di Jacqueline Ceresoli
“Stilearte” ha incontrato nella straordinaria casa-museo Villa Menafoglio Litta Panza, a Varese, Giuseppe Panza di Biumo. Opere di Arte minimal della Collezione Panza dal Guggenheim Museum di New York sono intanto protagoniste della mostra “La percezione dello spazio”, al Palazzo della Gran Guardia di Verona (fino al 18 novembre; orario: 9.30-19, chiuso il lunedì; catalogo Electa; informazioni allo 045-8001903).
Conte, che cos’è per lei l’arte? E che senso ha parlare dello spazio nell’epoca informatica, con un concetto fluttuante nelle dimensioni virtuali?
Lo spazio virtuale non può sostituire quello fisico, la realtà è un’altra cosa. La realtà ci coinvolge, viviamo dentro di essa, mentre la dimensione virtuale è la proiezione astratta di uno spazio dilatato. Internet, per esempio, è soltanto un archivio di informazioni che, per quanto importanti, se non sono relative a problemi reali non servono a nulla. Per me l’arte deve contenere valori assoluti: è un impegno etico, e non un fatto soltanto decorativo.
Lei – che è stato il primo italiano a collezionare l’arte americana dall’Espressionismo astratto fino alla Land art – ha commissionato agli artisti installazioni ambientali che interagissero con lo spazio della sua villa, evidenziando l’aspetto architettonico dell’opera. Può spiegare i concetti di ambiente, di architettura e di spazio, per lei connaturati all’opera stessa?
Penso che le opere d’arte non debbano essere interpretate come oggetti singoli e indipendenti da tutto il resto. Le opere d’arte sono inserite in un contesto, e – nel caso delle installazioni – devono integrarsi con l’ambiente, con lo spazio circostante senza alterarlo, diventando architettura. Nel Rinascimento l’artista era pittore, scultore e architetto, aveva una formazione completa per soddisfare la committenza di corte, raffinata ed esigente. Credo nell’unità tra le arti, perché tutte concorrono allo stesso scopo: suscitare, a chi guarda, l’emozione delle idee rappresentate. L’unità delle arti era una pratica ben radicata nel passato; dopo la Rivoluzione francese, purtroppo, sono definitivamente mancati i grandi committenti, e l’unitarietà si è frammentata in diversi generi e tipologie. Ritengo però che bisognerebbe assolutamente ricomporla, perché ciò è necessario per salvaguardare la qualità dell’opera totale, che comprende appunto spazio, ambiente e architettura.
Le chiedo: sua moglie è musicista, insieme avete scelto le opere per la vostra casa; qual è il rapporto che intercorre, secondo lei, tra la musica e l’arte?
Esiste un’affinità tra la musica e l’arte, perché entrambe sono un linguaggio per esprimere le emozioni fondamentali dell’essere umano. Non dimentichiamo che la musica è stata la prima espressione completamente astratta, che non ha nessuna relazione con gli avvenimenti reali, è istintiva ed emotiva. Sia la musica che l’arte hanno lo scopo di evocare gli stati d’animo e rappresentare le idee. In entrambe la realizzazione dipende dall’armonia, che, se nella musica è fondamentale, nell’arte si riflette nella totalità dell’opera, che contempla lo spazio in cui l’opera stessa è collocata.
Il concetto dell’unitarietà delle arti, dell’ordine e della simmetria, sono – si diceva – assolutamente classici; lei intende l’opera d’arte come una sintesi armonica tra le singole parti in rapporto al tutto, ma anche come visualizzazione di un processo mentale, di un percorso creativo. Quindi l’opera d’arte è totale quando interagisce con lo spazio circostante e, in questo senso, diventa architettura. Ragionando sul senso dell’opera d’arte, potrebbe definire il suo gusto come “personale”?
Naturalmente il mio gusto è personale. Fin da bambino mi piaceva guardare i quadri, sentivo un’affinità istintiva per le opere “belle”, che sapevo distinguere da quelle “brutte” senza saperlo spiegare razionalmente.
Quindi l’estetica che coinvolge i sensi, come impatto emotivo, nell’opera d’arte è ancora un valore…
Assolutamente sì, penso che esprimere l’armonia sia connaturato all’uomo, e tanto più le opere si accordano nel manifestare emozioni, tanto più assumono un valore universale. Alcune opere mi risvegliano sensazioni che ho provate o provo quotidianamente. Sento affinità con quelle immagini, che mi evocano piaceri vissuti, consentendomi di rinnovare l’incanto delle emozioni. Ritengo che non si possa fare arte senza bellezza.
La bellezza. Che cos’è, per lei?
Per me la bellezza è istintiva e immediata, ma soggettiva, indefinibile. E’ il mistero della creazione.
Mi pare di capire che per lei la bellezza sia una categoria immanente, a priori, assoluta, che non nasce in rapporto con la realtà, ma è piuttosto il risultato di una creazione, di un pensiero che contiene l’invenzione. Ma come la riconosce?
Per istinto, ho il gusto educato a forme ordinate e armoniche, ma di questo abbiamo già detto. Senza dubbio, la bellezza è assoluta e istintiva: per natura tendiamo a modelli ideali di perfezione che cerchiamo di esprimere attraverso, per esempio, le opere d’arte, intese come tentativo di elevazione spirituale.
Quando nasce la sua passione per il collezionismo e qual è il suo obiettivo?
Ho incominciato a collezionare opere nel 1956, quando mia moglie ed io ci siamo sposati e le pareti della nostra casa erano spoglie: allora abbiamo pensato di riempirle con una collezione d’arte contemporanea, che doveva essere organica e conforme al nostro gusto. La mia preparazione culturale è basata sul Rinascimento italiano, ma non potevo permettermi dei Lotto o dei Tiziano: così ho iniziato ad acquistare opere contemporanee di artisti americani emergenti, ma altrettanto importanti, a mio giudizio, di quelle del passato. Il mio obiettivo era ed è trovare opere del presente, che nel futuro saranno giudicate come rappresentative di un periodo storico, in quanto rimandano a valori universali. Mi piace individuare in anticipo cosa diventerà “classico”, non seguo né mode, né tendenze, ma il mio gusto dell’armonia.
Ha incominciato a collezionare Klein, Tapiés e Fautrier, poi opere dell’Espressionismo astratto americano, ha continuato con la Pop art, per indirizzarsi quindi verso l’Arte minimalista o più in generale concettuale, avvalorata da motivi spirituali, distaccandosi dalla realtà. Per quale motivo?
Nel 1958 ho acquistato Rauschenberg, che considero un trait d’union tra l’Espressionismo astratto e la Pop art, perché utilizza immagini della vita reale per creare un rapporto con il passato come memoria. Questo aspetto mi ha spinto verso la Pop art; poi ho comperato Lichtenstein ed altri americani, all’epoca sconosciuti in Italia. A New York, grazie al gallerista Leo Castelli, sono entrato in contatto con Flavin, Judd e Morris, e in loro ho individuato artisti “classici”, esattamente come nei protagonisti della Pop art, che hanno utilizzato immagini e feticci della cultura popolare per trasformarli in soluzioni armoniche, dove la composizione e il rapporto dei colori sono realizzati attraverso i canoni di ordine, simmetria e corrispondenza. No, non è un distacco, ma un cammino verso personalità che riflettono il pensiero della creazione e valori primari dell’attività intellettuale. I minimalisti, in particolare, lavorano sulle idee, sul pensiero, sulla progettazione, più che sull’oggetto, dialogano con l’assoluto. Per i minimalisti il pensiero è il soggetto, poiché contiene l’idea della trascendenza.
La sua villa è uno spazio concreto di spiritualità, è un luogo della sapienza razionale: soprattutto la parte dei Rustici, dove si trovano le installazioni ambientali di Flavin, Irwin, Turrell e quella di Brewster, di forte impatto emotivo, quasi mistico. Non le sono mancati il contatto fisico e lo scambio intellettuale con gli artisti per vivere quel fermento creativo che deve aver condiviso con loro, al momento della realizzazione delle installazioni d’ambiente? No, perché gli artisti sono presenti con le loro opere. Le installazioni dei minimalisti hanno in comune una fortissima tensione spirituale e il desiderio di superare il contingente per avvicinarsi a qualcosa di universale, pur essendo concepite da menti razionali e laiche. L’arte minimale visualizza l’assoluto attraverso il pensiero, l’astratto, proveniente dall’alto. Mediante – per esempio – le installazioni di Flavin o Turrell, si visualizzano concetti d’immanenza che rimandano al mistero della creazione. E’ questo l’aspetto che mi interessa seguire nelle opere d’arte contemporanea.
Non le sembra che la definizione di “Minimalismo” – fenomeno nato agli inizi degli anni Sessanta come movimento di protesta contro il sistema economico – sia riduttiva per artisti che indagano l’assoluto, il pensiero e una spiritualità “laica” dell’arte?
Sì, lo penso anch’io, ma è un termine usato per indicare la ricerca di forme essenziali, geometriche, con valori spirituali.
Ma allora che cosa significa il concetto di “Arte minimalista”?
Il Minimalismo indaga sulla forma essenziale, sulle forme che dialogano con qualcosa di fondamentale e primario. Questa ricerca permette di rendere visibile i processi mentali, il pensiero che si manifesta attraverso una struttura, una organizzazione, appunto, delle forme. La forma del pensiero è la logica, e la logica nella pratica si realizza attraverso le forme geometriche e attraverso la tecnologia. Nella semplicità della geometria si trova il mezzo per rendere visibile il colloquio con noi stessi. Le forme primarie del nostro pensiero caratterizzano l’attività intellettuale. Si tratta di opere che visualizzano l’“intuizione” della trascendenza senza mai nominarla, e questa possibilità di intuirla è la cosa più “religiosa” che ci sia.
Semplificando, si può dire che l’anelito di spiritualità si intuisce attraverso la luce – naturale, come quella utilizzata da Turrell, od artificiale, come quella di Flavin: entrambi lavorano sul pensiero che riflette il concetto della luce quale simbolo della trascendenza e fonte d’ispirazione creativa -. Ma come si ricongiungono i minimalisti con il reale?
E’ importante osservare, oltre ai loro valori spirituali, l’introduzione della tecnologia nelle loro sculture, l’uso dei materiali della realtà, elaborati come risultato di una progettazione, secondo formule matematiche. L’Arte minimal comprende il pensiero della creazione e quello del fare, della pratica.
Per che cosa si caratterizza la mostra “La percezione dello spazio”, che inaugura a Verona la Gran Guardia, una nuova sede espositiva ricavata da un edificio del primo Seicento?
Proprio per lo spazio. La mia tensione costante – lo ribadisco – è volta a creare equilibrio tra l’opera d’arte e l’architettura, tra l’uomo e l’ambiente, tra il presente ed il passato, e le opere scelte per il palazzo della Gran Guardia hanno la caratteristica di dialogare con l’architettura senza essere sopraffatte dall’importanza dell’edificio storico.
Ettore Spalletti è l’unico italiano presente nella sua collezione?
No. Ho collezionato molte opere di Ettore Mochetti, ho acquistato Alfonso Frategianni, recentemente alcune fotografie di Franco Vimercati. Ho una grande stima per l’arte italiana, per i protagonisti dell’Arte povera; ma, avendo fatto una scelta precisa, preferisco essere coerente nell’approfondimento delle avanguardie che caratterizzano la mia collezione.
C’è qualche opera che rimpiange di essersi lasciato sfuggire?
Sono molte. Mi pento, ad esempio, di non aver capito in tempo la grandezza di Yves Klein e di Andy Warhol.
Che ne pensa della Videoarte?
E’ uno strumento difficile, ma quando ci sono le idee adatte, anche il video si trasforma in un’opera d’arte. Sono pochi i “classici” che usano il video, il primo è Bruce Nauman, poi Bill Viola e qualche altro.