La pittura secondo Luchino Visconti

La “pittoricità” di Visconti non si trova solo nel contesto stilistico dei film, ma anche, come elemento critico, nelle citazioni dirette di quadri famosi. In Rocco e i suoi fratelli (1960) sorprende una serie di riproduzioni di pitture del Rinascimento, non motivate dalla trama, passate sullo schermo di un televisore per “accusare la differenza tra la realtà dell’arte e la degradazione della vita”



CINEMA & ARTE
LA PITTURA SECONDO LUCHINO
Nei giovanili anni parigini,
Visconti frequenta
Picasso, Braque,
Salvador Dalí.
Tutta la successiva
carriera di regista
sarà segnata dal legame
evidente e profondo
con le arti figurative
di Stefano Roffi
Grazzano Visconti è un borgo neo-medievale costruito nel Piacentino all’inizio del Novecento intorno all’antico, diruto castello per volontà di Giuseppe Visconti, coi consigli di Gabriele d’Annunzio. Giuseppe Visconti interviene nei progetti, affresca facciate e crea un magnifico parco, ricco di statue e fontane. Appassionato di letteratura e melodramma, si occupa del teatro alla Scala, tradizionalmente finanziato dall’aristocrazia milanese, prende in gestione il teatro Manzoni e crea una propria compagnia. Luchino, uno dei sette figli, vive a lungo a Grazzano e ne segue lo sviluppo, tecnico e artistico, condotto in verosimiglianza con l’antico, affascinato dalla possibilità di riaccendere con una sorta di realismo romantico non la storia ma l’anima stessa del passato.
Il legame tra il futuro regista e l’arte figurativa si intensifica a Parigi, dove egli frequenta i circoli artistici e conosce Braque, Dalí, Picasso, Jean Renoir. Grazie a quest’ultimo s’appassiona ancor più alla pittura dell’Ottocento, in particolare all’Impressionismo (osservando da vicino i quadri del padre di Renoir, Pierre-Auguste) e ai macchiaioli. Nel corso della sua attività, il primo richiamo alla pittura lo s’incontra a teatro, dove Luchino lavora come scenografo per la compagnia del Teatro d’Arte di Milano. Successivamente, il cinema per lui non sarà finzione ma nuovo innesto dello spirito di un’epoca, frutto delle suggestioni pittoriche e teatrali coltivate da giovane.
I film di Visconti, uniscono letteratura, musica e pittura; in particolare la pittura è utilizzata in funzione narrativa sin da Ossessione (1943), in cui è possibile ravvisare un sottile e diffuso rimando al Seicento italiano (in particolare Caravaggio); Guttuso trapela invece nella scena della cucina, sommersa di piatti e bottiglie, richiamo non casuale, vista la vicinanza ideologica tra il pittore e il regista e la negazione condivisa dell’idea di un’arte celebrativa e asservita. Per il suo secondo lavoro, La terra trema (1948), la fonte figurativa è invece Courbet, coi suoi paesaggi, e ancora il Seicento con Recco, Ruoppolo, Ribera.
La “pittoricità” di Visconti non si trova solo nel contesto stilistico dei film, ma anche, come elemento critico, nelle citazioni dirette di quadri famosi. In Rocco e i suoi fratelli (1960) sorprende una serie di riproduzioni di pitture del Rinascimento, non motivate dalla trama, passate sullo schermo di un televisore per “accusare la differenza tra la realtà dell’arte e la degradazione della vita”.


Alla fine degli anni Quaranta, contemporaneamente al neorealismo, si afferma un filone di ispirazione ottocentesca; Senso (1954), primo film a colori di Visconti, quasi un catalogo animato della pittura dell’Ottocento italiano, si pone al vertice delle esperienze cinematografiche di ambientazione risorgimentale. Il regista, sullo sfondo di una Venezia alla vigilia della battaglia di Custoza, ritrae, con sofisticata libertà, l’intreccio fra la Terza guerra d’indipendenza e una emozionante vicenda amorosa; avvalendosi delle citazioni figurative come pilastri strutturali preesistenti – dai dagherrotipi alla pittura di Lega, D’Ancona, Fattori, Signorini, Hayez, oltre a Durand, Feuerbach, Stevens – e di quelle musicali di Verdi e Bruckner, costruisce un tipo di linguaggio dove gli elementi figurativi diventano intrinseci all’azione e all’emozione.
Il canto dello stornello e La visita di Lega costituiscono la fonte per fogge e colori dei costumi dei personaggi femminili nei momenti quotidiani, mentre da Stevens deriva il costume con cui Alida Valli affronta la drammatica sequenza finale; Hayez stesso pare quasi riproporre la propria tela Il bacio, con Livia e il tenente Franz nella scena della fatidica notte della villa di Aldeno. La lettera di Signorini è lo schema scenografico per l’appartamento di Franz, mentre quello dei soldati austriaci dove ha inizio la storia d’amore dei protagonisti è preso da La toilette del mattino sempre di Signorini; qui l’atteggiamento “divistico” di Franz è espresso in una posa simile a quella di Paolina Borghese come Venere vincitrice di Canova.
Il Fattori dei quadri di accampamento emerge nell’idealismo vivace dei giovani militari, mentre, per la lunga sequenza della battaglia di Custoza, Visconti si rifà alla potenza evocatrice e antiretorica delle battaglie sempre di Fattori, con tratti sintetici che rendono il massimo della concitazione, estrapolandone scorci significativi per comporre un unicum. In particolare, Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta è ripreso per l’umanità che esprime, coi feriti portati nelle retrovie per essere assistiti, in una cruda rappresentazione fatta di morte e sofferenza, che descrive una sconfitta indipendentemente dal verdetto del campo.
Anche per Il Gattopardo (1963) i riferimenti alla pittura dei macchiaioli sono rilevanti: da L’elemosina e La passeggiata in giardino di Lega a Signora in giardino di D’Ancona per quanto riguarda i costumi e gli atteggiamenti femminili nelle sequenze di Villa Salina e di Donnafugata; da Pescivendole a Lerici di Signorini a La filatrice di Cabianca per il clima figurativo della sequenza dei “bassi” di Palermo; mentre La battaglia di Capua di Fattori suggerisce l’impostazione centrale della sequenza della presa di Palermo da parte dei garibaldini.
La battaglia tra i garibaldini e i borbonici nelle strade di Palermo cita Garibaldi a Palermo di Fattori, dove le rovine provocate dagli scontri sottolineano che la guerra non è mai positiva; nella medesima scena c’è un richiamo de La Libertà che guida il popolo di Delacroix nel gesto del garibaldino che sventola il tricolore. Per i quartieri popolari il richiamo va alla pittura meridionale verista (Banti, Signorini), dove l’uso del colore e della luce, nonostante il degrado, non cade mai nella forzatura; dominanti sono l’ocra e le varianti del marrone, con ombre perentorie, quasi delle cesure.
Nella scena della colazione agreste della famiglia Salina c’è un rimando al Manet della Colazione sull’erba, mentre quella con padre Pirrone all’osteria richiama I mangiatori di patate di Van Gogh. Una evidente “sovrapposizione” di immagini è quella tra il principe Salina con giacca nera, sciarpa bianca e cappello a cilindro, e il Ritratto di Giuseppe Verdi di Boldini, a iconizzare l’amore di Visconti per l’opera del musicista.
Altre citazioni di ritratti sono usate non come sovrimpressioni, ma come semplice fonte d’ispirazione; è il caso del dipinto di Winterhalter L’imperatrice Eugenia e le sue damigelle, dal quale Visconti trae il senso di coralità per la scena del ballo a Ponteleone. Il tema della morte, di un’epoca e di una società, viene affrontato con la contemplazione da parte del principe de La morte del giusto di Greuze nella biblioteca, luogo deputato a conservare e a trasmettere la memoria collettiva ma anche teca protettiva per un passato asfittico.
Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, Visconti lavora a La caduta degli dei, Morte a Venezia e Ludwig, film che hanno in comune la volontà di mettere in scena gli aspetti più inquietanti della cultura e dell’animo tedeschi. Thomas Mann è il riferimento letterario, l’autore che riesce a esprimere il dissidio tra desiderio di rispettabilità, tipicamente borghese, e voglia di cedere all’esperienza estetica, anche non rispettabile; la spietatezza pittorica espressionista risulta idonea a raccontare le inquietudini e le ambiguità della corrotta società borghese tedesca del primo Novecento, causa, secondo il regista, dell’ascesa del nazismo.
Particolarmente ne La caduta degli dei (1969) è ossessiva la tendenza al grottesco e alla deformazione dei corpi che, al di là di citazioni precise, richiama tele di Beckmann, Dix, Grosz (le scene della Notte dei lunghi coltelli evocano La notte di Beckmann). L’uso del rosso e del nero, simboli di tragedia e morte, annuncia la scena finale del matrimonio e della morte di Friedrich e di Sophie, trasformati in maschere di Ensor (Les Masques singuliers). In effetti, solo l’Espressionismo volge alla società di quegli anni un sincero sguardo dissacrante e deformante, comprendendo la costitutiva ambiguità dell’uomo.


Tali riferimenti pittorici sono presenti anche nei due film successivi: in Morte a Venezia (1971) uniti a pastellosità luministiche impressioniste e in Ludwig (1972) fusi con accenti febbrili da El Greco per narrare la follia del re. L’accesa dominante cromatica, la congerie di corpi che da immagini dell’eros si disfano in visioni di morte, sono elementi che Visconti mutua, con un certo compiacimento voyeurista, direttamente dall’Espressionismo, astenendosi tuttavia da finalità morali, a favore di un abbandono al perverso che trasferisce allo spettatore un senso d’angoscia decadente; come feticcio decadente è, in Morte a Venezia, Tadzio, essere di androgina bellezza, incarnazione del David di Verrocchio: in una scena tra le calli, Tadzio assume proprio la posizione del David, con una mano sul fianco.
In Gruppo di famiglia in un interno (1974), il rapporto del professore protagonista coi suoi dipinti di conversation pieces, tematizzato nel titolo, costituisce anche il principio organizzatore dello spazio visivo, impostato sulla contrapposizione tra le spazialità silenti dei quadri e l’irruzione chiassosa d’un gruppo di inquilini volgari. La sospensione nell’immobilità di gruppi familiari era già stata usata da Visconti ne Il Gattopardo, dove i cerimoniali dei Salina – il rosario, la lettura, il pranzo – vengono descritti come sontuose nature morte.
In varie sequenze del film del 1974, il professore, illuso di poter sfuggire alla volgarità del tempo moderno rinchiudendosi in casa, spazio contemplativo e sacro dove dialogare con l’arte, in un rimando continuo di sguardi veri e immaginati, è presentato come un personaggio uscito dai suoi stessi quadri. L’arredamento diventa espressione delle differenti concezioni di vita: l’abitazione del protagonista, dove il tempo sembra sospeso, è ricca di oggetti antichi, mentre quella degli “invasori” è arredata con dipinti astratti. Una citazione diretta di un quadro appare anche nelle ultime scene: col professore prossimo alla fine, appesa dietro il letto si vede una rigorosa Natura morta di Morandi, opera che trasmette una sicurezza ed un controllo disperatamente ricercati.
Il distacco tra la vita sognata e la vita reale è una costante dei film di Visconti, e spesso si sublima con la morte; solo l’Arte è atemporale e immortale, e può sempre essere attualizzata, indipendentemente dal periodo storico in cui è creata. Per il regista, è l’unica via per unire passato e presente.
 
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STILE ARTE 2010

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