PUOI RICEVERE GRATUITAMENTE, OGNI GIORNO, I NOSTRI SAGGI E I NOSTRI ARTICOLI D’ARTE SULLA TUA HOME DI FACEBOOK. BASTA CLICCARE “MI PIACE”, SUBITO QUI A DESTRA. STILE ARTE E’ UN QUOTIDIANO , OGGI ON LINE, FONDATO NEL 1995
Monet, il pittore considerato padre dell’impressionismo, descriveva alcuni dei suoi più famosi e bei dipinti come ‘bozzetti venuti male’ (vedi, ad esempio, qui sotto, “La Grenouillère” del Metropolitan Museum of Art di New York).
Per bozzetto si intende una piccola prova del dipinto che si vuole realizzare, eseguita dal vero, allo scopo di catturare e riprodurre le impressioni che l’artista riceveva a contatto con le luci e l’atmosfera della natura.
I maestri della Scuola di Barbizon, ispirati dall’esempio dei paesaggisti inglesi, fecero uso sistematico di questo strumento tecnico (da loro chiamato pochade) per catturare lo sfuggente accordo delle tonalità della luce in natura, che poi utilizzavano, una volta tornati in studio, per creare sulla tela una ricostruzione poetica del paesaggio, usando come impalcatura gli effetti di tonalità colte al momento.
L’utilizzo di questi ‘schizzi’ o ‘studi’ rappresenta un elemento condiviso fra tutti quei pittori che, in Francia e altrove, rispondevano alla nuova esigenza di offrire non più una semplice rappresentazione fotografica ed oggettiva della realtà, bensì le proprie impressioni, la propria esperienza emozionale e soggettiva di fronte alla natura.
Ma perchè Monet definiva bozzetti quelli che oggi noi ammiriamo come opere di assoluta completezza estetica e formale?
Il fatto è che nel XX secolo siamo giunti a definire complete anche quelle opere d’arte che, in periodi precedenti, sarebbero state considerate ‘incomplete’.
Claude Monet era consapevole del valore dei suoi bozzetti, tuttavia, come la precedente generazione di artisti romantici, pur riconoscendo l’intensità e l’autenticità della sua ‘risposta’ alla natura, avvertiva l’esigenza di cercare un equilibrio fra gli effetti evocativi del bozzetto e le qualità più solide e cerebrali dell’opera terminata. Per questo la pittura impressionista suscitò scandalo, fino al momento in cui il linguaggio non ne fu assimilato. Si dipingevano soggetti della “banalità” quotidiana – anzichè quadri di storia o di religione oppure paesaggi magniloquenti -, si stava a livello di attimo fuggitivo e di cronaca, attraverso una pittura di evocazione, priva di forma disegnativa, che, a quell’epoca era fondamentale. Si cercavano più i valori di luce dell’istante che il significato della pittura. La svolta impressionista fu pure un aperto insulto all’accademia e pertanto all’istituzione, allo Stato, della quale era emanazione.
Addio alla pittura accademica
La rivoluzione impressionista produsse, come ogni rivoluzione, del resto, un cambiamento radicale nel modo di concepire il ruolo dell’artista e la funzione della sua opera. Se la tradizione accademica richiedeva al pittore di essere fedele ella realtà, e all’arte, dunque, di offrirne una rappresentazione quasi “fotografica”, ecco che a partire dall’impressionismo si riconobbe, con sempre maggiore intensità, rispetto al passato, il potere interpretativo dell’artista, la preminenza della sua soggettività nel rapporto con i dati oggettivi, e la necessità di una ricerca intorno al mondo delle emozioni visive, cioè delle ‘impressioni’, e conseguentemente, la pittura venne finalizzata alla cattura di un istante, attraverso una tecnica meno liscia e minuziosa, e più evocativa, vibrante, addirittura materica.
L’invenzione della macchina fotografica, avvenuta intorno alla metà dell’Ottocento, aveva del resto rapidamente sgravato gli artisti dell’urgenza di operare in totale aderenza alla realtà, per rispondere al compito di documentazione a loro affidato dalla società. Ecco dunque aprirsi per l’arte un ventaglio di possibili sperimentazioni, fino a quel momento impensabili.
La grande stroncatura che diede il nome all’impressionismo
Louis Leroy,”L’esposizione impressionista”, ne Le Chiarivari, 25 aprile 1874
Oh, fu davvero una giornata tremenda quella in cui osai recarmi alla prima mostra (impressionista, ndr) sul boulevard des Capucines assieme a Joseph Vincent, paesaggista, allievo di Bertin, premiato sotto diversi governi.
L’imprudente era andato lì senza pensarci, credeva di vedere della pittura come se ne vede dovunque, buona e cattiva, più cattiva che buona, ma che non attentasse ai buoni costumi artistici, al culto della forma, al rispetto dei maestri. Ah, la forma. Ah, i maestri. Non ne abbiamo più bisogno, mio povero amico! Tutto questo è cambiato. (…) Il poveretto ansava, sragionando così, pacatamente, e nulla poteva farmi prevedere il penoso incidente che avrebbe provocato la sua visita a quella mostra.
Sopportò persino, senza prendersela di più, la vista delle Barche da pesca che escono dal porto di Le Havre di Monet, forse perché lo strappai a quella pericolosa contemplazione prima che le deleterie figurine in primo piano riuscissero a produrre il loro effetto. Ebbi purtroppo l’imprudenza di lasciarlo troppo a lungo dinanzi al Bouleoard des Capucines, pure di Monet. “Ah, ah!” ghignò “questo sì che è riuscito. Eccola qui l’impressione, o altrimenti non capisco nulla; vogliate solo dirmi che cosa rappresentano quelle striscioline nere in basso”. “Ma” risposi “sono persone che passeggiano”. “Sicché, quando passeggio per il boulevard des Capucines appaio così? Fulmini di Giove: ma, insomma, vi prendete forse gioco di me? […]”
Gettai un’occhiata all’allievo di Bertin, il cui volto era adesso di un rosso cupo. Ebbi il presentimento di una catastrofe imminente; doveva essere Monet a dargli il colpo finale.
“Ah, eccolo, eccolo!” esclamò dinanzi al n. 98. “Che cosa rappresenta questa tela? Guardate il catalogo”.
“Impressione, sole nascente”. “Impressione, ne ero sicuro. Ci dev’essere dell’impressione, là dentro. E che libertà, che disinvoltura nell’esecuzione! La carta da parati allo stato embrionale è ancor più curata di questo dipinto”. “Ma che avrebbero detto Bidault, Boisselier, Bertin, dinanzi a questa tela importante?”
“Non venitemi a parlare di quegli schifosi pittorucoli!” urlò il povero Vincent.
L’infelice rinnegava i suoi dèi […]. Il vaso, alla fine, traboccò. Il cervello classico del vecchio Vincent, assalito da troppe parti insieme, venne sconvolto del tutto Si fermò dinanzi al custode che vigila su tutti quei tesori e, prendendolo per un ritratto, cominciò a farne una critica alquanto rigorosa: “Ma quanto è brutto!” fece, alzando le spalle. “In faccia ha due occhi, un naso e una bocca. Non sono di sicuro gli impressionisti che si sarebbero lasciati andare in tal modo al particolare. Con tutte le cose inutili che il pittore ha sprecato in questa faccia, Monet avrebbe fatto almeno venti custodi”. “Se circolaste un poco?” gli disse il ritratto. “Lo sentite? Non gli manca neppure la parola. Quel pedante che lo ha dipinto ce ne deve aver messo di tempo per farlo!” E per dare al suo aspetto tutta la serietà che occorreva, il vecchio Vincent si mise a ballare la danza dello scotennatore davanti al guardiano, gridando con voce strozzata: “Hugh! lo sono nell’impressionismo in marcia, la spatola vendicatrice. Boulevard des Capucines di Monet, la Casa dell’impiccato e l’Olympia moderna di Cézanne! Hugh! Hugh! Hugh”.