I Neanderthal accudivano in gruppo i bambini con sindrome di Down. Studio sui fossili di una bimba di 6 anni. Rozzi, ma solidali

Studi genetici hanno rivelato che gli esseri umani moderni non africani portano tra l'1% e il 2% di DNA neanderthaliano, risultato di incroci "recenti" avvenuti circa 50.000-60.000 anni fa, quando i due gruppi si sono incontrati in Eurasia

Un bambino o bambina – in questo momento gli archeologi preferiscono immaginarla una bambina – di Neanderthal con sindrome di Down è sopravvissuto almeno fino all’età di sei anni, secondo un nuovo studio i cui risultati suggeriscono un’assistenza compassionevole tra le specie umane arcaiche e estinte.

Questo tipo di sopravvivenza – con un handicap che, a quei tempi, era gravissimo anche sotto il profilo della fisiologia – non sarebbe stata possibile, secondo gli studiosi, se non fosse esistita una rete di solidarietà e di assistenza che andasse al di là dei genitori. La scoperta si aggiunge ad altre evidenze emerse in questi anni che consentono di affermare che i Neanderthal fossero meno rozzi e arretrati – rispetto a noi Sapiens – di quanto si pensasse. Ricerche precedenti hanno dimostrato che i Neanderthal erano intelligenti e creavano arte, pigmenti, oggetti simbolici e forse disponevano di un linguaggio parlato, oltre a utilizzare complessi metodi di caccia di gruppo. Sono scomparsi relativamente presto dopo che la nostra specie si è diffusa nel loro territorio.

Ma torniamo alla scoperta sul bambino/a con sindrome di Down. Un recente esame di un fossile umano appartenente al gruppo degli uomini di Neanderthal – rinvenuto nel sito archeologico di Cova Negra, nella provincia spagnola di Valencia, – ha rilevato tratti nell’anatomia dell’orecchio interno che indicavano la sindrome di Down, la prima prova conosciuta della condizione genetica.

Il fossile, che conserva l’anatomia completa dell’orecchio interno, è stato rinvenuto nel 1989 ma il suo significato non è stato riconosciuto fino a poco tempo fa. Si tratta di un frammento di una delle due ossa temporali – quella destra – che contribuiscono a formare i lati e la base del cranio, proteggendo il cervello e circondando il condotto uditivo.

Anche se i ricercatori non possono essere sicuri se il fossile fosse quello di una bambina o di un bambino, hanno soprannominato il piccolo Neanderthal “Tina”. La combinazione di anomalie dell’orecchio interno di Tina è nota solo nelle persone con sindrome di Down.

“La patologia di cui soffriva questo individuo provocava sintomi altamente invalidanti, tra cui, come minimo, completa sordità, gravi attacchi di vertigini e incapacità di mantenere l’equilibrio”, ha affermato Mercedes Conde-Valverde, paleoantropologa dell’Università di Alcalá in Spagna, autore principale dello studio, pubblicato sulla rivista Science Advances.

“Dati questi sintomi, è altamente improbabile che la madre da sola avrebbe potuto fornire tutte le cure necessarie, provvedendo allo stesso tempo alle proprie necessità. Pertanto Tina, essendo sopravvissuta per almeno sei anni, deve aver ricevuto cure e assistenza anche dal gruppo che deve essere stato attivamente accanto alla madre, sollevandola nella cura del bambino o aiutandola nelle sue attività quotidiane, o entrambe le cose”, ha aggiunto l’antropologa Conde-Valverde.

Tra le altre patologie, c’erano anomalie nei canali semicircolari – tre piccoli tubi che governano l’equilibrio e la posizione della testa sensoriale – e una riduzione delle dimensioni della coclea, la parte dell’orecchio interno coinvolta nell’udito.

La datazione precisa del fossile non è stata determinata, ma Conde-Valverde ha osservato che la presenza di uomini di Neanderthal nel sito di Cova Negra è stata datata tra 273.000 e 146.000 anni fa.

Gli uomini di Neanderthal (Homo neanderthalensis) erano un gruppo umano vissuto in Europa e Asia occidentale circa tra 400.000 e 40.000 anni fa. Erano caratterizzati da un corpo robusto e muscoloso, un cranio allungato con arcate sopraccigliari prominenti, un naso largo e una capacità cranica simile a quella degli umani moderni. Sono i nostri parenti più stretti, condividendo con noi un antenato comune vissuto circa 600.000 anni fa. Studi genetici hanno rivelato che gli esseri umani moderni non africani portano tra l’1% e il 2% di DNA neanderthaliano, risultato di incroci “recenti” avvenuti circa 50.000-60.000 anni fa, quando i due gruppi si sono incontrati in Eurasia.

Queste unioni miste – probabilmente episodiche – hanno influenzato vari aspetti della nostra biologia, tra cui il sistema immunitario e alcune caratteristiche fisiche. Sapiens e Neanderthal quindi non solo discendevano dallo stesso ceppo, ma dopo un lunghissimo sviluppo autonomo, quando entrarono ancora in contatto, poterono fare figli. Anche se i casi furono limitati, noi abbiamo nel nostro patrimonio genetico segni di quelle antiche unioni.

Precedenti e recenti studi relativi agli uomini di Neanderthal hanno dimostrato che si prendevano cura dei loro malati e feriti. Ciò ha stimolato un dibattito sul fatto se ciò fosse motivato semplicemente da aspettative di comportamento reciproco o da genuina compassione.

“Da decenni è noto che i Neanderthal si prendevano cura dei loro compagni vulnerabili”, ha detto Conde-Valverde. “Tuttavia, tutti i casi conosciuti di cura coinvolgevano individui adulti, portando alcuni scienziati a credere che questo comportamento non fosse autentico altruismo ma semplicemente uno scambio di assistenza tra pari. Quello che finora non si sapeva era il caso di un individuo che aveva ricevuto cure extramaterne fin dalla nascita, anche se l’individuo non poteva ricambiare. La scoperta del fossile di Cova Negra supporta l’esistenza di un vero altruismo tra i Neanderthal”.

Le prove archeologiche a Cova Negra indicano che il sito fu occupato per brevi periodi alla volta da piccoli gruppi di Neanderthal, cacciatori-raccoglitori che vagavano per il paesaggio in cerca di cibo e altre risorse. L’età di Tina alla morte, basata sullo stato di maturazione di alcune strutture dell’orecchio interno, mostra una longevità insolita per un bambino affetto, in tali circostanze, da una condizione nota di disabilità intellettiva e ritardi dello sviluppo”.

“La sopravvivenza di questo bambino, oltre il periodo dell’allattamento, implica un accudimento di gruppo, probabilmente più esteso di quello dei genitori, tipico di un contesto sociale altamente collaborativo tra i membri del gruppo. Altrimenti, è molto difficile spiegare la sopravvivenza di questo individuo fino all’età di sei anni”, ha affermato Valentín Villaverde, coautore dello studio e professore emerito di preistoria presso l’Università di Valencia.

Conde-Valverde ha dichiarato: “La scoperta di Tina rappresenta il più antico caso conosciuto di sindrome di Down e dimostra che la diversità osservata negli esseri umani moderni era già presente in epoca preistorica. Questa scoperta garantisce che la storia dell’evoluzione umana ci include tutti”.

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