Abbiamo intervistato Filippo Minelli, una delle voci più interessanti della Street art italiana. Minelli è stato tra i protagonisti del progetto itinerante, curato da Vittorio Sgarbi, Street art Italy meets the World, un’iniziativa che prevedeva una serie mirata di esposizioni nelle quali gli autori di casa nostra si confrontavano con i più quotati nomi del panorama internazionale.
Per cominciare, vuoi darci la tua definizione di Street art?
La Street art è nata come evoluzione di quello che veniva comunemente definito “graffitismo”. A un certo punto alcuni writer, persone dotate di una sensibilità particolare, che avevano trovato il loro spazio espressivo nel graffitismo duro e puro (anche con tutto quanto di negativo questo poteva comportare, specie l’azione in un ambito di illegalità), hanno maturato l’esigenza di evolvere il proprio stile di comunicazione, di sostituire il desiderio di puro appagamento estetico con qualcosa di più profondo e meditato.
La Street art dunque nasce come una questione creativa più personale e più ragionata, che, pur avendo sicuramente le sue solide basi in ciò che è stato (e continua ad essere) il graffitismo, sceglie una via di comunicazione diversa, meno legata al fattore puramente estetico, ma finalizzata piuttosto all’espressione di concetti. Proprio come avviene nell’arte contemporanea… E a dire il vero, oggi come oggi esiste una certa confusione: è piuttosto riduttivo infatti cercare di dare una definizione univoca di Street art, viste le numerose declinazioni che esistono al suo interno, legate alle singole personalità.
Il filo conduttore resta il rapporto dialettico con il territorio, con la realtà urbana.
Certamente, l’ambiente, la città sono luoghi portatori di una propria identità, che dialoga con l’intervento dell’artista, in funzione di quelle che sono però le sue specifiche inclinazioni. Dal punto di vista estetico, è ovvio che il graffitismo resta il punto di partenza, con il suo linguaggio visivo impattante, spesso legato ad un’estetica molto “pop”, ovvero semplice e immediata, che però viene elevata con intenti di “disordinazione” culturale, al fine di esprimere contenuti forti.
E qual è la tua inclinazione, all’interno di tale variegato contesto?
A metà degli anni Novanta ho cominciato la mia attività di graffiti writer, e, sin dall’inizio, è stata per me predominante la finalità provocatoria, piuttosto che quella di appagamento estetico, magari in funzione della riqualificazione urbana, che per molti graffitisti (che di fatto sono dei “decoratori”) è centrale: il mio lavoro, invece, si legittima proprio nell’essere distante da ogni intento puramente autocelebrativo.
Io non considero prioritario il problema della città che fa schifo, degli ambienti degradati che possono essere riqualificati; di questi aspetti ho preferito occuparmi a livello professionale con una società che si prefigge proprio di creare un legame tra il Graffiti-Design e il Graffiti-Marketing, e che offre servizi d’immagine e comunicazione non convenzionali, finalizzati alla visibilità mediatica.
Dunque come è avvenuto, nel tuo caso, il passaggio da writer a street artist?
Io desidero non tanto comunicare, quanto suggerire qualcosa. Offrire degli spunti di riflessione. La scelta di intervenire sul tessuto urbano o sull’ambiente non è fatta mai in maniera superficiale, ma nasce da una ricerca concettuale che ormai porto avanti da una decina d’anni.
L’intervento sull’ambiente, nella città non può essere frutto di un comportamento istintivo, o meglio, non dev’essere solo questo. Ogni volta che mi sono trovato ad intervenire sullo spazio pubblico l’ho fatto riflettendo a lungo sulla reazione che un gesto simile poteva e doveva avere sulla gente. E così ho iniziato a sperimentare azioni di comunicazione urbana più specifiche, passando dall’utilizzo seriale di una scritta o un logo ad interventi più mirati, contestualizzati. Quasi sempre agendo senza permessi o autorizzazioni amministrative, perché, comunque, la dimensione dell’illegalità continua a rappresentare uno stimolo vitale per la mia attività.
La peculiarità della Street art, che usa il contesto pubblico per divenire se stessa, è di rivolgersi ad un pubblico che non sceglie volontariamente di fruirne.
Infatti. Come dicevo, ogni mio intervento non prescinde dalla riflessione sull’impatto che esso può avere sulla gente. Io non ho la presunzione di essere necessario. Semplicemente, il mio intento è quello di suggerire degli input, che invitino le persone, quelle in grado di recepirli, ad una riflessione. Per fare ciò di solito utilizzo delle parole, scegliendo uno stile volutamente grezzo, ruvido. Parole dotate a mio avviso di un fortissimo potenziale evocativo.
E nella scelta di queste parole e frasi leggiamo l’allargamento da una dimensione più soggettiva, come quella delle prime performance realizzate nella tua città (Ignorance, Yourself, Regardez-moi), ad una più universale, che ti ha spinto in giro per il mondo, dalla Cambogia alla Palestina, dal Brasile al Nepal…
Io sono un artista, non un politico; non intendo imporre giudizi ma, ribadisco, solo proporre spunti di riflessione. La mia ricerca mi ha portato ad interrogarmi sul ruolo della città contemporanea e sulle relazioni fra il nuovo ecosistema urbano e l’individuo. Ecco perché, ad esempio, sui muri delle zone più degradate delle periferie cambogiane ho impresso scritte che riguardano la comunità virtuale, come Second life o You tube, a suggerire la vacuità delle nuove frontiere della socialità.
Particolare presa mediatica a livello internazionale, come testimoniano le numerose pubblicazioni su prestigiose riviste d’avanguardia, oltre che sul web, ha avuto il tuo intervento sul Muro costruito da Israele in Cisgiordania.
Ho voluto imprimere la frase “CTRL+ALT+DELETE”, il comando che consente di riavviare il sistema del PC, per sottolineare l’urgenza di una riflessione e soprattutto di un’azione volta a modificare una situazione che, pur senza entrare nel merito di un giudizio politico, davvero non è più sostenibile.
Ed ora esploriamo la tua attività pittorica. Come avviene, in te, il passaggio dalla realtà urbana a quella dello studio e della tela?
In realtà si tratta di due percorsi paralleli, a cui mi sono sempre dedicato in contemporanea. La mia formazione è stata prettamente artistica: infatti, dopo il liceo, mi sono laureato a Brera. Oltre ai graffiti mi sono sempre occupato anche dei linguaggi estetici più tradizionali.
Il tuo linguaggio pittorico, fortemente segnico, conserva la stessa istintività e naturalezza delle iscrizioni urbane. Cosa racconti con i tuoi quadri?
Su di essi prendono forma le trasposizioni pittoriche, in senso quasi astratto, di figure e volti di persone che ho incontrato nella mia vita, in particolare quelle che ho osservato interagire con il mio lavoro urbano.
Mi interessa molto indagare questo aspetto. Dal punto di vista stilistico è palese che anche in tali opere si riversi la tendenza all’estrema immediatezza espressiva dei graffiti: dunque mi piace utilizzare colori forti, molto contrastati, riducendo le forme all’essenziale, affidando ad un segno tracciato con velocità e continuità sul supporto il compito di definire i pochi dettagli sufficienti a delineare i volti e le figure, senza rinunciare alla freschezza e alla spontaneità del messaggio emotivo che intendo trasmettere.
Amo inoltre usare come supporto materiali di recupero, quali vecchi legni o pezzi di lamiera, oggetti che mi capita di raccogliere durante i miei viaggi e che sono dotati di una loro propria valenza estetica; materiali che faccio interagire con il mio intervento pittorico, così come il graffito interagisce con la città, con i muri su cui viene tracciato.
Grazie ad alcuni importanti eventi espositivi e all’interessamento di un critico come Vittorio Sgarbi, la Street art italiana ha oggi ricevuto la sua piena legittimazione anche in campo istituzionale. Che cosa pensi di questo ingresso nel circuito dell’arte “ufficiale”?
A cominciare dalla mostra al Pac (Street art, Sweet art), che con i suoi pro e i suoi contro ha rappresentato il primo rilevante evento in Italia, finalmente pure da noi, come nel resto del mondo, è arrivato il riconoscimento. Credo che si debba cercare di offrire un’idea precisa di questa realtà espressiva, senza cadere in quella confusione tipica della nostra cultura che porta a fare di tutte l’erbe un fascio, accomunando erroneamente, sotto la definizione di Street art, anche esperienze che con essa hanno davvero poco a che fare.
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