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intervista di Enrico Giustacchini
Stile ha incontrato Mario Botta nello studio del grande architetto, a Lugano.
Architetto, lei ha affermato che “costruire è un atto sacro, che trasforma una condizione di natura in una condizione di cultura”. Vuole spiegarci più diffusamente questo concetto?
L’architettura ha in sé l’idea del sacro. Se per sacro intendiamo la definizione di uno spazio di spiritualità, uno spazio dell’uomo rispetto all’esterno, è indubbio che l’architettura sia portatrice di quest’idea, anche quando utilizzata in un ambito profano. La società secolarizzata di oggi non lo sa, ma ha molto bisogno di sacro, ed esprime di frequente tale necessità. Pensiamo ai musei, che tanto affascinano e che riscuotono sempre più successo: ebbene, il museo è un luogo preposto alla fruizione di valori spirituali, un luogo di dialogo e di confronto diretto, senza mediazioni, con i grandi maestri. I giovani che affollano i concerti rock rivelano la volontà profonda di superare il limite, il conosciuto.
La sacralità ha un significato più ampio, che va al di là del contesto meramente religioso. E l’architettura consente di attuare questo “spazio del sacro”.
Soffermiamoci per adesso sui luoghi della spiritualità per eccellenza. Lei ha progettato chiese bellissime, dalla cattedrale della Resurrezione di Evry alla nuova Parrocchia del Santo Volto di Torino, dalla chiesa di San Giovanni Battista di Mogno-Fusio alla cappella di Santa Maria degli Angeli del monte Tamaro, solo per fare qualche esempio. Come si può costruire una chiesa oggi, quando tutti i codici linguistici sono stati spazzati via?
E’ una sfida, una sfida temeraria ed estrema, dopo i pronunciamenti sulla morte dell’arte, e il congedo degli stili operato dalle avanguardie del secolo scorso. La chiesa, come si sa, ha una lunghissima tradizione. A differenza delle altre istituzioni, che hanno subito nel tempo modifiche di rilievo (pensiamo al teatro: le finalità sono sempre le stesse, ma gli strumenti sono cambiati profondamente, e con essi la struttura destinata ad accoglierli), l’edificio ecclesiale è in buona sostanza invariato, porta con sé una permanenza, pur nel mutare delle “mode”. Chi frequenta una chiesa, da solo o in un quadro assembleare, comunitario, resta il protagonista di un gesto e di una scelta spirituale. Avvertiamo qui tutta la forza di un’inerzia che ha superato le innumerevoli stagioni culturali succedutesi in duemila anni di storia. Oggi – eccola, la sfida temeraria – ci è richiesto di interpretare quello spazio secondo chiavi di lettura attuali, testimoniando il nostro tempo. La difficoltà è accresciuta dal fatto che prima la trasformazione era lenta, e permetteva una metabolizzazione; oggi ogni cosa è assai più rapida, e diversi sono i registri da decifrare.
Io avverto l’esigenza profonda di raccogliere tale sfida. Ma come? Messori sosteneva che si sarebbe dovuto continuare a costruire chiese analoghe a quelle del passato. Un’opinione da cui dissento totalmente: noi non siamo chiamati ad eseguire caricature, ma ad esprimere l’età in cui viviamo.
Siamo all’eterno problema del rapporto (conflitto?) fra tradizione e contemporaneità.
Nella nostra epoca, sarebbe assurdo ignorare questi temi. Possiamo anche illuderci che tutto sia progresso e che nel progresso ci sia ogni soluzione, ma io credo che l’uomo debba inevitabilmente sempre confrontarsi con concetti primordiali.
Prendiamo la casa. Quante volte ci capita di dire: “Sono stanco; sono stufo: vado a casa”… La casa conserva il proprio valore di rifugio, di utero materno che ci accoglie e ci consente di rinfrancarci e di affrontare le fatiche del giorno dopo. Al contempo, abitare è e rimane un fatto collettivo, che ci dà modo di relazionarci con l’esterno, con il territorio e la memoria. Ciò si contrappone alla retorica dell’onnipotenza della tecnologia (tecnologia che, tra parentesi, non impedisce che si costruiscano sovente case antiquate).
Lo stesso discorso vale per la città. Un tempo il cittadino era conscio della struttura e dell’anima della sua città: sapeva che la stessa aveva un centro ed aveva un limite. Oggi le città crescono al di fuori di ogni consapevolezza. Non vi sono né limite né centro. La città è diffusa, continua: e non ha più un’identità. Nessuno, tanto meno la politica, la governa; nessuno ha un’idea precisa, nessuno dà un indirizzo.
Possiamo affermare che l’umanità sta smarrendo la propria memoria. Quella memoria, architetto, che riveste un ruolo fondamentale nel suo lavoro, come ha sottolineato, tra gli altri, Giuliano Gresleri, laddove scriveva: “Il metodo di Botta produce secondo sicure e sofisticate procedure riassumibili nell’idea di memoria e nel rapporto di essa con la storia”.
Il territorio è lo spazio della memoria. Noi popoliamo gli spazi degli estinti, di coloro che ci hanno preceduto, lasciando ciascuno tracce che abbiamo perduto o che rischiamo seriamente di perdere. Con il risultato paradossale che oggi la gente vive meglio nei centri storici, in strutture edificate in altri tempi e con altre esigenze, dove ogni cosa ci parla di un passato che avvertiamo come amico e in cui, pur non ritrovando i segni del presente, riconosciamo la nostra stessa identità. Ciò conferma che i veri valori sono quelli simbolici, metaforici, che meglio connotano il nostro abitare.
Oltretutto, noi europei abbiamo la fortuna di vivere in città più sedimentate, dove si sono condensati conflitti e vicende millenarie. Da questo punto di vista è innegabile, secondo me – proprio in virtù della stratificazione storica -, il primato delle città europee rispetto, per esempio, a quelle americane, o di alcune regioni asiatiche. Sono stato spesso in Corea, e so che cosa si prova a viaggiare per ore attraverso un territorio dove la casa più antica ha al massimo trent’anni.
Ciononostante, corriamo il pericolo di gettare alle ortiche la fortuna che ci è toccata. Dimentichiamo troppo spesso che per essere universali si dev’essere locali. Dimentichiamo, insomma, di chiedere aiuto alla memoria. Solo coltivando certi benefici anticorpi possiamo gestire le insidie della globalizzazione e scongiurare la mediocrità dei suoi esiti. Noi abbiamo bisogno di emozioni, prima ancora che di benessere economico.
Si può lavorare per la città o contro di essa. Se perdiamo il nostro senso etico, se scardiniamo od ignoriamo i valori collettivi, se ragioniamo secondo criteri miopi o speculativi, non facciamo un grande servizio, né a noi e né, tanto meno, alle generazioni che verranno dopo di noi.
Il suo è uno stile inimitabile. Quei volumi nitidi e massicci, cilindri tronchi e “feriti”, forme ellittiche che si confrontano con forme lineari, nel contrasto tra curve e rette… Il tutto finalizzato ad una ricerca di equilibri assoluti, di assoluta armonia. Un linguaggio spaziale che – per citare Lionello Puppi – “parlando la geometria, la luce, il silenzio, ci consegna eventi di purissima poesia architettonica”.
Ogni creativo elabora le idee secondo un proprio linguaggio. Io sono diventato architetto grazie al Bauhaus, grazie al Movimento Moderno, a chi ha operato prima di me. L’eredità culturale si fonde poi con il dato autobiografico…
A proposito della rilevanza dell’aspetto autobiografico: un esempio è quello relativo al frequente utilizzo, nelle sue costruzioni, del laterizio, non solo come elemento strutturale, ma pure quale materiale portato. Una peculiarità che si ricollega al suo personale vissuto, addirittura alla sua infanzia.
Beh, sì. Io sono cresciuto con l’odore della creta nelle narici, da bambino giocavo con essa nei paraggi delle fornaci. E il fascino di questo materiale povero – umilissima terra cotta nel fuoco -, economico, flessibile e capace di durare nel tempo, non si è più affievolito in me.
Ma non voglio essere nostalgico. La nostalgia non serve all’architetto, ed è cosa assai differente dalla memoria, che va intesa invece come proiezione nel presente, come una consapevolezza delle contraddizioni dell’oggi che ha in sé la speranza per il futuro.
La fedeltà ad un linguaggio, una volta che lo stesso è stato definito, è per me il metodo migliore per andare in profondità. Penso a Giacometti, quando confessava, scoraggiato e deluso: “Che stupido sono, continuo a rifare il medesimo volto senza riuscirci”; eppure noi sappiamo che dentro quel volto c’era tutta l’umanità. Ecco, è questa la lezione da seguire.
Come si potrebbe definire, in estrema sintesi, l’architettura?
Potremmo dire che l’architettura è il rapporto che lo spazio costruisce con il contesto che gli sta attorno. Un edificio che venisse tolto dal proprio contesto diventerebbe un corpo completamente estraneo. E così pure se d’improvviso fosse modificata l’illuminazione per la quale era stato pensato, o la profondità del paesaggio che all’origine lo circondava. La creazione architettonica è un unicum che sorge sulle radici della terra, intesa non solo come luogo fisico, ma come memoria, storia, identità. Tra edificio ed ambiente si deve sempre instaurare una stretta relazione fondata sul dialogo, sul confronto, sul dare e avere.
La stessa relazione, peraltro, che si deve stabilire tra l’antico e il nuovo. I grandi artisti hanno compiuto un’operazione analoga, rincorrendo il passato e continuamente arricchendolo in una prospettiva saldata al presente: Picasso riattualizzando i segni arcaici, Moore rendendo atemporale l’archetipo della donna-madre, Klee reinterpretando l’eterna immagine del fanciullo che è in ciascuno di noi.
Lei ha citato alcuni dei protagonisti dell’arte del Novecento. Qual è il suo rapporto con la pittura e la scultura?
La cultura che ha influenzato gli architetti della mia generazione è prevalentemente “asettica”. E’ figlia della rivoluzione che si era scrollata di dosso il neogotico, il neoromanico, il liberty e quant’altro. E’ la generazione del bianco e nero, dell’essenziale.
Chi voleva osare, sapeva che la massima trasgressione cromatica consentita era quella che ipotizzava l’utilizzo dell’ocra.
Partendo da tali presupposti, il mio rapporto con pittura e scultura non poteva che essere, in una certa misura, conflittuale. A casa mia ho cinquecento tra quadri e disegni: e tuttavia faccio fatica ad appenderne qualcuno alle pareti. Li tengo appoggiati qua e là, non so decidermi.
Un “rapporto conflittuale” che non le ha impedito però di richiedere la collaborazione di artisti quali Enzo Cucchi e Giuliano Vangi.
E’ vero. Io ritengo che operazioni di questo genere si possano attuare, ma solo avendo ben presente che l’artista reca con sé un plusvalore. Si deve chiamare un artista non a “decorare”, o magari coprire, “correggere” con la collocazione di un suo dipinto o di una sua scultura un errore dell’architetto (come invece accade spesso), bensì ad intervenire fattivamente, a segnare, a dare un proprio contributo allo spazio. Lei ha citato Cucchi e Vangi; io aggiungerei Walter De Maria, con il quale avevo predisposto un importante progetto, purtroppo poi non realizzato.