[“G]iulio Romano, che se avesse per sé l’eternità e potesse dar vita col fiato al suo lavoro ruberebbe il mestiere alla natura”: così Shakespeare, nel Racconto d’inverno, seppe intuire la grandezza di Giulio di Piero Pippi de Giannuzzi, nato a Roma ‑ da cui il più comune nome Romano ‑ e iniziato alla pittura da Raffaello, che lo chiamò nella sua bottega intorno al 1510‑12.
Giorgio Vasari, nelle sue Vite, lo definisce “dotato dalla natura¼ erede del graziosissimo Raffaello si’ ne’costumi, quanto nella bellezza delle figure nell’arte della pittura”. La fama raggiunta a Roma lo fece conoscere nelle più importanti corti italiane, e sul finire del 1524 Federigo Gonzaga, primo duca di Mantova, lo fece chiamare nella città lombarda per dare inizio alla costruzione e alla decorazione di Palazzo Te.
E’ ancora Vasari che descrive ammirato gli affreschi delle varie sale, soffermandosi con particolare entusiasmo sulla Sala dei Giganti, nell’angolo nord‑est dell’edificio. Il mito narrato è la Gigantomachia, uno dei più noti fin dall’antichità, dalla Teogonia di Esiodo alle Metamorfosi di Ovidio, alla Gigantomachia di Claudiano e alle volgarizzazioni tardo‑medievali sicuramente ben note a Giulio Romano.
“Aveva Giulio nel mezzo del cielo figurato su certi nugoli il trono e la sedia di Giove, con l’aquila che teneva il folgore in bocca. E Giove partito di quella, sceso e più basso, lanciava folgori, lo spavento e ’l lampo de i quali faceva Giunone ristrignersi in se stessa, Ganimede e gli dei fuggire per lo cielo su carri, Marte coi lupi, Mercurio coi galli, la Luna con le femmine, il Sole co’ cavalli, Saturno coi serpenti, Ercole, Bacco e Momo non manco affrettava il fuggire per l’aria, che si facessero gli altri, i quali dalla baruffa de’ venti erano nelle loro vesti involti et avviluppati”. La grandiosità della sala è esaltata dalle pareti, che formano un tutt’uno con la volta dove figurano le divinità ricordate così precisamente da Vasari: sulle pareti, infatti, sono rappresentati i Giganti che cadono colpiti dai massi e dai fulmini di Giove, sicché vi è un unico dipinto ‑ tematicamente unitario ‑ continuato dal soffitto al pavimento, non interrotto né da cornici né da spigoli. Le possibilità illusionistiche della pittura consentono all’osservatore di essere al centro di un evento catastrofico e drammatico dove, ad esempio, il tremore della terra scossa dalle folgori è richiamato anche nei disegni ondulati del pavimento. Il rovinare dei macigni sembra sovvertire ogni regola statica, e l’attesa di un apocalisse è esasperata dal contrasto della veduta paesistica di acque immobili che si ricongiungono con l’orizzonte lontano e dal baldacchino, dipinto sopra il trono di Zeus, troppo elevato al cielo e imperturbabile nella sua intatta perfezione per essere coinvolto nella catastrofe terrena.
Una corona di bianche nuvole fissa il limite tra divino e umano ove, invece, predominano luci tenebrose e aspre, mentre le forme si disgregano. Tutte le emozioni ‑ visive, tattili, uditive ‑ sono richiamate in questo trionfo di una pittura totale dal ritmo angosciante.
“Erano i Giganti grandi di statura, che da lampi de’ folgori percossi ruinavano a terra, e quale inanzi, e quale a dietro cadeva a quelle finestre, ch’erano diventate grotte o vero edifici, e nel ruinarvi sopra i Giganti le facevano cadere onde chi morto e chi ferito, e chi da i monti ricoperto, si scorgeva la strage e la ruina d’essi. Né si pensi mai uomo ‑ conclude Giorgio Vasari ‑ vedere di pennello cosa alcuna più orribile o spaventosa, né più naturale”.