In pittura dicesi anamorfosi la proiezione mostruosa o la rappresentazione sfigurata di un’immagine eseguita su un piano, la quale, nondimeno, da un certo punto di vista appare regolare e fatta con proporzioni giuste”.
(Diderot e D’Alambert, “Encyclopédie”, 1751)
[“A]namorfosi” è parola che appare nel Seicento e designa una certa specie di “depravazioni ottiche” fondate sui giochi della riflessione e della prospettiva. Si tratta di immagini distorte, mostruose e indecifrabili che, se viste da un certo punto dello spazio o riflesse con accorgimenti vari, si ricompongono, si rettificano, infine svelano figure a prima vista non percepibili.
La conoscenza dei procedimenti per costruirle fu a lungo trasmessa come dottrina magica e segreta, finché a partire dal Cinquecento le immagini anamorfiche hanno cominciato a diffondersi. Infine nel Seicento l’anamorfosi ha invaso i trattati di prospettiva, la pratica architettonica e le feconde speculazioni ottiche dell’epoca, diventando poi una sorta di lucido e onniavvolgente delirio nell’opera di due grandi gesuiti, Kircher e Bottini.
L’anamorfosi nasce come esplorazione delle massime possibilità offerte dal quadro prospettico. Secondo Baltrusaitis, che sottolinea l’origine antica di questa tecnica, tutto deve essere nato come evoluzione delle lievi rettifiche apposte dagli artisti e dagli architetti per “rimediare all’errore della vista”, “ma derivano anch’esse da medesimo principio dell’alterazione delle forme naturali, grazie al quale si ottiene l’uniformità mediante la difformità e la stabilità mediante lo squilibrio”. Chi lavorava confrontandosi necessariamente con un quadro prospettico, aveva evidenziato i limiti della cosiddetta prospettiva lineare. Il Rinascimento esplorerà le numerose possibilità offerte dall’assetto prospettico, non solo come strumento per la corretta rappresentazione del reale, ma come mezzo per ottenere spazi illusori.
“A Milano, in San Satiro (1482-1486), il Bramante – scrive Baltrusaitis – simula una vasta abside in uno spazio di un metro e venti di profondità. Gli scorci audacissimi del cornicione, dei cassettoni e dei pilastri in stucco e in terracotta danno l’impressione perfetta di un ambiente dal soffitto a volta intera, ma se vogliamo entrarvi andiamo a sbattere contro un muro”. Lo sviluppo della cosiddetta prospettiva accelerata, che tende cioè a creare l’illusione di una vastissima profondità del dipinto e che forza, attraverso le regole geometriche, il piano del reale, è legato anche alla diffusione cinquecentesca del teatro e alle sperimentazioni prospettiche ad essa connesse, specialmente a partire dalla metà del secolo, alle quali attingono anche gli architetti per l’edificazione dei palazzi e per l’allestimento dei giardini.
“Nel trattato di prospettiva del Sirigatti (1596) tutto il palcoscenico è inclinato. Gli attori – annota Baltrusaitis – non si muovono più nel mondo reale ma in un mondo illusorio”. Le prospettive accelerate – in arditissimi scorci -, l’inclinazione delle tavole sulle quali gli attori recitano diventano punto di riferimento anche per studiosi di ottica e pittori.
[S]e la rifondazione della cultura anamorfica è soprattutto italiana, gli sviluppi avverranno in altri Paesi europei.
Il geniale Leonardo ha diritto di primogenitura anche nei confronti dell’anamorfosi. “Due disegni allungati, quello del viso di bambino e quello di un occhio, che troviamo su un foglio del Codice atlantico (1483-1518) con i segni appena percettibili delle linee di proiezione gradualmente crescenti, completano l’insegnamento del grande artista. Sono le anamorfosi più antiche che attualmente si conoscano” scrive Baltrusaitis nel libro pubblicato da Adelphi.
“Indubbiamente – scrive lo studioso – nel primo periodo le ricette giuste erano tenute gelosamente segrete; i procedimenti geometrici esatti furono rivelati integralmente soltanto nel corso del Seicento, con la formazione del secondo gruppo di anamorfosi e con la sua diffusione in molteplici direzioni”.
Un allievo del Dürer – maestro che, come sappiamo, ideò la cosiddetta “finestra”, utilizzata per la precisione dei rilievi prospettici – fu infatti tra i principali protagonisti del rilancio della “rappresentazione obliqua delle realtà”. Schön, infatti, esasperando le regole di correzione prospettica, realizzò un’incisione di notevoli dimensioni (0,44 x 0,75 m), “suddivisa – come afferma Baltrusaitis – in quattro registri trapezoidali dove il tratteggio zebrato si prolunga in paesaggi disseminati di figurine. Città e colline, personaggi e animali vengono riassorbiti, o meglio inghiottiti, in un turbine di tratti aggrovigliati, a prima vista indecifrabili. Se però guardiamo al lato dell’incisione, tenendo l’occhio vicinissimo al foglio, si vedono scaturire dal nulla quattro teste sovrapposte e delimitate da cornici rettilinee”. Tutto sembra frutto di una “stregoneria”.
Noto, relativamente a quest’epoca, è il ritratto (che vediamo nella foto tratta dal libro pubblicato da Adelphi dedicata all’anamorfosi, di Baltrusaitis) di Edoardo VI (1546). Nella parte superiore della tavola, l’opera è presentata da un punto di vista ordinario, quindi frontale. Osservando di sbieco il dipinto (immagine inferiore), leggiamo invece, perfettamente, il volto del sovrano. L’occhio infatti, da quella posizione, coglie soltanto alcune linee della rappresentazione, che sono poi quelle indispensabili ad evidenziare perfettamente la fisionomia regale. Dicevamo dell’origine italiana dell’anamorfosi, tra Quattrocento e Cinquecento. Dürer, infatti, in una lettera inviata nel 1506 da Venezia, annunciava di essere in procinto di partire per Bologna per “impararvi l’arte di una prospettiva segreta”.
COME SI REALIZZA UN’ANAMORFOSI
Il sistema più diretto e semplice per realizzare dipinti anamorfici era legato all’utilizzo della luce. I pittori stendevano, seguendo le consuete proporzioni naturali di stampo realistico, il disegno da “nascondere”: un volto, un oggetto, uno stemma. Trasferivano poi il disegno su un cartone, come avveniva normalmente nelle operazioni preparatorie degli affreschi; il cartone veniva infatti bucato con la punta di un chiodo in corrispondenza d’ogni linea del disegno stesso. A questo punto si agiva schermando lateralmente il cartone per evitare che la luce del sole o della lampada entrasse nella stanza in cui sarebbe stato realizzato il dipinto. I fasci luminosi, in questo modo, passavano esclusivamente attraverso ogni foro del cartone, proiettando un “fotodisegno” sulla parete.
L’ANAMORFOSI DEL TESCHIO
NE “Gli AMBASCIATORI” DI HOLBEIN
[U]no dei quadri più celebri nei quali appaia una proiezione anamorfica è il dipinto di Hans Holbein intitolato “Gli ambasciatori” (1533). Il disco fortemente scorciato che appare obliquamente, in sospensione sul pavimento, è, come ben sappiamo, la raffigurazione di un teschio.
I due personaggi, ritratti a grandezza naturale, sono Jean de Dinteville, signore di Polisy (1509-1542) e George de Selve (1509-1542). Gli oggetti accumulati sullo scaffale al quale i due appoggiano il braccio risultano evidenti rappresentazioni dell’impegno intellettuale e artistico finalizzato alla conoscenza. Ma per quanto tutto il quadro sia segno di una tensione estrema nei confronti del sapere-potere – e dei piaceri ad esso connessi -, l’ambizione umana si deve arrendere di fronte al mistero della morte, che non appare immediatamente evidente, ma che richiede uno sforzo di chiaroveggenza, in base al quale ogni vanità sarà ricollocata nella giusta dimensione.Tutto così. O anche il contrario?
“Nel castello di Polisy (…) – annota Baltrusaitis – esso fu senza dubbio collocato da Dinteville in una grande sala, di fronte a una porta e vicino ad un’altra, ciascuna di esse in corrispondenza con uno dei due punti di vista. (…) Il primo atto comincia quando il visitatore entra dalla porta principale e vede davanti a sé, a una certa distanza, i due signori che si stagliano sullo sfondo, come su un palcoscenico. (…) Un punto solo li turba: lo strano oggetto che vede ai piedi dei due personaggi. Avanza per vedere le cose più da vicino: il carattere fisico, quasi materiale, della visione, aumenta quando si avvicina, ma quell’oggetto singolare rimane assolutamente indecifrabile. Sconcertato, il visitatore esce dalla porta di destra, la sola aperta, ed eccoci al secondo atto. Quando sta per inoltrarsi nella sala attigua, gira la testa per dare un ultimo sguardo al dipinto, e in quel momento capisce tutto: per l’improvvisa contrazione visiva la scena scompare e viene fuori la figura nascosta. Dove, prima, tutto era splendore mondano, ora vede il teschio. I due personaggi, con il loro apparato scientifico, svaniscono, e al loro posto nasce dal nulla il segno del Nulla. Fine della rappresentazione”.
Si tratterebbe però di comprendere,considerato il fatto che l’opera era collocata in una sala privata con funzioni pubbliche, quanto jl dipinto, oltre a stupire l’ospite, lanciasse nei suoi confronti un messaggio con il quale si intedeva incutere un senso di precarietà. L’apparizione prodigiosa del teschio, sospeso davati agli “ambasciatori” indica pure la loro potenza. Non è tanto simbolo di vanitas. Essi possono suscitare lo spirito della morte, con il loro potere, con la loro scienza e con la conoscenza di regole magiche. Probabilmente questo effetto era stato studiato per creare inquietudine e senso di inferiorità nell’interlocutore, in attesa di incontrare il padrone del castello. Un’arma psicologica.