[L]amberto Melina. Nato in Piemonte, risiede ora nel bresciano dopo molti anni vissuti a Milano, ma i suoi geni originano dal delta del Polesine. Un pittore della grande pianura del Po in senso trasversale, di fatto, ma anche artisticamente, se si risale al significato della Padanìa quale indicazione non solo geografica, ma soprattutto come un preciso territorio artistico-culturale individuato dallo storico Roberto Longhi all’inizio del secolo scorso. Il grande critico valorizzò l’arte bresciana quale elemento più interessante della Lombardia artistica del Cinquecento, per quella adesione al “vero” che è una costante caratteristica dell’arte della Padanìa geografica, un iter che procede dal Foppa ai tre grandi bresciani del XVI secolo, passando attraverso Caravaggio fino al Pitocchetto. Si può dire che, con una trasvolata di vari secoli Melina, pur senza cadere nel facile trabocchetto del citazionismo assume i valori del vero, trasportandoli nella sua pittura. Un vero concreto, fatto però non solo di corpo, ma anche di una profonda e sottile finissima disamina dell’interiore profondo dell’uomo e della sua essenza. Un vero, che si sostanzia in splendore di forme, da cui traluce il respiro dello spirito dei problemi del vivere. Talento naturale, lontano per indole dall’indottrinamento accademico, nonostante la sua laurea in filosofia estetica, si è dedicato all’arte tout-court attraverso un proprio percorso, lontano dai movimenti. I suoi esordi sono stati agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso dove la più importante personale si è tenuta a Brescia, alla Piccola Galleria Ucai (1992). Prosegue intensamente la sua attività fino al 1995. Si tratta di opere ciclo, fatte di intensa, meditata e profonda capacità di realizzate con grande sensibilità e virtuosismo tecnico e preziosità cromatiche, opere in cui emergono figure femminili in situazioni attingenti l’analisi psicologica, con chiari riferimenti psicanalitici e apparentamenti con l’eleganza e l’ambiguità psicologico-erotica del secessionismo klimtiano
Poi la sua attività artistica quasi si ferma. E’ il tempo in cui si dedica all’attività di art-director e designer. Riemerge come artista nel 2008 dopo un periodo di profonde riflessioni (interrotto solo rarissimamente da isolate presenze in pubblico in particolare con disegni in matita grassa) ottenendo subito il riconoscimento della critica e del mercato (vincitore assoluto Premio Afrodite 2010, vincitore Premio Città di New York 2010).
Nel periodo di “latenza” (1996-2007) si è dedicato allo sviluppo interiore di stilemi e alla fondazione teoretica dl proprio agire artistico, saggiando al contempo molteplici tecniche artistiche, dalla video arte alla computer art, che usa non come approdo, ma come mezzo tecnico di sperimentazione e scavo dell’immagine, lasciando poi alla sensibile mano e alla mente che la guida il compito di costruire le sue immagini sulla tela.
A conclusione di questo percorso concettuale, che è stato focalizzato nell’intervista concessa nel 2009 alla rivista Mondadoiri “Prometeo” (vd. pagina “Critica”), ben conscio anche della teoretica che sta alla fonte dell’attuale malessere dell’arte – “il problema dell’arte contemporanea non è l’uso della tecnica, ma è la significanza che viene data all’atto” – realizza la mostra “Vivida ombra” (2010) alla Torre Avogadro di Lumezzane, applicazione pratica a sé stesso del suo teorema filosofico-metaforico. Melina procede dal vero, con un processo di destrutturazione della figura, immergendo le immagini in un’ombra assoluta dove perdono la loro realtà oggettuale, ri-emergendo come “cose” (Res) e volti e corpi (Humana) fatti di densità e di carezzevole, cruenta luce. Una tecnica raffinatissima e davvero stupefacente, una capacità di dosare la luce nelle sue composizioni pressoché monocrome, quasi sempre un bianco e nero appena intinto nel raro colore. Cromìe di leggere ciprie di luce colorata che rendono affascinanti le sue composizioni, così ricche di una qualità altissima, e però non ostentata, perché sgorga da una meditatissima sedimentazione di leggere pennellate o di fitti e delicati tocchi di matite a costruire figure ed oggetti di raffinatissima semplicità luminosa. Se Caravaggio usava una luce radente e tagliente per esaltare il vero e Rembrandt poneva nelle figure una fonte irradiante di luce, Melina con il suo processo di lenta estrazione del bianco dalle profondità del nero, costruisce figure e oggetti fatti di solida bellezza luminosa: “vivida ombra”, appunto, dove tenui e dosatissime colorazioni carezzano i neri profondi ed emergono nei filtri della luce.
Una capacità anche, di affondare andare a cercare radici senza farsi attrarre dagli eccessi del vero o nella retorica di certe nature morte, la sostanza del vero “secentesco” diventa solo luce e ombra, e perde la pesantezza del dramma per farsi essenzialità umana, sostanza “morale” dove l’”idea” vien esternata portandola dalla buia platonica caverna per approdare alla luce e farsi sostanza pittorica.
Così storie come quella di Magdala o Giuditta o Ermengarda, si raccontano con la semplice figurazione di un “ritratto” nella scena di figura semplice accompagnata dall’allusiva presenza di un simbolo, o di una scarna ambientazione. Realizza una felice fusione tra essenzialità di figurazione e semplici allusività, così che il suo punto di partenza “quasi” secentesco approda a una espressione modernamente propria, dove, se proprio si volesse ancora richiamare l’arte del passato ci stanno anche adombramenti di Neoclassicismo e il Secessionismo, ma depurati dall’eccessiva influenza della “statuaria neoclassica” o dall’ambiguità dei decadenti, come si può ammirare in Pandora (2010), che pare quasi concludere un ciclo per aprirne un altro, ricco ancora di grandi risultati.
Alberto Zaina
Portomaggiore – Ferrara