Quando Tiepolo dipinse una racchetta e la fine di un amore tra uomini

Un quadro tragicomico, come un melodramma. Un conte tedesco, nei panni di Febo, gioca a tennis; fa un lancio lungo e uccide il suo giovane amante nelle vesti di Giacinto. Una metafora per piangere la fine di un rapporto e dichiarare la propria colpa

[T]utto inizia con un’immagine mitologica. “Febo e Giacinto si spogliano, e luccicanti di succo di grassa oliva cominciano una gara di lancio del disco, del disco dalla larga superficie. Per primo Febo, dopo averlo librato, lo fa volare in aria. (…) Subito, senza fare attenzione, il fanciullo del Tènaro si avvia di corsa a riprendere il disco: ma ecco che la terra dura proprio contro il tuo viso lo fa rimbalzare, Giacinto! (…) Te celebrerà la lira percossa dalle dita (dice Febo), te celebreranno i miei canti e, nuovo fiore, tu porterai scritto su di me il mio lamento. (…) Il sangue che sparso al suolo ha rigato il prato ecco che non è più sangue, e un fiore più splendente della porpora di Tiro spunta e prende la forma che hanno i gigli: solo che è rosso, mentre il giglio è argenteo”.

Questa è la tragica storia di Apollo e Giacinto, narrata nel X libro delle Metamorfosi di Ovidio. Un redivivo Febo dovette sentirsi il conte Guglielmo di Shaumburg-Lippe quando il destino lo privò del suo amante ispanico, un buon direttore d’orchestra e un appassionato giocatore di tennis: in suo ricordo, infatti, il nobiluomo commissionò a Giambattista Tiepolo – che in quegli anni era in Germania per la grande impresa pittorica di Wurzburg – un dipinto che rappresentasse una versione aggiornata dell’episodio riferito dal poeta latino. Ecco il motivo per cui nella tela, risalente al 1752-53, il disco viene sostituito da racchetta e pallina, rappresentate in primo piano a destra, mentre sullo sfondo si scorge una rete.

Giambattista Tiepolo, La morte di Giacinto. Nei riquadri, la racchetta e la rete.
Giambattista Tiepolo, La morte di Giacinto. Nei riquadri, la racchetta e la rete.

Il nobiluomo tedesco a quei tempi aveva ventotto anni e una cultura inglese, essendo nato a Londra, dove il padre aveva un incarico importante presso la corte di Giorgio I e Giorgio II di Hannover.

Studi ginevrini, Guglielmo amava la musica, la pittura, il tennis – che praticava con grande passione e con ottimi esiti – e gli uomini. A ventidue anni, in una lettera, descrisse un proprio amico ungherese “come l’altra metà di me stesso”. L’incontro con lo spagnolo che gli avrebbe ispirato l’idea del quadro raffigurante gli esiti di una ferale partita a tennis sarebbe avvenuto successivamente.

Ecco come andò la vicenda. Egli rapì a Vienna una stella del teatro. L’attrice-cantante era legata a un direttore d’orchestra spagnolo. Il conte portò l’attrice a Venezia, dove visse con lei e con l’altro; poi i tre si trasferirono a Londra. Il direttore d’orchestra morì nel 1751. Quindi il dolore era ancora recente quando il conte pensò di trasfigurare la propria vicenda d’amore in un mito classico nel quale faceva irruzione la modernità dello sport.

Ma com’era possibile pensare che il lancio di una palla avesse effetti letali? A quei tempi le palline non erano elastiche, ma di cuoio pesante e i tiri, se molto tesi e diretti al corpo dell’avversario, potevano provocare lesioni interne gravissime. Sempre nel 1751 il principe di Galles era morto proprio a causa di un’emorragia interna provocata da una palla che gli era stata lanciata all’altezza dello sterno, durante una partita. E non è escluso che il conte avesse tenuto anche conto di questa notizia; il suo amante era un appassionato di tennis e il principe aveva perso la vita, come detto, nello stesso anno; lui era un grande giocatore, ammirato universalmente, al punto che l’imperatore, assistendo a una sua partita, si era alzato gridando con entusiasmo: “Bravo conte della lippa!”. Per questo l’allegoria dell’amore perduto viene tutta giocata in un ambiente mitologico-tennistico.

L’amante di Febo, “frodato del fiore della giovinezza”, giace al suolo, esangue: il volto pallido, etereo, incorniciato da una folta chioma dorata, e il fisico marmoreo che incarna l’ideale classico della bellezza; ma una bellezza che il volto dichiara in ambiguità, vagamente femminea. Accanto, il dio del sole che, divorato dal senso di colpa (è stato lui a sferrare il colpo fatale), si dispera con fare teatrale: come un attore consumato si getta sul corpo esanime di Giacinto il cui capo, divenuto greve, ricade sull’omero del dio, simile ad un fiore cui è stato spezzato il gambo.

Ad accrescere la pateticità della scena, un amorino accorre trepidante ad assistere i due amanti; a sinistra invece è ritratto un gruppo di uomini dallo sguardo austero: evidente il richiamo all’episodio della Deposizione di Cristo, come suggerisce anche la presenza di una piangente con le braccia sollevate al cielo. La severità degli anziani stride con la natura tragicomica dell’evento: forse si tratta di un’allusione ai doveri divini di Apollo, in antitesi con l’amore carnale e i piaceri mondani evocati dal pappagallo collocato sull’architettura marmorea in alto a destra, oltre che dagli stessi protagonisti dell’opera. Un contrasto, questo, ribadito anche a livello cromatico: per rappresentare gli spettatori, in penombra, Tiepolo sceglie colori opachi e spenti, mentre accende di colori e di luce il gruppo Apollo-Giacinto-amorino, significativamente disposto a destra, nell’altra metà del quadro.

La conferma può essere desunta dalle stesse pagine del capolavoro ovidiano: il poeta scrive che, in seguito alla scomparsa dell’amato, Febo, dimentico di se stesso, abbandonò cetra e frecce, piaceri mondani, e si mise a “trasportare le reti”, “ad andare con i cani al guinzaglio”, conservando intatto l’amore per Giacinto. “Comunque, tu (Giacinto) ora sei eterno, e ogni volta che la primavera ricaccia l’inverno e l’Ariete succede ai Pesci acquosi, ogni volta risorgi e rifiorisci sulla verde zolla”.

La sovraesposizione teatrale dei fatti rende, come dicevamo, tragicomica la vicenda, nel convergere singolare di modernità e di antichità, anche se Tiepolo dà pittura alla pittura, e riesce in ogni caso a portare la narrazione a un livello superiore. Il quadro restò nel palazzo del conte, che nel frattempo si distinse nell’attività militare. Scrisse anche alcuni trattati di strategia bellica, buona parte dei quali occupati dalle istruzioni per tentare di evitare la guerra.

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