Germania nel 1400 per opera di un misterioso personaggio, Christian Rosenkreutz, ha la sua vera diffusione quando, tra il 1614 e il 1616, tre opuscoli, tra cui Le nozze chimiche di Cristiano Rosa Croce, attribuito a Johan Valentin Andreae, creano un grande fermento in tutto il continente.
Il simbolo nella sua interezza rappresenta le due facce dell’uomo (la croce raffigura l’essere umano nella sua accezione fisica mentre la rosa ne simboleggia l’aspetto spirituale in crescita). Un’evoluzione interiore, un’alchimia spirituale, quindi, che è anche culturale. Diviene allora comprensibile che quegli artisti, lontani tanto dal realismo courbettiano che dall’Impressionismo, recuperassero tali antichi saperi.
Gustave Moreau (1826-98), simbolista, pur non partecipando ai saloni, fa
proprio, insieme ai colleghi che invece presenziarono alle mostre, il pensiero di Péladan, secondo il quale “rendere visibile l’invisibile” è “il vero scopo dell’arte e la sua unica ragion d’essere”. Moreau, infatti, esprime questo concetto attraverso quadri in cui “nel rappresentare la carne, riesce anche a dipingere l’anima oltre i corpi”, come nella Salomè che danza davanti a Erode (1876).
Nel 1892 si registra la partecipazione di Gaetano Previati (1852-1920) con Maternità. Fin da giovane, dagli anni in cui studia a Brera, era entrato in contatto con la Scapigliatura lombarda, che lo aveva portato ad una percezione romantico-sentimentale del soggetto e, in seguito, ad una pittura di idee e immagini ispirata da Redon e Rops, che trovò la sua naturale evoluzione nell’opera sopraccitata, pervasa da una luce fortemente antinaturalistica.
Fernand Khnopff (1858-1921) espose l’anno successivo I look my door upon myself. Nei suoi dipinti, in cui è presente l’insegnamento di Moreau e Delacroix, il simbolismo è sorretto da un sentimento misticheggiante che deriva dal rapporto con i Rosacroce. Partecipò all’ultima rassegna, la sesta, la tela di Georges Rouault (1871-1958) Gesù in mezzo ai dottori. Inizialmente decoratore di vetrate, Rouault si era formato frequentando lo studio di Moreau. Nelle sue opere ritroviamo un uso evocativo dei colori e un simbolismo spirituale che ne fanno uno dei maggiori autori di arte sacra del tempo.
Péladan, accortosi che ormai il linguaggio propugnato era stato diffuso, decise di porre fine alle mostre.“Depongo le armi – scrisse -. La formula artistica che ho difeso è ormai accolta ovunque. (…) Il fiume è stato attraversato”.
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