di Paola Castellini
[A]ltobello da Melon cremonese, giovine de buon instinto e indole in la pittura; discepolo de Armanin”. Così Marcantonio Michiel nei primi decenni del Cinquecento, riferendosi a Romanino (Armanin) quale maestro di Altobello. “Uno dei più giovani audaci che contasse nei primi decenni del Cinquecento la pittura dell’Italia settentrionale” scrive Longhi nel 1917; e Mina Gregori nel 1955: “indicibile collimazione, osmosi insidiosa fra i due artisti”, a ribadire con Longhi che il dare non fu soltanto da una parte e l’avere dall’altra.
Infatti, proprio qui sta il punto: due pittori, due formazioni diverse, due percorsi paralleli e talvolta tangenti.
La pittura di Altobello, nato a Cremona all’incirca nel 1490, si caratterizza da subito per uno spiccato accento giorgionesco, che è il portato più significativo del viaggio che sicuramente fece a Venezia, dove attraverso Dürer rinforzò una cultura nordica già acquisita in patria. Romanino, più anziano di qualche anno, gravitava anch’egli in laguna assai precocemente, ma la sua inclinazione fu da subito tizianesca.
Percorsi paralleli e talvolta tangenti, si diceva. Come nel caso in cui fu chiamato proprio il Romanino a collaudare il primo ciclo di affreschi dell’Altobello nel Duomo di Cremona (1517). E come nel caso di cui qui si vuole parlare, di Altobello a Brescia. Con e senza Romanino.
Due i punti nodali dell’attività artistica di quest’ultimo, su cui si suggeriscono nuove ipotesi e che vedono la compresenza di Altobello: la decorazione di Palazzo Orsini a Ghedi e l’allogazione del polittico per l’altar maggiore della chiesa del Santo Corpo di Cristo a Brescia.
Palazzo Orsini di Ghedi. Il conte Nicolò Orsini di Pitigliano, feudatario nella quadra bresciana di Ghedi dopo il 1498, decide nel 1509 di far decorare da Romanino il suo palazzo. Quale fosse l’impianto della decorazione è ricavabile da un memoriale del Capitano di Brescia Pietro Contarini del 1623, che ne descrive l’ubicazione nella loggia e il soggetto, le condotte militari del conte. I tre grandi affreschi furono levati da Giovan Battista Speri nel 1843 e ora conservati a Budapest (Szépmüvészeti Múzeum), mentre nella Pinacoteca Tosio di Brescia sono due teste raffiguranti Nicolò e Napoleone Orsini e a Lonato, nella Fondazione Ugo da Como, altri due pannelli, ciascuno con due figure di uomini di Casa Orsina.
L’ubicazione e la paternità di queste figure “erratiche” ancora non sono chiare. Tuttavia, secondo un foglio incollato sul retro di una delle tele Tosio di mano di Tito Speri, le “teste” e le “figure” erano in un salone, viceversa il ciclo decorativo ornava la loggia sotto il portico. Fin qui, tutto chiaro. Ma chi fu l’autore delle teste e delle figure Tosio/Ugo da Como? Se riguardo alle prime già il Nova (Romanino, 1994) spese il riferimento, assai condivisibile, a “Romanino e restauratore”, forti dubbi gravano ancora sulle figure di Lonato, dallo stesso studioso attribuite ad un improbabile Floriano Ferramola (già Nicodemi, 1925).
Certo, il materiale è assai danneggiato. Tuttavia mi sentirei di dire che un pannello possa spettare a Romanino e l’altro, quello incoerentemente assemblato con le figure di Valerio e Virginio Orsini, ad Altobello. Se nel primo pannello le figure sono affini al repertorio di Romanino (una assai bella, placida e solenne effigie frontale, naso affilato e narici dilatate, accanto ad un più giovane armigero, colto nella dinamica inquietudine del volgere repentinamente la testa all’indietro), nel secondo, una ben diversa impronta rivelano le figure dei due Orsini: fortemente ritrattistiche, come bloccate in una implosione di energia, chiuse, aspre e scontrose.
Valerio Orsini non è tanto lontano dal San Pietro del trittico Fenaroli, nel lungo naso che quasi si congiunge alla bocca, contratta e schiacciata nella folta e corta barba. Analogamente la grande testa “impallata” di Virginio, si potrebbe accostare al Ritratto di gentiluomo di ubicazione ignota, per il quale la Gregori commentava che “mai il Romanino avrebbe consentito all’eccentrico innesto su di un busto appiattito… di questa testa dal modellato così grasso e appaltato”. E ancora, se i primi due Orsini dialogano, oltreché con lo sguardo interlocutorio, anche con le mani e l’ampia gestualità delle braccia, gli Orsini del secondo pannello non sanno cosa farsene di mani e braccia, appendici che non si sanno collocare e cui viene trovata una soluzione di appoggio, braccia sempre troppo corte e mani non articolate.
In conclusione, sulla base di tale ipotesi attributiva, e quindi di una possibile presenza di Altobello a Ghedi già nel 1509, non sarebbe da escludere una sua partecipazione alla decorazione dei grandi affreschi della loggia.
Polittico per l’altare maggiore della chiesa del Corpus Domini a Brescia. E fu il 1511 l’anno in cui a Romanino fu allogata l’esecuzione del polittico a sei vani, il cui contenuto era descritto in una “relatione” non ancora ritrovata. Assai delicata la questione critica di tale polittico, che non corrisponde in alcuna maniera alla descrizione fattane nel Settecento dal Paglia (Giardino della Pittura, Boselli, 1965). La questione non pare ancora risolta.
Oggi il polittico si vuole composto nel registro inferiore dalle tavole con i Santi Pietro e Paolo del Museo di Kassel, sovrastate da altre due recanti i Santi Giovanni Battista e Agostino e i Santi Bartolomeo e Girolamo, già nella collezione Cunietti. L’unica cosa che lega le due serie, secondo la proposta di Maria Luisa Ferrari del 1961, è la pari dimensione in larghezza e l’analoga essenza di pioppo; molto maggiori le discrepanze.
In primis, già rilevava la stessa studiosa, la presenza di due coppie di santi sovrastanti le tavole a figura intera darebbe luogo ad uno sgraziato disequilibrio nella composizione e costituirebbe una tipologia pressoché sconosciuta in territorio lombardo-veneto. In secondo luogo, aggiungerei, i santi Cunietti non paiono prettamente romaniniani, bensì piuttosto riferibili ad Altobello, o quantomeno ad un Romanino che molto risente dell’influenza altobellesca. Già il Longhi: “Infine non è affatto impossibile che Romanino abbia potuto apprendere parecchio dal metodo rapido e violento di Altobello Melone”.
In particolare, il san Giovanni Battista e i santi Bartolomeo e Girolamo rivelano quella plastica solidità così tipica in Altobello, chiusi come blocchi di pietra da manti di ascendenza bramantiniana. E i volti sono ancora una volta corruschi, respingenti, quasi “rupestri”; il manto marezzato di san Giovanni Battista presenta una liquidità grafica nelle pieghe che prevale sull’impasto cromatico. Tuttavia, fosse anche solo per la figura di sant’Agostino, c’è qualcosa nello scatto del suo principiare ad incedere che può essere solo romaniniano, così come il dialogo muto, ma interlocutorio, tra gli sguardi delle due coppie di santi.
Potremmo dire allora che in queste due tavole, se non di Altobello si può parlare, si deve rilevare un momento di forte assorbimento da parte del bresciano dei modi “ponentini” e anticlassici del pittore cremonese. Modi che diverranno patrimonio acquisito dal Romanino a partire dai suoi affreschi nel Duomo di Cremona (1519).
La contropartita del bresciano ad Altobello, in questo delicato equilibrio del “dare” e dell’“avere” tra i due artisti, sarà il colorismo tizianesco.