di Enrico Mirani
[L’]anatra starnazza spaventata nello stagno, mentre la volpe sbucata all’improvviso dalla vegetazione afferra tra le fauci l’oca stupita e rassegnata al destino che sta per compiersi. Possono ancora tentare una fuga disperata, invece, le oche inseguite da un soldato, spada in mano, sotto lo sguardo divertito di un commilitone a cavallo, appoggiato al destriero del compagno sulla cui sella è già distesa una preda.
Sono due degli acquerelli che illustrano la Gänsengeschichte, la Storia delle oche, testi ed immagini del tedesco Johann Heinrich Wilhelm Tischbein (1751-1829), il “pittore poeta”. Così lo nominavano i contemporanei, proprio per la vocazione a fondere parole e disegni, scrittura e colori, che portò l’artista a realizzare lavori pensati come integrazione di testi oppure per ispirare commenti. Storie sue come di altri. In particolare di un letterato, fra i più grandi di ogni tempo: Johann Wolfgang Goethe. Non a caso, per distinguerlo dagli altri 24 pittori e pittrici del suo casato nel corso di tre generazioni, Johann Wilhelm fu chiamato il “Tischbein di Goethe”. A buon diritto, data l’intensa e profonda conoscenza artistica ed umana fra i due connazionali, quasi coetanei (Goethe aveva due anni in più).
Tischbein nacque in Assia il 15 febbraio del 1751, figlio di un falegname ebanista che lo introdusse all’arte del disegno. Della sua formazione – comunque piuttosto improvvisata – si occuparono due zii paterni, entrambi pittori, uno alla corte di Kassel e l’altro con atelier ad Amburgo. Nel 1777 la svolta, con la chiamata alla corte di Prussia. A Berlino, Tischbein si affermò come ritrattista secondo la moda rococò, guadagnando considerazione e commesse. Una condizione sociale soddisfacente, offuscata però dall’inquietudine artistica di Johann. I ritratti lo annoiavano, anelava incontrare la pittura storica, immortalare gli eventi importanti della patria tedesca, rappresentare le virtù e le gesta dei grandi uomini. Ma occorrevano esperienza e formazione.
Nel 1779, grazie ad una borsa di studio dell’Accademia di Kassel, poté intraprendere un viaggio nella terra dell’arte, dove avrebbe potuto imparare il necessario: l’Italia. Soggiornò a Roma fino al 1781. Per un altro anno e mezzo frequentò poi a Zurigo la casa di Johann Kasper Lavater, fisiognomico, convinto che l’anima e il carattere di una persona si riflettessero nell’aspetto esteriore. Tischbein assorbì queste teorie e soprattutto, per mezzo di Lavater, entrò in contatto con la corte di Weimar e con Goethe.
Il pittore cominciò ad inviare al poeta dei lavori, schizzi, disegni, che l’altro apprezzò, tanto da raccomandare l’artista al duca di Gotha. Insistenze che valsero l’incarico sovrano di illustrare il Götz von Berlichinghen, un dramma goethiano del 1773 in cui il cavaliere Götz, nella guerra dei contadini del XVI secolo, si schiera con gli oppressi contro i principi. Non solo: grazie ancora al patrocinio del poeta, il Duca pagò una borsa di studio a Tischbein, che nel gennaio del 1783 fu di nuovo a Roma. Per il principe dipinse il suo primo quadro storico, Corradino di Svevia e Federico d’Austria giocano a scacchi in prigione.
Intenso fu in quegli anni il rapporto artistico – per via epistolare – fra il pittore e il poeta. Il 29 ottobre del 1786, finalmente, il primo incontro in una locanda vicino a San Pietro. Goethe era appena arrivato a Roma. “Non ho mai provato una gioia più grande – gli scrisse Tischbein nel 1821, ricordando la circostanza – di quando la vidi per la prima volta in quella locanda. (…) Lei sedeva presso il camino in soprabito verde (…) e io riconobbi in quell’istante l’uomo che conosce il fragore delle onde dell’animo umano nella sua profondità, tanto nelle più furiose tempeste quanto nella calma, quando mostra il chiaro cielo nel suo specchio”.
Dal giorno dopo, il poeta si trasferì nella casa dove Tischbein viveva con altri artisti tedeschi, in via del Corso. Dall’affinità spirituale si passò alla simpatia umana e all’amicizia. Così Goethe scrisse dell’altro agli amici di Weimar: “Mai potrò imparare tante cose in tanto poco tempo come adesso in compagnia di quest’uomo colto, esperto, raffinato, che mi è devoto anima e corpo. Non so dire quanto i miei occhi si siano liberati dalla benda che li copriva”. Il pittore svelava al poeta l’anima della città, la sua storia, la sua arte. La classicità.
Durò cinque mesi, fino al marzo del 1787, quando Tischbein accompagnò Goethe a Napoli, con l’intenzione di fermarsi nella capitale borbonica, ambendo al posto di direttore della Reale Accademia. Il poeta, invece, avrebbe voluto che l’amico lo seguisse in Sicilia; ma ciò che urtò Goethe, fino a raffreddare l’amicizia, fu il rifiuto di Tischbein di assecondare il suo progetto: tornare in Germania per fondare una scuola di pittura. Goethe e Tischbein non si sarebbero più visti, pur continuando il rapporto epistolare ed artistico (per la verità più il secondo) fino al 1822.
Nel 1787, dopo la partenza del poeta per la Sicilia, Tischbein cominciò a dipingerne il famoso ritratto sullo sfondo della campagna romana (conservato nella Städelsches Kunstinstitut di Francoforte): Goethe ne avrebbe visto solo degli schizzi (la relazione fra i due intellettuali è ben descritta nel volume Johann Heinrich Wilhelm Tischbein. Il pittore poeta, curato da Ursula Bongaerts e edito dalla Casa di Goethe – 96 pagine, 11 euro -, arricchito da numerose immagini a colori).
A Napoli il pittore diresse l’Accademia Reale dal 1789 al 1799, quando la rivoluzione e l’arrivo dei francesi lo spinsero a lasciare la città per tornare in Germania. Ed è qui che riprese la collaborazione con Goethe.
Nel 1808 Tischbein diventò pittore di corte nel ducato di Oldenburg. Nel biennio 1819-1820 (aveva già 69 anni), dipinse i 44 quadri degli Idilli per il castello della città. Erano una sorta di summa della sua arte, un ciclo dove il classicista Tischbein mescolava la pittura paesaggistica, storica, di animali; dove il mondo pastorale incontrava i personaggi mitologici e dell’Olimpo. Squarci dei paesaggi arcadici ammirati con Goethe nella campagna romana e napoletana in quei lontani mesi della loro frequentazione.
Tischbein inviò al poeta un quaderno con schizzi ed acquerelli dell’opera, che ispirarono a Goethe (mosso forse anche dai ricordi) versi e commenti, pubblicati nel 1822 col titolo Idilli di Wilhelm Tischbein. Del resto, il pittore aveva già illustrato il componimento goethiano La volpe Reinecke, applicando la fisiognomica alle favole degli animali; fra il 1808 e il 1812 aveva scritto e illustrato un romanzo, Storia di un asino.
Fu un artista che cercò ispirazione nelle parole, ma che offrì pure ispirazione con le sue immagini. Ad esempio ad Arthur Schopenhauer, che conobbe Tischbein. Nei libri del filosofo Parega e Paralipomena e Il mondo come volontà e rappresentazione vengono più volte citati i Quaderni sibillini del pittore, sintesi di immagini e scrittura, vicini agli Idilli nei soggetti.
Tischbein si spense il 26 giugno 1829 nella residenza di Eutin, nel ducato di Oldenburg, alla bella età di 78 anni.