DAL NOSTRO INVIATO
di Lucrezia Calabrò Visconti
Ad Artists Space inaugura la prima personale in una istituzione statunitense di Sam Pulitzer (1984, New Hampshire): A Colony for “them” è un articolato progetto commissionato e prodotto da Artists Space, nel quale si intrecciano un’ampia installazione architettonica, una collaborazione letteraria, e lavori grafici commissionati dallo stesso Pulitzer ad altri artisti.
I 600 metri quadri del terzo piano al 38 Greene St. sono interamente occupati da una schizofrenica composizione di pareti, ottenuta tramite la sovrapposizione della pianta architettonica di Artists Space in diversi momenti della sua storia: lo spettatore si trova risucchiato in un labirintico susseguirsi di stanze accavallate le une sulle altre, costretto a muoversi in continuazione per riuscire a fruire la mostra. Il percorso tra una stanza e l’altra è costellato da una serie di testi prodotti da Pulitzer e Jeff Nagy, una narrazione frammentaria, ibrido tra il romanzo di fantascienza e le chat da online gaming. Tale narrazione è il filo d’Arianna della mostra, e tradisce come l’apparente accumulo casuale di pareti sia frutto di una precisa strategia visiva: lo spettatore si trova a seguire una sceneggiatura, la sua posizione nello spazio è strettamente connessa al testo che sta leggendo e alle distopie che suggerisce.
Al disorientamento spaziale si aggiunge la sovrapposizione continua di periodi storici differenti, di cui sono testimoni i muri di Frozen Lakes e le strutture metalliche di Bernadette Corporation. A Colony for “them”digerisce e rigurgita caoticamente la storia strutturale dello spazio, e con essa l’eredità della critica istituzionale a cui è legato: lo stesso Michael Asher aveva, nel 1988, distrutto i muri pre-fabbricati di Artists Space per prolungarne la struttura fino al soffitto, e l’architettura dello spazio è recentemente tornata sotto ai riflettori quando nel 2009 Stefan Kalmár, appena annunciato nuovo direttore di Artists Space, ha deciso di abbattere i muri che dividevano gli uffici dello staff dallo spazio espositivo, creando un precedente che si riflette tutt’oggi nella missione dell’organizzazione.
L’eredità storica di Artists Space si materializza in continui déjà vu, figure familiari si susseguono agli scenari onirici commissionati agli artisti esposti, senza soluzione di continuità. Assieme ai testi di Nagy, le pareti ospitano infatti una serie di lavori grafici commissionati da Pulitzer ad artisti provenienti da sub-culture musicali, visive e del mondo dei videogiochi. Il rapporto tra le immagini e i testi è simile a quello che si percepisce tra la storia e le illustrazioni durante lettura di un romanzo: sia i lavori, che il resto degli oggetti selezionati ed esposti da Pulitzer, fanno in effetti pensare alla mostra come alla risposta di un folle alla domanda “cosa succederebbe se prendessi l’esperienza della lettura di un libro e la spalmassi su uno spazio reale, secondo il linguaggio dell’arte contemporanea?” Lo spettatore diventa un accidentale giocatore, che prende parte alla costruzione collettiva di un universo simbolico quadridimensionale, nel cui alfabeto c’è posto tanto per biglietti di auguri acquistati online e gigantografati, quanto per anticaglie comprate ai mercatini delle pulci.
Il viaggio nel martix surrealistico di Sam Pulitzer culmina in quella che penso essere una delle chiavi di volta della mostra, la ricostruzione dello scenario di un romanzo allegorico di Rene Daumal, La Grande Beuverie. La storia è quella di un narratore senza nome, che passa una serata a ubriacarsi con un gruppo di amici. L’ebrezza lo porta ad intraprendere un viaggio che va dall’euforia paradisiaca alle visioni infernali di un mondo sottosopra, mentre con la compagnia va in cerca del significato dell’esistenza tramite giochi mentali e farse. Mi piace pensare che Sam Pulitzer sia il narratore senza nome, e che l’offuscata colonia che ha costruito, e in cui ci conduce, sia una zona franca per esiliati, una temporanea area grigia tra il mondo reale, la scena dell’arte contemporanea e la letteratura di fantascienza, in cui è possibile forse trovare il senso dell’esistenza, ma nella quale chi non ha mai giocato in modalità Arcade è perduto.
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