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di Alessandra Zanchi
Collocata stabilmente in Palazzo Thiene a Vicenza, la collezione di sculture di Arturo Martini della Banca Popolare vicentina è stata più volte esposta in sedi museali diverse per consentire al pubblico di ammirare capolavori straordinari del grande maestro. Riproponiamo un’intervista di Stile arte con un noto studioso di Martini, Nico Stringa. Professore, quando ha iniziato a studiare l’opera di Arturo Martini? Ho cominciato a studiare il giovane Martini intorno al 1986 a Treviso. I giornali della sua epoca sono stati documenti preziosi per scoprire molti inediti, giacché nelle recensioni delle mostre venivano riportate anche le vendite dei pezzi e i nomi degli acquirenti. Attraverso il contatto con i loro eredi e il confronto con i cataloghi è stato così possibile recuperare le sculture di quegli anni, inserite poi nella mostra del 1989 a Treviso (realizzata con Eugenio Manzato). Nella mostra del 1990 a Venezia confluirono invece i miei studi sull’ultimo Martini, attivo nella città lagunare nel ’43, prima di diventare direttore dell’Accademia; studi coadiuvati dall’amicizia con Guido Perocco, già direttore di Ca’ Pesaro e autore del primo catalogo delle sculture di Martini, che mi lasciò molto materiale documentario. Ci può illustrare, in estrema sintesi, la problematica centrale della poetica martiniana enunciata nei “Colloqui sulla scultura” con Gino Scarpa e poi nel celebre scritto “La scultura lingua morta” del 1945? Martini era “uomo senza lettere”, non erudito ma amico di molti pittori, intellettuali e uomini di cultura, da Gino Rossi a Comisso a Barbantini… Pertanto egli fu stimolato a formulare una riflessione teorica sulla sua attività sin dall’inizio. Già nel 1913 egli scrisse un intervento sul giornaletto, purtroppo disperso, “Il Contrario” (di cui ho trovato una citazione in un altro giornale), e poco più tardi, nel 1921, stimolato da Carrà e da Margherita Sarfatti, formulò la sua teoria del “grembo plastico” in una conferenza a Milano, in concomitanza con la sua personale agli Ipogei. Per Martini occorreva ridare valore alla figurazione nella scultura moderna, ma anche percorrere la strada della semplificazione ricercando l’essenzialità prossima al “sasso”, tipica dell’arte dei primitivi. D’altra parte, quando l’artista passò dalle prime opere espressioniste, lavorate sostanzialmente in superficie, a quelle degli anni Venti, plasmate in tuttotondo, fu subito evidente la problematica del vuoto e del pieno volumetrici quali valori formali e contemporaneamente sostanziali della scultura. La “Testa di ragazzo” del ’20 ne è il primo esempio significativo; la “Donna che nuota sott’acqua” in marmo del ’41-’42 ne è la sintesi estrema. La riflessione teorica accompagnò comunque tutte le stagioni della carriera martiniana, con alti e bassi, tra crisi ed entusiasmanti momenti di felice lirismo poetico, che pure contraddistingue i suoi capolavori. Queste contraddizioni emergono molto bene dai “Colloqui” più che dall’ultimo testo “La scultura lingua morta”, che non si può ben comprendere senza quei discorsi spontanei e rivelatori di un pensiero complesso quanto geniale. Certamente dopo Martini la ricerca scultorea ha imboccato nuove strade.
Quali sono stati gli insegnamenti teorici e pratici più importanti per le generazioni successive? E quali invece i punti di riferimento nel passato per lo stesso Martini? Marino Marini e Mirko, allievi di Martini all’Istituto Statale di Industrie artistiche di Monza negli anni Trenta, hanno senz’altro ereditato la sua lezione tecnica e teorica, e così pure i suoi seguaci Mario De Luigi, Lorenzo Viani e naturalmente Fontana, che fu il più veloce a cogliere le novità del maestro. Basti pensare al “Concetto spaziale” di Fontana del ’48, che è un’evidente richiamo all’“Atmosfera di una testa” martiniana del ’44. Tra i modelli di riferimento, fondamentale fu il confronto con Picasso, ma senza dubbio la teoria del “grembo plastico” non può che rimandare a Medardo Rosso (per quanto l’atteggiamento di Martini nei suoi confronti sia a volte critico), di cui a Ca’ Pesaro era ed è conservata la “Madame X”, unica opera mai replicata, la cui testa ovale rende veramente l’idea dell’essenzialità del sasso. Ci parli della collezione della Banca Popolare. Come è nata e come si è arricchita nel tempo? Quali sono le opere più significative anche dal punto di vista dei materiali? La collezione ha origine nel 1969, quando la Banca acquista dagli eredi di Giovanni Comisso il “San Bovo”, terracotta del 1932 che lo scrittore trevigiano aveva espressamente richiesto all’amico Martini. Ma è solo negli anni Novanta che la raccolta si arricchisce e completa con pezzi molto importanti come la terracotta “Lo zio” (1926-27), il bozzetto per il “Monumento per i pionieri d’America” (1925-26), i gessi originali del “Gruppo di Blevio” realizzati sul lago di Como nel 1935, la di poco successiva “Morte di Saffo” e il “Pegaso caduto”. Uno dei pezzi più originali, quest’ultimo, della scultura italiana del Novecento; bozzetto del 1943 destinato a diventare monumento all’aviatore Arturo Ferrarin a Thiene, le cui vicissitudini fino alla mancata esecuzione sono ampiamente documentate.
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