di Enrico Giustacchini
[S]i fa presto a dire “Rosso Tiziano”. Non è tanto questione di definizione. Certo, non è agevole raccontare quanto l’occhio ti rimanda. L’incasellamento nei rigidi codici dell’alfabeto risulta inadeguato; patetici gli sforzi di restituire la vertigine dei sensi secondo le pur illimitate combinazioni della scrittura. E pur tuttavia, una definizione non è a priori impossibile. Forse insufficiente, magari mediocre negli esiti, senza alcun dubbio parziale, e soggettiva. Non impossibile, però. Si può cimentare, nell’impresa, il poeta. O – perché no – il giornalista. Ma in fondo chiunque, qualsiasi visitatore di mostre o musei folgorato dall’impatto con una tela del Vecellio. A definire quel Rosso – ciascuno a suo modo – ci si può provare. Il problema è un altro. Il problema è capire – guardando un quadro di Tiziano – come funzioni l’accostamento tra quel Rosso e i suoi fratelli colori. Per quale diabolica legge quel Rosso non soltanto riesca ad attrarre magneticamente su di sé lo sguardo, ma possa, nel contempo, mutare la realtà all’intorno. Cosicché un lembo di mantello, una manica di giubba, una piuma di cimiero assumono da un lato il ruolo di fuochi d’attenzione, di calamite per la pupilla, di strumenti dell’umana ammirazione; dall’altro sanno, magicamente, sottoporre a metamorfosi cromatica tutto quanto li circonda. E dico proprio “metamorfosi”: perché un azzurro non è più lo stesso azzurro, quando s’imbatte nel “Rosso Tiziano”; un verde, quel verde, non si riconosce più; quel rosa è in piena crisi d’identità. E non s’è mai veduto un cielo così luminoso, né chiome arboree così rapitrici, né pelle di femmina così conturbante. Il piccolo grande universo racchiuso entro la cornice è la prova lampante della possibilità dei miracoli. Anche Missoni – è notorio – ama il colore rosso. Anch’egli – come i pittori d’un tempo, Tiziano in primis – ha abbastanza dell’alchimista. Ho visitato il suo studio-rifugio-bunker, ho visto come lavora, inventando per accostamenti di sfumature che s’allineano incalzandosi sulla carta. Ecco (ho pensato): questo è l’alfabeto giusto, per raccontare certe cose, per aprire squarci in certi misteri. Polverizzare i pigmenti – dentro mortai veri o metaforici, poco importa -, per poi ricomporli a scopi sommi, elevandoli dalla contingenza della tecnica e della sapienza lambiccatrice fino all’unicità del genio: questo il cammino da compiere, questo è il cammino compiuto. Ha ragione Flavio Caroli, quando scrive che “Missoni è ‘pittore’, nel senso più pieno della parola”; poiché “conosce e pratica i segreti dell’impasto cromatico, delle velature, delle lumeggiature, con l’istinto di una pratica immemorabile; l’istinto archetipico dell’espressione per via di linee, luci e colori, che coincide con l’essenza – storica e mitica nello stesso tempo – dell’esercizio pittorico”. Ed ha ragione quando aggiunge che “il tonalismo è la luce. E la luce è la qualità più intima, più geniale della tessitura missoniana”; per cui “Missoni ha fatto del tizianismo”, usando come protagonisti della sua tavolozza le tiepide morbidezze della lana. Ammirando le creazioni del grande stilista, viene spontaneo esclamare, con Diana Vreeland: “Chi ha detto che esistono solo i colori?”. In questo ineccepibile elogio del tonalismo, della capacità di colloquio tra le differenti cromie, e della proprietà commutante e sublimatrice insita in tali contiguità, sta forse una prima risposta alla domanda cruciale: a proposito di “Rosso Tiziano” e di altri rossi ancora, a cominciare da quelli che, inimitabilmente, ci elargisce Ottavio Missoni.