“Eccellente esempio di come la fotografia e le più attuali tecnologie digitali contribuiscono ad ampliare il campo artistico e creativo, La Deposizione di Pietro Mancini, nel suo rigore compositivo e nella nitida eleganza geometrica, suggerisce rimandi e confronti con la migliore tradizione figurativa italiana. Come un novello Vitruvio del nostro tempo, l’artista disegna geometrie articolate e arcane su figure contemporanee, fotografate in pose che rimandano all’iconografia dell’arte sacra, moderni santi e pellegrini fissati in improbabili icone di domestica destinazione.
Tutta la ricerca di Pietro Mancini verte su fusioni e sovrapposizioni linguistiche, iconiche e contenutistiche, che compongono “alte tensioni” (come le definisce l’artista stesso) fortemente suggestive e foriere di significati differenti e multiformi. Se da un lato i suoi lavori – spesso pensati come “progetti” per installazioni ambientali e tridimensionali – suggeriscono l’idea di un’elevazione spirituale in un’aura di olimpica serenità, dall’altro spiazzano per l’impossibilità di decifrare i misteriosi ed arcani segni geometrici che, come guizzi dello spirito, nervosismi mal celati, assurgono a simbolo di una condizione umana transitoria, delicata e fragilissima.
Secondo Piero Deggiovanni – che si è recentemente occupato dell’artista in una mostra museale – l’opera di Mancini descrive metaforicamente un dissidio antico: l’irresolubile aporia tra spirito e materia, tra sacro e profano, tra sapere e fede; ed ecco perché, com’egli avverte, alte sono le tensioni tra inconciliabili aspirazioni di vita, descrivendo così il labile crinale tra l’uomo e ci che produce, tra uomo e smarrimento, uomo e hybris prometeica, casa tecnologica e domus poetica. La “semiocrazia occidentale”, come la chiamava Roland Barthes, è piegata da Mancini a ben altri significati ed usi che non siano Brands commerciali, spot pubblicitari, o altro ciarpame mediatico, pur adottando lo stesso linguaggio grafico: una bidimensionalità assoluta che per nasconde profondità, una profondità stratiforme e ricombinabile, in cui riconoscere una costellazione di messaggi.
Sebbene Mancini si astenga dal profferire moralistici ammonimenti, la singolare prospettiva da cui il suo occhio osserva il mondo sollecita quesiti e riflessioni sulla nostra epoca, dove la merce domina e devasta le vite e i popoli, dove la separazione dicotomica tra esigenze collettive e private, in altre parole tra capitale e quotidiano, rende la vita drammaticamente conflittuale, stentata, faticosa.
Di là da ogni significato o chiave di lettura che si vuol attribuire alla produzione di Pietro Mancini, resta l’opera, Deposizione, che ha vinto questo Premio Nocivelli nella sezione Fotografia, un lavoro elegantemente controllato e presentato con assoluta professionalità, che è valso al suo autore anche il “primo premio assoluto” nella categoria Over 25, segno che, se un lato l’arte e l’estetica dei New Media ha ormai raggiunto pari dignità con le arti più tradizionali, dall’altro rende evidente come il Premio Nocivelli sia attento e aperto a tutte le forme espressive contemporanee senza preclusioni o preconcetti.”
Intervista a Pietro Mancini
Iniziamo con una breve scheda anagrafica. Sotto il profilo della produzione artistica può specificare il suo orientamento stilistico ed espressivo?
Sono nato sul pianeta Terra a Tropea (VV) tra il 1900 e il 2000 d.C., all’età di tre anni io e la mia famiglia ci siamo trasferiti nel Lazio, e al di là della condizione di cittadino che vive in una regione dello stato italiano continuo a sentirmi un essere catapultato nel sistema solare. Penso che a volte il dato anagrafico influisca eccessivamente sul lavoro dell’artista, comprendo la necessità di “catalogare” l’artista e di conseguenza il suo lavoro in un specifico tempo di vita e di produzione artistica, e anche se solitamente questi due aspetti viaggiano parallelamente, non sempre hanno lo stesso denominatore comune.
Partirei dal fatto che stilisticamente parlando sono onnivoro, e attratto da tutte le forme espressive, sia dalle tecniche tradizionali e sia tecnologiche, ciò ha influenzato la mia ricerca e se vogliamo lo stile.
Ho sperimentato direttamente le varie discipline, certamente qualcuna in modo più approfondito, in buona misura è evidente l’ibridismo che caratterizza il mio operato, non sono fotografo ma utilizzo la fotografia, non sono un pittore ma spesso la costruzione dell’immagine ha rimandi pittorici, non sono uno scultore ma tendo a superare la bidimensionalità dell’opera, in alcuni progetti l’immagine è accompagnata da elementi che fuoriescono dall’immagine stessa, in altri l’immagine è incastonata in un habitat materico e di luce.
La poetica o esigenza del mio lavoro è dettata da tensioni interiori, che non percepisco unicamente mie, ma anche nostre, non vorrei sembrare presuntuoso ma penso che in fondo siamo molto più simili di quanto crediamo, viviamo in una società o meglio in un mondo dove all’appartenenza al “gruppo” ( senza nulla togliere all’importanza delle proprie radici) propone l’identificazione geografica, politica, religiosa, sportiva… mentre la parte profonda di noi è in cerca di un altro tragitto, più semplice, meno artificioso, libero, ma che raramente intuiamo, detta in modo spicciolo, abbiamo sostituito con surrogati la gioia e la brillantezza che accompagnava i nostri giorni, quando non ci chiedevamo chi eravamo, ma il fatto di esserci era sufficiente. Non ho indicazioni e soluzioni da raccontare, con il mio lavoro artistico ciò che tento di rappresentare è la ferita e proporzionalmente la speranza, utilizzo simbolismi sacro/geometrici che sono venuti in aiuto per descrivere, lo sgomento, la speranza, la geometria qui ha abbandonato i suoi calcoli tecnici per assumere una veste poetica messa in relazione con altri elementi compartecipanti, ed in questo ambiente d’innesti l’obiettivo non è la ormai l’obsoleta tregua o incontro tra figura ed astratto (nel caso geometrico) , ma è come la geometria possa prestarsi ancora ad altre vie narrative, come possa vestirsi di simbolismi e visioni, per raccontare di nuovo le nostre necessità, le nostre tensioni, il nostro tendere a.
Nell’ambito dell’arte, della filosofia, della politica, del cinema o della letteratura chi e quali opere hanno successivamente inciso, in modo più intenso, sulla sua produzione? Perché?
Nonostante siano molti gli artisti che stimo ed ammiro alcuni più di altri in qualche modo sento più vicini alla mia produzione artistica.
Artisti visivi: Giovani Segantini ( al quale ho dedicato alcuni miei lavori) Do Oh Suh, Caravaggio, Bill Viola, Malevic, De Chirico….e molti altri che sento vicino come poetica o come scelte stilistiche…
Cinema: Pasolini per le sue ambientazioni caravaggesche, fratelli Taviani per il loro senso italico, François Truffaut ( I 400 colpi),
per aver rappresentato l’umano in una fascia d’età dove riesce ad essere ancora intelligentemente semplice.
Letteratura: Italo Calvino per l’attenzione che ha dedicato alla bellezza in una ambientazione di peripezie umane.
Può analizzare nei temi e nei contenuti l’opera da lei realizzata e presentata al Premio Nocivelli, illustrando le modalità operative che hanno portato alla realizzazione?
In Deposizione ( opera presentata) ho lasciato che la materia del supporto (alluminio bronzato e spazzolato) fosse parte integrante del lavoro, sono attratto dall’idea che un’immagine possa trascinare con se l’elemento materico per consegnargli un incarico sacro. La Deposizione in automatico rimanda alla resurrezione, la geometria utilizzata in questo lavoro ha un valore simbolico è come se anche le forme ricordassero l’importanza del nostro “tendere” verso l’incanto, la rinascita… Ho preso in prestito iconografie sacre utilizzandole come chiave di lettura, di fatti il mio intento non è ne religioso e ne spirituale, credo che a prescindere dai credi e non, la necessità di chiarezza e di apprezzamento verso la vita sia un’esigenza naturale, come mangiare o dormire.
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