Cantofoli – I languori di Ginevra, madre e pittrice del Seicento

Sensibile interprete di una variante intimista dell’arte bolognese del ’600, autrice di opere bellissime attribuite però ad altri, su Ginevra Cantofoli sembrava calato l’oblio. Ora la riscoperta, grazie a trenta dipinti ricondotti alla sua mano

cantofoli 5[G]inevra Cantofoli è stata una pittrice vissuta nella Bologna del Seicento, alle spalle della più celebre Elisabetta Sirani, del cui “cenacolo al femminile” fu membro tra i più attivi e che sul solco del classicismo tracciato da Domenichino e Guido Reni, seppe esprimere una variante intimista e languida nell’ambito dell’arte bolognese di epoca barocca.
Sulla sua figura però è “calata una non cruenta ma inesorabile damnatio memoriae, che ha disperso una a una le poche tracce pubbliche che ella aveva lasciato dietro di sé”, come dice Massimo Pulini a cui si deve la recente ricostruzione di questa affascinante personalità artistica a partire dal ritrovamento di trenta opere che è stato possibile ricondurre alla sua mano.
Autore di un’approfondita ricerca sfociata nel volume Ginevra Cantofoli. La nuova nascita di una pittrice nella Bologna del Seicento (Editrice Compositori, 144 pagine, 40 euro), Pulini restituisce con piglio narrativo la vicenda umana di un’artista dallo spirito delicato e tenace e dalle qualità esecutive di indiscutibile spessore. Per comprendere quanto ingiusto sia stato il velo d’ombra che fino ad oggi ha nascosto la sua immagine, basti pensare che, passati sotto il nome di Guido Reni e di altri importanti pittori, alcuni suoi quadri hanno goduto nel corso dei secoli di una fama vastissima.
Punto di partenza dello studio che ha condotto l’autore al catalogo delle opere e ad un primo regesto di documenti è stata l’esile traccia di un unico dipinto: l’autoritratto conservato a Brera con il titolo Allegoria della Pittura, che, pur non recando firme, al suo ingresso nel museo milanese nel 1813 venne associato al nome della Cantofoli. Essendo molto improbabile che a un quadro di tale livello qualitativo venga collegato un nome pressoché sconosciuto senza una precisa ragione, è plausibile che esso fosse accompagnato da documenti cartacei poi smarriti che ne confermavano l’autografia.
Secondo quanto ricostruito, attraverso un attento studio filologico e l’analisi del contesto e delle relazioni attraverso le quali Ginevra diede forma al proprio stile, la pittrice era nata presumibilmente a Bologna nel 1618 da Ottavia Buldrini e Francesco Cantofoli, il quale non era un pittore, come ci si potrebbe aspettare, ma forse un cultore di belle arti, che incentivava un’educazione elevata ed aperta anche per le figlie femmine. Gli elementi a disposizione portano ad ipotizzare un apprendistato sotto la guida di Giovanni Andrea Sirani, quindi nel solco di una rispettosa tradizione reniana.
Stando ai documenti, Ginevra contrasse matrimonio nel 1653 con Francesco di Michele Facchini, e dalla loro unione nacquero Orsola Catterina e Michelangelo. Dunque, quando si venne a costituire l’accademia artistica intorno alla figura di Elisabetta Sirani, Ginevra dipingeva da molti anni ed era madre di due figli. L’Inventario tutelare redatto dalla pittrice nel 1668 solo qualche mese dopo la morte del marito in favore della figlia (dal che si deduce che anche il piccolo Michelangelo doveva essere nel frattempo mancato) rappresenta il documento più ricco di informazioni che è giunto a noi, sia sulla sua vita privata che su quella artistica.
Delle cinquantuno opere citate nell’elenco, molte sono esplicitamente riferite alla sua mano, e la presenza di un nucleo di lavori eseguiti su cristallo ci lascia immaginare una particolare inclinazione verso tecniche insolite e certamente minuziose, probabilmente vicine alla miniatura. L’atto di morte di Ginevra riporta la data dell’11 ottobre 1672.
Nessun processo per stupro, dunque, né una segregazione patrigna, e neppure una morte violenta in giovane età come altre “eroine della pittura”, hanno caratterizzato la vita di Ginevra Cantofoli, ma piuttosto un’eccezionale normalità, una riservatezza che hanno reso possibile a un minuscolo cono d’ombra il celarne l’identità per secoli. Tuttavia, ammirando la sfilata di dipinti che oggi è possibile ricondurre alla sua mano, in cui si osserva la singolare insistenza sulla ripetizione di mezze figure femminili, possiamo assistere alla sua rinascita come interprete di spicco di una realtà culturale di cui, seppur con una maturazione lenta, con un atteggiamento di grande discrezione, seppe cogliere gli spunti più alti e offrirne un’autonoma reinterpretazione.


Fortissimi sono gli echi ravvisabili nel suo lavoro di grandi artisti coevi a cui certamente ella guardava e con cui, in alcuni casi, aveva una certa prossimità di rapporti. Più che a Reni, il pensiero della pittrice sembra svolgersi in dialogo con l’opera di alcuni degli allievi di Guido: con le tenerezze di Francesco Gessi, le acute finitezze di Pier Francesco Cittadini, la ieratica distanza di Gian Giacomo Sementi, ma soprattutto con gli spunti più geniali di Simone Cantarini e Michele Desubleo, messi in atto dopo il 1635. E in un secondo tempo a tali riferimenti vennero ad affiancarsi Lorenzo Pasinelli e la stessa Sirani.
E’ altresì evidente che a Ginevra giunsero anche gli insegnamenti di composto rigore stilistico che Domenichino aveva trasferito a figure come Cozza, Sassoferrato, Mignard e Cerrini, con le cui opere certamente ella ebbe modo di confrontarsi. E non terminano qui le consonanze, alcune ancora da decifrare appieno, fra le opere della nostra pittrice e quelle di altre personalità più note, ad ulteriore conferma della sua preparazione e della sua sensibilità.

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