Incentrata su tre eventi chiave – l’abolizione della schiavitù (1794-1848), l’era della Nuova Pittura (Manet, Bazille, Degas, Cézanne) e le avanguardie del primo Novecento – la mostra “Le modèle noir de Géricault à Matisse” al museo d’Orsay (26 marzo – 21 luglio 2019) ha offerto una nuova prospettiva su un argomento trascurato troppo a lungo: il contributo delle persone di colore alla storia dell’arte.
Il titolo della mostra stessa ha inteso sottolineare i diversi significati potenziali della parola “modello”, che può essere intesa sia come “modello di artista” sia come figura esemplare. La mostra esplora l’identità di queste figure trascurate nella storia della modernità e tenta di reintegrare i loro nomi, rivelare le loro storie e ridargli visibilità.
Tutto inizia nel 1794
Il 4 febbraio 1794, un primo decreto di abolizione, doppiamente rivoluzionario, accorda agli schiavi affrancati senza distinzione di colore, la piena cittadinanza francese. Per la Francia dell’anno II, si tratta di ratificare la rivolta vittoriosa degli schiavi dell’isola di Santo Domingo nel 1791, guidati da Toussaint Louverture, e di annettere alla Repubblica l’isola minacciata dalle flotte straniere.
Tuttavia, a partire dal 1802, Napoleone I ristabilisce la schiavitù. Le truppe da lui inviate a Santo Domingo si scontrano però con una resistenza tenace: il 1° gennaio 1804, l’isola indipendente diventa la Repubblica di Haiti, passando alla storia come la “prima Nazione nera” (Aimé Césaire).
Lo spartiacque storico rappresentato dalla Rivoluzione francese fa emergere i ritratti di individui neri emancipati, tra cui i famosi Jean-Baptiste Belley di Anne-Louis Girodet e Madeleine di Marie-Guillemine Benoist.
Pur occupando lo spazio artistico creato dalla rivoluzione politica e sociale di fine Settecento, queste opere attestano comunque le ambiguità tipiche dell’epoca: così, l’opuscolo del Salon del 1800 che accompagna il Ritratto di una donna nera non rivela né lo status domestico né il nome della modella, né tantomeno fa luce sulle intenzioni dell’artista, che sono ancora oggi oggetto di dibattito.
Théodore Géricault (1791-1824) è adolescente quando Napoleone I, desideroso di ricostruire un potente impero francese nelle Americhe, fa ristabilire la schiavitù nei Caraibi. La legislazione particolarmente restrittiva che accompagna questa decisione (divieto dei matrimonio interrazziali, divieto di accesso alla metropoli per i neri delle colonie…) spiega il risveglio del movimento abolizionista, a cui aderisce Géricault. Costui mette la propria foga romantica al servizio di questa causa, moltiplicando le rappresentazioni vigorose o addolorate dei neri.
La sua corrispondenza non dà nessuna informazione sugli uomini e le donne di colore che posano per lui, ma sappiamo che si rivolse al modello Joseph, originario di Haiti, rappresentato anche da Théodore Chassériau. Per la sua opera iconica, La zattera della Medusa, Joseph incarna il marinaio a torso nudo che sventola, sollevandosi su una botte, il fazzoletto dell’ultima speranza collettiva.
Questo quadro, che documenta la funesta spedizione coloniale della fregata Méduse nell’estate 1816 al largo delle coste dell’attuale Mauritania, conobbe diverse fasi.
Se il primo bozzetto colpisce per l’assenza di qualunque figura nera, la composizione finale ne presenta tre, ossia due in più rispetto a quanto riferisce la Storia. Moltiplicando le figure nere nel suo quadro, Géricault sintetizza così la sua battaglia per la fratellanza e dota la causa abolizionista di un simbolo fondamentale.
L’arte contro la schiavitù
Il 29 marzo 1815, Napoleone I abolisce la tratta dei neri, decisione che sarà confermata qualche anno dopo da Luigi XVIII. Tuttavia, malgrado l’accresciuta pressione degli abolizionisti, il sistema schiavista persiste e i governi che si susseguiranno durante la Restaurazione e la Monarchia di luglio si limiteranno a riformarlo.
D’altra parte, il tono si inasprisce tra i pittori. La tratta dei neri di François-Auguste Biard fa scalpore al Salon del 1835. Altri osano denunciare le pene inflitte alle vittime di un sistema inumano. È il caso di Marcel Verdier, allievo di Ingres, che nel 1843 si vede rifiutare dal Salon la sua Punizione dei quattro paletti.
Bisogna attendere il 27 aprile 1848 affinché la Seconda Repubblica nascente abolisca la schiavitù nelle colonie francesi. Biard si fa carico di celebrare questa misura simbolica in un quadro che vede riuniti neri e bianchi, in cui l’esultanza degli schiavi affrancati, le catene spezzate e la bandiera tricolore festeggiano con enfasi l’unione fraterna del nuovo ordine repubblicano.
L’immensa tela di Biard si riallaccia così alle tesi antischiaviste di Victor Schoelcher. Inoltre, al Salon di quello stesso anno 1848, lo scultore Charles Cordier passa in rassegna la famiglia umana nella sua unità e nella sua peculiare diversità.
La mescolanza, tema cruciale del Romanticismo francese, è impersonata da due figure chiave dell’epoca: Alexandre Dumas e Jeanne Duval. L’autore del Conte di Montecristo, nipote di Marie-Césette Dumas, schiava affrancata di Santo Domingo, è oggetto di numerosissime caricature più o meno gentili sulle sue origini. Lo scrittore affronterà personalmente e in modo schietto il tema della schiavitù ne Il capitano Panfilo (1839).
Nata probabilmente ad Haiti intorno al 1827, l’attrice Jeanne Duval diventa, a soli 15 anni,l’amante e la musa di Baudelaire. Figura ideale del dualismo degli esseri e degli amori, ella pervade i disegni del poeta e si insinua ben presto nelle poesie esotiche dei Fiori del male, probabilmente le preferite di Manet e senz’altro di Matisse.
Il fotografo Nadar accosterà, dopo il 1850, l’universo di Dumas e quello di Baudelaire. Pur non avendo fotografato Jeanne Duval, egli la descrisse. Lo stesso fece Théodore de Banville, che nei suoi Ricordi rievoca “una ragazza di colore, di statura molto alta, che portava ingenua e superba la sua testa corvina, incoronata da una capigliatura violentemente riccioluta, e la cui andatura regale, piena di una grazia selvaggia, aveva un che di divino e di ferino al tempo stesso”.
È in seno alla piccola comunità nera stabilitasi in Francia nel XIX secolo che gli artisti ingaggiarono modelli che potessero posare per loro di tanto in tanto. Gli studi di bottega costituiscono delle testimonianze impareggiabili sulla presenza dei neri a Parigi, la cui attività è allora essenzialmente concentrata nei settori della servitù e dell’artigianato.
In mancanza di un censimento, sono poche le fonti a nostra disposizione per associare un nome o un soprannome a un volto. Allo stesso modo, rari sono i mezzi che ci permettono di restituire un’identità ai diversi modelli che posavano per gli artisti. Dei preziosi archivi provenienti dalla Scuola delle belle arti di Parigi rivelano per alcuni di essi l’età, l’indirizzo e a volte il paese di origine.
Gli studi dipinti raffiguranti questi uomini e queste donne nelle botteghe degli artisti a mo’ di ritratti intimisti e individualizzati, contrastano con i quadri del Salon, in cui persiste l’ambivalenza degli stereotipi associati ai personaggi neri.
Testimonianza delle relazioni che potevano esistere tra artisti e modelli, queste rappresentazioni attestano al tempo stesso le ricerche plastiche che contribuirono all’elaborazione di un nuovo universo estetico. Eccetto alcune caricature violente, la figura della domestica nera passò relativamente inosservata nello scandalo suscitato dalla presentazione dell’Olympia di Manet al Salon del 1865 (nella foto, qui sotto). Difatti, le critiche si concentrarono principalmente sul soggetto del quadro, giudicato volgare, e sull’assenza di idealizzazione del nudo femminile.
Questa “invisibilità” della donna nera traduce la parte convenzionale della rappresentazione (atteggiamento ossequioso, bouquet di fiori in mano) che si riallaccia peraltro a una lunga tradizione orientalista, la quale gioca sui contrasti e la tensione erotica provocata dall’accostamento di un corpo nero e di uno bianco. Tuttavia, Manet introduce un cambiamento radicale scegliendo di rappresentare non una scena di toilette fantasticata in un altrove esotico, bensì una scena di prostituzione nella Parigi contemporanea. La presenza di una domestica nera – che rimanda a un immaginario aristocratico coloniale – può essere interpretata come un indicatore dello status sociale elevato della cortigiana, andando così a rafforzare il potere sovversivo del quadro.
Frédéric Bazille, ammiratore di Manet, opera un singolare connubio tra la Parigi moderna e un Oriente lontano in La toilette, opera rifiutata al Salon del 1870. D’altro canto, nella Moderna Olympia, presentata alla prima mostra impressionista, Cézanne svela l’altra faccia del quadro di Manet introducendo la presenza del cliente e attribuendo alla serva un ruolo attivo e teatrale.
L’emancipazione nello spettacolo
e sulla pista dei circhi
La presenza di personalità nere nell’ambito dello spettacolo e del circo è notevole sin dall’inizio dell’Ottocento. Tra esse, si annoverano numerosi artisti provenienti dagli Stati Uniti o dai Caraibi. È così che Joseph, originario di Santo Domingo, fu individuato da Géricault in una troupe di acrobati parigini, o che la musicista avanese Maria Martinez, l’attore shakespeariano Ira Aldridge e il virtuoso del pianoforte Blind Tom, entrambi americani, cercarono in Francia e altrove in Europa la possibilità di fare carriera.
Questo fascino esercitato dalla scena parigina sui neri nati dall’altro lato dell’Atlantico è forte alla fine dell’Ottocento, soprattutto nel settore circense. Locandine e articoli di giornale attestano la celebrità degli americani Delmonico, intrepido domatore di animali, e Miss La La, acrobata aerea la cui straordinaria potenza degli esercizi di forza ispirò a Degas un dipinto dall’inquadratura altrettanto incredibile. Diverso dalla performance fisica sensazionale è il registro esplorato dal clown Rafael, originario dell’Avana. Sotto lo pseudonimo Chocolat, egli interpreta il ruolo dell’augusto al fianco di Footit, clown bianco e tirannico. Il duo ispirò diverse opere a Toulouse-Lautrec, oltre che pubblicità, giocattoli, marionette ecc. Fu filmato dai fratelli Lumière in vista dell’Esposizione Universale del 1900.
La figura dei soldati di colore
nelle due guerre mondiali
La Prima guerra mondiale mobilita numerosi soldati neri. Sin dall’autunno del 1914, i tiratori senegalesi, corpi d’armata delle truppe coloniali, prendono parte al conflitto. Dopo un periodo di adattamento, partecipano alla maggior parte delle grandi offensive, tra cui la battaglia di Verdun e la seconda battaglia dell’Aisne.
A differenza della Germania che li rappresenta come combattenti cannibali impiegati in modo sleale dal nemico, la Francia si allontana dall’iconografia coloniale del Selvaggio e si sforza di diffonderne l’immagine del soldato leale e coraggioso. Da qui nacque il famoso personaggio sorridente delle pubblicità Banania, denunciate negli anni Trenta dai militanti del movimento Negritudine.
A partire dall’ingresso in guerra degli Stati Uniti nel 1917, dei contingenti di soldati neri-americani raggiungono le trincee portando con sé una musica nuova, il jazz. Nel 1918, la famosa orchestra del reggimento degli “Harlem Hellfighters” diretta da James Reese Europe elettrizza le folle. La presenza inedita di una comunità nera trasforma la Parigi degli anni Venti, percepita come un rifugio cosmopolita per chi fugge la segregazione razziale.
Il mondo dello spettacolo viene fatto rivivere da artisti provenienti dagli Stati Uniti o dalle Antille, tra cui la più famosa è la ballerina Joséphine Baker. Diversi luoghi, film o riviste celebrano le performance degli artisti neri.
Voci e contro-voci dell’Impero coloniale
Mentre la conquista coloniale viene celebrata attraverso le esposizioni universali e la ricostruzione di scenari di villaggi indigeni, il rapporto con il “modello nero” muta sensibilmente all’inizio del Novecento. Un immaginario dell’altrove prende forma soprattutto dopo il primo viaggio di Gauguin in Martinica (1887) e le oniriche foreste tropicali di Rousseau il Doganiere.
Queste visioni idilliache di un paradiso perduto, associate, sin dagli anni 1906-’07, alla scoperta della statuaria africana da parte di Derain, Picasso e Matisse, danno luogo a una stilizzazione nuova che rimette in discussione il semplice rapporto mimetico con il modello.
Picasso sostituisce il viso di una delle cinque figure delle sue Demoiselles d’Avignon con una maschera Baoulé e Matisse dipinge un Nudo blu radicale. Questa alterità plastica acquisterà una dimensione politica con la generazione successiva. Il movimento dadaista e surrealista erigerà a modello antioccidentale e antiborghese il sogno africano, quello stesso che ritrae Impressioni d’Africa, opera curiosa e poetica di Raymond Roussel, o che inscenano imprese come la lotta tra Arthur Cravan e il campione di boxe nero-americano Jack Johnson.
La Negritudine a Parigi
La Parigi degli anni Venti conosce un’autentica voga del jazz e degli artisti neri i cui corpi erotizzati appaiono in numerose opere Art Déco. Alcune muse effimere della Bohème parigina, come Aïcha Goblet o Adrienne Fidelin, vengono ritratte.
Nel 1919, a Parigi ha luogo la prima conferenza panafricana, organizzata da uno dei principali attori del Rinascimento di Harlem, W.E.B. du Bois, con cui si pongono le basi per una rivendicazione di autodeterminazione dei neri.
A partire dagli anni Trenta, in piena egemonia coloniale e ascesa dei fascismi, l’affermazione del movimento della Negritudine è sostenuta dalla nascita, nel 1931, della Revue du Monde noir e dall’attività dei poeti Léon-Gontran Damas, Aimé Césaire e Léopold Sédar Senghor, che fondano nel 1935 la rivista L’Etudiant noir.
Michel Leiris e la rivista Document de Bataille rivendicano d’altro canto un approccio etnografico e sociologico agli oggetti africani; i surrealisti si associano al Partito Comunista per organizzare una contro-esposizione in risposta all’enorme Esposizione coloniale del 1931.
Durante la sua traversata verso New York, in fuga dal regime di Vichy nel 1941, André Breton, accompagnato dai pittori Wilfredo Lam e André Masson, scopre, affascinato, a Fort-de-France, la poesia di Césaire, Diario del ritorno al paese natale, e scrive, insieme a Masson, un duplice omaggio sincretico, alla Martinica e a Rousseau il Doganiere: Martinica, l’incantatrice di serpenti (1948).
Matisse ad Harlem
Matisse intraprende nel 1930 un lungo viaggio alla volta di Tahiti passando dagli Stati Uniti. Vede per la prima volta New York e resta affascinato dai grattacieli, dalla luce e dai “musical” di Harlem. Scopre il quartiere nero, allora in piena “rinascita” mentre intellettuali come Du Bois o Alain Locke, musicisti come Louis Amstrong o Billie Holiday e fotografi come James van der Zee difendono una cultura nera moderna e urbana. Imbevuto di jazz grazie ai dischi portatigli da suo figlio Pierre, gallerista newyorchese, Matisse frequenta i club di Harlem, soprattutto il famoso Connie’s Inn. Torna in Francia pervaso dalla ritmica del jazz mista alle sensazioni colorate e vegetali di Tahiti.
Questa esperienza costituisce il crogiolo delle sue ultime opere. Lavora allora con diverse modelle meticce: Elvire van Hyfte, belga-congolese, che incarna l’Asia in un bellissimo quadro del 1946, Carmen Lahens, haitiana, che posa per i disegni dei Fiore del male di Baudelaire, lontana evocazione di Jeanne Duval, amante del poeta, o ancora Katherine Dunham, la fondatrice dei Ballets caraïbes alla fine degli anni Quaranta, la quale ispira al pittore uno dei suoi ultimi papiers découpés, la Ballerina creola (1951). Tutte figure concise e stilizzate, che sottolineano l’affinità del disegno di Matisse alla linea melodica improvvisata del jazz.
L’ambigua Olympia di Manet
snodo del pensiero sui modelli neri
Per la sua complessità e potenza formale, l’Olympia di Manet rappresenta una pietra miliare nella storia dell’arte moderna, oggetto di ispirazione e di decostruzione all’infinito: dalle rivisitazioni di Cézanne e la copia di Gauguin nel 1891, passando dalle Odalische di Matisse e le molteplici reinterpretazioni fatte dal Rinascimento di Harlem, dalla Pop Art e via dicendo fino ai nostri giorni.
La compresenza della figura bianca e della figura nera è al centro delle riletture del quadro. I giochi formali del dualismo cromatico, del contrasto tra la posizione distesa e la posizione in piedi interrogano le identità razziali, sociali e sessuali delle due donne, i rapporti tra Occidente e Africa, e forgiano veri e propri dispositivi plastici per gli artisti successivi.