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di Beatrice Avanzi
Stile intervista Giampiero Mughini, che fu componente del Comitato scientifico della mostra “L’arte per il consenso. Da Sironi a Depero 1922-1935”.
Può illustrarci i contenuti della mostra, allestita nella casa natale di Mussolini a Predappio?
La mostra ripercorse il fascismo, i suoi miti, la sua ascesa politica, la sua figura carismatica. Un’esperienza che oggi all’unanimità condanniamo, perché ci sono di mezzo la seconda guerra mondiale e le leggi razziali. Però molti contemporanei, che non avevano ancora visto queste cose, hanno vissuto in modo diverso il mito, l’avvento, la vittoria politica, il regime. Una delle stupidaggini più grandi dell’antifascismo è sostenere che dalla parte del fascismo non ci sia stata cultura. La cultura invece ci fu, con protagonisti di notevole livello. Filippo Tommaso Marinetti, Mario Sironi, Giuseppe Ungaretti e Leo Longanesi da soli fanno una squadra che pochi partiti politici del Novecento potrebbero vantare.
La mostra propose una riflessione sul modo in cui il regime si avvalse delle arti figurative come strumento per creare consenso.
Se ne avvalse certamente, perché il regime era un impasto di modernità e di repressione, di dettatura e di esaltazione di certe linee culturali. Alcune delle arti più moderne nascono – non dico contagiate dal fascismo – ma certo ad esso proclivi: l’architettura moderna, tutto il dibattito sull’architettura razionalista degli anni Trenta, ad esempio. Il libro che funge da cavallo di battaglia degli architetti modernisti – il “Rapporto sull’architettura” che Pier Maria Bardi scrive nel 1931 – è dedicato a Mussolini. I razionalisti ritenevano che Mussolini fosse dalla loro parte ed effettivamente egli stette dalla loro parte nell’occasione, quanto mai sintomatica, della stazione di Firenze progettata da Michelucci. Mussolini non era certo un intellettuale colto e aggiornato, ma aveva avuto dei buoni maestri. Qualcosa aveva imparato da Prezzolini, molto aveva imparato da Margherita Sarfatti. La Sarfatti, ebrea, sua amante, era una donna di eccezionale personalità e vitalità ed è lei che lo ambienta all’arte moderna, all’arte italiana del Novecento.
Lo stesso Mussolini affermò che l’arte dell’Italia fascista doveva essere “tradizionalista e moderna”, favorendo tanto l’avanguardia futurista, volta a rapportare il regime alla modernità, quanto il linguaggio classicista e monumentale del “Novecento” promosso da Margherita Sarfatti…
Il Futurismo, sia il primo che il secondo, sta dalla parte del fascismo. Lo spartiacque è dato dalla guerra, cosa che oggi viene completamente dimenticata o falsata dalla cultura media. Essere stati per la guerra non era, come può apparire a un pacifista di oggi, essere stati per il massacro. Significava essere stati per una tappa ritenuta indispensabile all’affermazione di un grande paese moderno, nella linea e nella logica della storia dell’umanità fino a quel momento. I futuristi in guerra ci andarono… E quindi aver fatto la guerra – e Mussolini è il capo politico che interpreta questa esigenza – è lo spartiacque. Chi ha fatto la guerra sta da una parte, chi sputa sui soldati e sugli ufficiali, che pure la guerra l’hanno vinta, sta dall’altra parte. E avere sputato sugli italiani che hanno fatto la guerra è stato un grave errore della sinistra italiana.
Nelle arti figurative si arrivò all’elaborazione di una vera e propria “iconografia” del fascismo…
E’ vero. Lo stesso Mussolini, con quel cipiglio, quella sveltezza, quella drammaticità, aveva una carica iconografica assai forte, certo più dei leader di oggi. Non molti ricordano che uno dei grandi architetti modernisti dell’Italia del Novecento, Giuseppe Pagano, che poi nella sua maturità sarebbe divenuto un antifascista e sarebbe morto in un campo di concentramento nazista, da giovane era un acceso seguace di Mussolini e aveva scattato una sequenza fotografica bellissima del “covo” del Duce, cioè della prima redazione del “Popolo d’Italia”.
Gli artisti contribuirono dunque a creare il “mito mussoliniano”…
Assolutamente. I futuristi per primi, ma non solo questi… Pochi sanno che Alberto Savinio, che appare come la quintessenza della creatività e della libertà intellettuale, era un filo-mussoliniano. Era filo-mussoliniano anche Ungaretti, che è il creatore della poesia italiana moderna e si fa prefare da Mussolini il terzo dei suoi libri. Il momento più alto della collaborazione tra il regime e la cultura d’avanguardia fu la famosa “Mostra della rivoluzione fascista”, dedicata al decennale, che si tenne al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 1932 ed è uno dei grandi avvenimenti della cultura italiana moderna.
E’ possibile individuare alcuni tratti caratteristici di uno “stile fascista”?
Parlerei piuttosto di stili dell’arte moderna che sono nati in ambienti culturali vicini al fascismo, ed erano il dinamismo, la modernità, la velocità, la sfida rappresentata dai nuovi strumenti a disposizione dell’uomo… non dimentichiamo l’importanza dell’aereo per la mitologia fascista. Le famose trasvolate oceaniche di Balbo appartengono veramente al mito delle cose volute da Mussolini, interpretate da uno dei suoi collaboratori più importanti, perché – anche questo va detto – il Fascismo ebbe degli uomini di primissimo piano. Un uomo come Balbo da solo illumina un periodo della politica italiana. E poi Bottai, Rocco, Giovanni Gentile… Insomma, i conti con questa parte della nostra storia sono complessi. E non sono conti che mirano a dire “com’era bello”, ma a spiegare come è andata.