di Paola Castellini
[C]he formazione ha avuto il caravaggino Francesco Prata? Che contatti ha intrattenuto con Girolamo Romanino? Dove si è svolta la sua attività? Tutte domande che pesano sul pittore e a cui solo parzialmente si è tentato di rispondere in questi ultimi tempi.
L’attenzione sull’artista, ancora ignoto al Cavalcaselle (History of Painting in North Italy, London 1912), ha avuto in poco più di due decenni un’attenzione bibliografica che ha portato a meglio circoscrivere la sua biografia e a costituire un primo catalogo della sua opera.
La figura di Magistri Francisci de Caravaio è così denominata nella riunione del collegio dei pittori presso la Scuola di San Luca a Brescia il 19 aprile 1517. Per il resto, ancora troppo poche sono le notizie documentarie che diano conto del suo percorso biografico e creativo: il 6 maggio 1510 il pittore ottiene l’emancipatio a Caravaggio, che lo consacra artista autonomo a tutti gli effetti; oltre alla già citata adesione alla Scuola di San Luca, a Brescia è citato come teste in un atto rogato nella chiesa di San Francesco il 29 dicembre 1518, come pure nel rogito notarile del 12 dicembre 1520, che ci restituisce eccezionalmente il patronimico (Francisco F. Io. Antonimi de Prato pictore). La mobilità del pittore tra Brescia, Caravaggio e, forse, Cremona in questi primi due decenni del secolo ce lo segnala nella patria d’origine il 14 gennaio 1521, al lavoro per gli importanti affreschi della cupola del Santissimo Sacramento della chiesa dei Santi Fermo e Rustico a Caravaggio (Servida, 1995), e di nuovo a Brescia nel 1522, allorché riceve il pagamento per l’esecuzione della pala di Sant’Agata nell’omonima chiesa. Nel terzo decennio sembra più fitta la sua presenza nella realtà urbana lombarda, testimone in un rogito cittadino nel 1523, residente nella II quadra di San Giovanni (Registro degli Estimi del 1525) e solvente per le custodie notturne degli anni 1525 e 1526, a documentare un suo allontanamento temporaneo dalla città. Un ultimo dato che segnala la sua avvenuta scomparsa è quello presente nel Liber Mortuorum dell’archivio di Caravaggio, ove figura deceduta il 10 maggio 1567 tale “Ronzetta moglie del quondam Francesco de Prata pintore”, data che si pone come termine ante quem della morte dell’artista stesso.
Questi i pochi dati di cui disponiamo, imprescindibili per ricostruire la sua storia, ai quali fa riscontro una ancora troppo esigua produzione pittorica
La prima opera che gli è comunemente attribuita è la Madonna con il Bambino e i santi Giovanni Battista, Girolamo, un santo vescovo e san Giuseppe (Torino, Galleria Sabauda, inv. 159 bis). Se la corretta assegnazione al caravaggino di cinque teste conservate nella Pinacoteca Ponzone di Cremona (inv. 41a-e) ha fatto a taluni supporre un suo apprendistato in area cremonese, all’ombra del grande cantiere di affreschi nel Duomo del secondo decennio (Gian Francesco Bembo, Boccaccio Boccaccino, Altobello Melone, Romanino, Pordenone), il dipinto torinese mostrerebbe altresì elementi bramantiniani e leonardeschi che ancorerebbero il pittore ad una prima formazione caravaggina, non priva di frequentazioni milanesi. Per altri versi una stretta frequentazione di Romanino è certificata dalla presenza di opere condotte su cartoni del maestro, tra le più importanti una Adorazione dei pastori a Bedulita (chiesa di San Michele, Bergamo) e una Salomè, di collezione privata. La prima, derivata dal cartone della Natività eseguita da Romanino per la chiesa di Sant’Alessandro a Brescia (ora a Londra, National Gallery) e individuata con la corretta attribuzione al caravaggino da Moro (1988), presenta i caratteri tipici ancora tardoquattrocenteschi del Prata, come “i panneggi a fitte pieghe parallele, le lumeggiature giallo dorate sui capelli e le inequivocabili fisionomie attonite dei personaggi”, all’interno di una composizione statica “che non acquista mai vigore e slancio personale” (Moro). Dell’opera esiste peraltro un altro esemplare leggermente variato nella chiesa di Roncadelle (Brescia), sempre di mano del Prata, dove è presente una medesima rigidità compositiva, in cui si possono evidenziare alcuni tic stilistici che identificano il modo di procedere dell’artista: le pieghe innaturali dei panni, le braccia sempre troppo corte e non proporzionali all’anatomia del corpo, i volti talvolta mollemente dolci, talvolta grifagni, sulla memoria dei ritratti “beffardi, estatici, trepidanti, ghignanti” (Pinelli) assimilati nel probabile soggiorno cremonese.
Quanto alla Salomè di collezione privata milanese e firmata “FRANCISCI CARAVAGIESIS OPUS” (Tanzi, 1987, dietro indicazione di Mauro Natale), copia del noto dipinto berlinese del Romanino, è interessante rivelare la lettura dell’originale compiuta dal Prata. Ancora una volta il pittore travisa l’equilibrio compositivo del modello e dà fondo alle sue caratteristiche nordicizzanti, nell’accuratezza ottica dei particolari, nei volti mollemente lussuriosi, rivelando la predilezione per un’illustrazione isolata delle figure e una “incapacità di costruire scene articolate e complesse” (Tanzi). Queste opere provano indubbiamente che Francesco Prata aveva libero accesso alla bottega del Romanino, con la facoltà di utilizzarne liberamente i cartoni. Peraltro, l’organizzazione della bottega cinquecentesca e dell’alunnato presso personalità artistiche di maggiore rilievo è una questione ancora in attesa di essere adeguatamente studiata. Così anche per il Romanino non vi sono a tutt’oggi dati probanti, tranne il fatto che con il pittore lavorava il fratello Giovan Giacomo ed avevano nell’avvio dell’attività un garzone alle loro dipendenze (cfr. S. Buganza, M. C. Passoni, in Romanino, 2006, p. 399).
L’attività dell’artista in patria, dedicata soprattutto all’esecuzione degli affreschi per la cappella del Santissimo Sacramento, e già avviata alla data del 1521, non trascura spostamenti nel territorio bresciano, dove non sono poche le opere ad affresco recentemente ricondotte al pittore (ferme le date delle tavole con lo Sposalizio della Vergine in San Francesco, circa 1518, e la pala del Martirio di sant’Agata nella chiesa omonima, pagata nel 1522). Oltre alle più antiche due Pietà di Manerbio e di Isorella, si sono aggiunte la Vergine tra due santi, Bedizzole, ora New York; l’Adorazione del Bambino, Onzato; l’Annunciazione e Angeli della Passione, Bienno; la Deposizione, la Crocefissione ed il Sant’Antonio Abate, Timoline. In patria gli è stato riferito ab antiquo il Compianto sul Cristo morto della chiesa dei Santi Fermo e Rustico di Caravaggio, dove tuttavia l’articolata costruzione della scena e la sapiente disposizione dei personaggi lungo la diagonale del sepolcro rivelerebbero una capacità compositiva finora inedita nel pittore e per certi dettagli dei volti assimilabile alla Sacra Famiglia di collezione Lechi, già riferita al Romanino (Lechi, 1968). Per tentare un ampliamento dello scarno catalogo, potrebbero forse spettare a Francesco Prata anche le predelle del polittico della chiesa di Sant’Agata, raffiguranti la Natività della Vergine, la Visitazione, la Presentazione al Tempio e Gesù fra i Dottori, opere molto corsive e considerate della scuola del Romanino (Morassi, 1939). Allo stesso modo, è forse da ricondurre al maestro anche la pala con Madonna in trono tra i santi Antonio Abate e Sebastiano (Francoforte, Staedelches Institut), che, seppure vista solo da una riproduzione (Guazzoni, 1989, con riferimento a Paolo il Giovane), presenta alcune delle caratteristiche più tipiche del caravaggino.