Stile arte intervista Julian Schnabel:
Julian Schnabel è nato a Brooklin (1951) da famiglia ebrea. E’ uno dei pittori più noti della scena newyorkese. Realizza le tele di ampie dimensioni, spesso eseguite con tecniche miste, i ritratti e opere di design.
Abita in una grande casa-studio da lui stesso progettata secondo la propria personale concezione di arte, nota come Palazzo Chupì, sull’11esima Strada nel West Village. In Italia è forse più noto come regista cinematografico. Ha scritto e diretto Basquiat, un film biografico sul pittore Jean-Michel Basquiat (1996), e Prima che sia notte, un adattamento dell’omonimo romanzo autobiografico diReinaldo Arenas (2000), che inoltre l’ha prodotto. Prima che sia notte ottenne una candidatura dal Premio Oscar, con la nomination diJavier Bardem all’Oscar al miglior attore.
Nel 2007 ha diretto Lo scafandro e la farfalla (The Diving Bell and the Butterfly), un adattamento del libro di Jean-Dominique Bauby. Con questo film ha vinto il premio per miglior regista al Festival di Cannes. La sua regia per Lo scafandro e la farfalla gli ha consentito di vincere come miglior regista dell’anno nella sesta edizione degli Italian Online Movie Awards. Alla 64esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha fatto parte della giuria del premio fotografico Venice Movie Stars Photography Award. Sempre a Venezia, tre anni dopo, ha presentato in concorso il film Miral e nel 2018 “At Eternity’s Gate’, dedicato a Van Gogh.
L’intervista di Stile a Schnabel
Il suo lavoro scaturisce dal dissidio tra astratto e figurativo: come si perviene all’armonia?
Mi nutro di dissidi e contraddizioni. E’ dalla tensione dicotomica tra opposti che nasce l’equilibrio. Quando creo, mi abbandono all’intuito, mi lascio trascinare dalla forza di ciò che non posso comprendere. E’ una sottomissione, volontaria e prolifica, a forze invincibili e imperscrutabili. Allo stesso tempo, rincorro con esasperazione la novità e raccolgo, in modo inesausto, oggetti e materiali. Non posso rinunciare alla figurazione. Né all’astrazione. Se aderissi a un unico linguaggio mi sentirei imprigionato in una dimensione asfittica e stagnante.
Carte nautiche, cocci rotti, lembi di tessuti e mappe ingiallite. Per costruire un’opera assembla elementi già esistenti. Perché non crea ex nihilo?
Nulla nasce ex nihilo. Traggo ispirazioni da immagini o materiali spesso datati, usati se non logori. Perché trasmettono energie misteriose, ammalianti, che stimolano le mie facoltà ricettive. Non si può concepire qualcosa senza partire da un dato già acquisito.
Con la tela intrattiene un rapporto fisico, addirittura ferino. Pare avverte l’urgenza di aggredirla, manipolandola con le mani o con stracci imbevuti.
Non potrei fare altrimenti. Ho sempre avvertito l’esigenza di annientare l’esistente, in modo tale da poterlo travalicare. Rispetto la tradizione. L’ho studiata e assimilata. Costituisce la linfa del mio lavoro. Tuttavia, sono consapevole della necessità di superarla. Diversamente, non potrei evolvere. Distruggo degli oggetti, ne estrapolo frammenti, li combino tra loro e creo nuove possibilità. E’ un nichilismo rigenerante. Senza una decostruzione della materia non potrebbe essere innescato alcun sovvertimento di norme desuete e anacronistiche. Non ci sarebbe libertà.
Il suo linguaggio non può prescindere dal riferimento storico. Caravaggio, Giotto, Tintoretto e Mantegna sono gli artisti a cui sostiene di ispirarsi. Tuttavia, le sue opere sono ancorate al presente. Cos’è il tempo?
Un respiro. Non mi curo del passato, tantomeno del futuro. L’arte è qui e ora. La fruizione di un’opera ci trattiene nella labile dimensione del contingente. Assaporiamo l’istante, la transitorietà del momento in cui vengono prese decisioni irrisolubili.
La macchia bianca è uno dei suoi segni più frequenti: a cosa allude?
Il segno bianco trascina il fruitore nel presente del dipinto. Lo immerge nella dimensione creativa. Se scrutate con attenzione, le tracce candide che lambiscono il ciclo degli Atlas Mountains, lasciano intravedere delle mappe. Mappe immaginifiche, che conducono in un luogo e in un tempo sospesi, squisitamente intimi. Al tempo stesso, rievocano i monti dell’ Atlante che ho attraversato in macchina, insieme ai miei figli. Di quel viaggio, compiuto anni fa, rammento i tendoni di plastica arsi dal sole, i colori del crepuscolo, la polvere sulla strada.
E la regia? Lo scafandro e la farfalla è stato insignito del premio per la miglior regia al Festival di Cannes. Il cinema è un linguaggio più immediato rispetto alla pittura?
Affatto. I miei film sono densi di significati sottesi, reconditi, difficili da intuire. Implicano una visione attenta, ponderata. E una rielaborazione faticosa. Non si rivolgono alla massa. La tela, invece, è più immediata e accessibile. In ogni caso, preferisco il pennello alla macchina da presa. La pittura è un’arte spontanea, sincera, non inibita dai meccanismi consumistici che inficiano il sistema cinematografico.
I suoi autoritratti non si contano.
E’ vero. Non lo faccio per narcisismo. Semplicemente, sono il soggetto che conosco meglio. E non devo supplicare qualcuno di posare pazientemente per ore davanti al cavalletto.
Lavora sempre su formati immensi. Perché?
Si alzi. Si avvicini alla tela (appartiene al ciclo degli Atlas Mountains, ndr). Ancora più vicina. Cosa avverte?
Mi sento soggiogata.
Ecco perchè lavoro solo su formati immensi.