di Lionello Puppi
Sono convinto che Andrea Palladio non ambisse affatto ad essere ritratto, e che non di buon grado, ed anzi con qualche insofferenza, si esibisse al pittore che avesse avuto in animo il proposito di fissar sulla tela l’immagine delle sue fattezze. Così come nelle pagine del suo trattato de I Quattro Libri dell’Architettura s’era preoccupato di espellere ogni riferimento alla propria biografia reale per sostituirvi i tratti di un’autobiografia ideale – che sbalzasse il magistero di chi, “da naturale inclinazione guidato” e attraverso lo studio indefesso della lezione degli Antichi, aveva saputo restituire ai Moderni la leggiadria e la magnificenza oscurate da una lunga e cupa notte di barbarie -, gli sarebbe semmai forse piaciuto che di sé fosse tramandato al futuro un aspetto trasfigurato, magari nella parvenza eroica romana assunta dai membri e colleghi dell’Accademia Olimpica nelle statue del maestoso proscenio del loro teatro, che lui stesso aveva disegnato: ch’era stata, veramente, una chance ventilata ma, poi, seccamente accantonata dalla superbia aristocratica dei più tra gli esponenti di quel consesso accademico. Va però riconosciuto che, qualora una simile aspirazione Palladio avesse coltivato, i posteri comunque l’appagarono, ma solo perché, ritenuta smarrita e introvabile la vera imago dell’architetto – che ostinatamente e vanamente era pur stata ricercata, anche sulla fede del Vasari il quale assicura che un ritratto di Palladio sarebbe stato eseguito dal pittore Orazio Flacco -, era forza confezionarne una immaginaria.
Ed ecco, quindi, che su istigazione di Giacomo Leoni, dall’antiporta del primo dei suoi volumi dedicati a L’architettura di Andrea Palladio (1715), traborda, a ridosso dello schieramento di squadra, righello, compasso e filo, la mezza figura di un uomo giovane e imberbe, dallo sguardo intenso, fiero e spavaldo, che una didascalia mendace addita come “Andreas Palladius Vicentinus” e attribuisce a disegno di Paolo Veronese, mentre fu invenzione fantastica di Sebastiano Ricci per il bulino di Bernard Picart. Ed ecco, ancora stagliarsi una sorta di edicola, su richiesta di lord Burlington per il frontespizio del volume dedicato alle Fabbriche Antiche disegnate da Andrea Palladio (poco dopo il 1730), William Kent e il Fourdrineir confezionare il finto busto marmoreo di un uomo maturo dal volto assorto e pensoso e col capo calvo coperto da una specie di papalina: personaggio, una volta di più, immaginario; che verrà replicato poco dopo dallo scultore Michael Rysbraeck in un vero busto oggi a Chatworth e in una statua a figura intera adesso a Chiwick.
L’irreperibilità della vera imago, tuttavia, continuava a bruciare e, ovviamente, non dava pace ai protagonisti, britannici avanti tutti, e, tra costoro quel Joseph Smith che, console presso la Serenissima, aveva raccolto nel proprio palazzo sul Canal Grande un cenacolo votato agli studi palladiani e animato dall’ambizione di risuscitare all’attualità la lezione del maestro veneto. Aveva commissionato alla raffinata tipografia di Giovan Battista Pasquali la realizzazione di un fac-simile esatto, quasi falso, della princeps de I Quattro libri dell’Architettura, che uscirà nel 1768; ad introdurla aveva chiesto a Tomaso Temenza una biografia di Palladio (che uscirà, però, come fascicolo indipendente, nel 1762, e confluirà nelle Vite degli architetti stampate nel 1778); a campirne l’antiporta, smaniava di presentare la vera imago dell’architetto. Bisognava trovarla ad ogni costo, e sarà trovata: alla fin dei conti, bastava procacciarsi un quadro d’epoca e di buona qualità su cui fosse ritratto un qualche innominato personaggio che avesse le psique du rôle ( o quello che si poteva immaginare fosse l’aspetto confacente) ed identificarlo con un’iscrizione posticcia, modellata su stereotipi autentici.
Non spremo mai se sia stato lo stesso console Smith ad ordinare ad un abile falsario di inserire sull’angolo sinistro di un ritratto di un giovane siglato e datato MDXLI da Bernardino Licino, la scritta apocrifa: ”ANDREAS/PALLADIO/A/ANNOR./XXIII”, o se sia stato un astuto contraffattore ad imbrogliare l’inglese. Sta di fatto che l’identificazione vien presa sul serio, e il dipinto, quale veritiero ritratto del Palladio, prima di passar nelle raccolte reali britanniche di Winsor Caste (trovasi oggi a Hampton Court, dove, ancora nel 1957, il Bereson lo elencava come “portrait” di Andrea…), sarà riprodotto, e diffuso, in un’incisione di Pietro Monaco, che avrebbe dovuto aprire il fac-simile succitato dei I Quattro Libri. E non solo, poiché il falsario, in vena di strafare, aveva pensato bene d’assegnare al giovanotto che la sua scritta posticcia contrabbandava per Palladio, l’età di ventitré anni che, rapportata alla data autentica MDXLI marcata sulla tela col nome di Licinio, spostava la cronologia della nascita dell’architetto dieci anni dopo il 1508 attestato dal primo biografo di Andrea, Paolo Gualdo, sin dal 1617, trovando financo il credito di un Temenza e di altri storici, e accendendo insomma una diatriba che avrà strascichi paradossalmente più lunghi della credibilità di cui riuscì a godere il ritratto fasullo. In effetti, e malgrado la presumibile riluttanza dell’interessato, la vera imago di Palladio, vivendo il maestro, qualcuno l’aveva fissata sul serio e, se il ritratto del Flacco garantito dal Vasari continuava (e continua) a restar latitante, era pur venuto alla luce chissà da quali oscuri anfratti ov’era stato presto confinato e dimenticato, quello che aveva dipinto – e non si sapeva – un vecchio e buon amico di Andrea Giambattista Maganza: che, magari, nell’esecuzione, aveva lesinato un poco il suo talento (di ben più elevata qualità è, ad esempio l’Autoritratto che il duca Cosimo III smanierà per assicurare, sul finire del ‘600, alle collezioni medicee); ma non importa.
L’aveva scovato presso i Capra, in una stanza della celeberrima “Rotonda”, Francesco Muttoni mentre era impegnato a realizzare la monumentale impresa editoriale dedicata all’Architettura di Andrea Palladio Vicentino; s’affretterà a farlo riprodurre da Francesco Zucchi in un’incisione che pubblicherà nel terzo tomo di quel suo lavoro impresso a Venezia dallo stampatore Pasinelli nel 1741. Il piccolo dipinto (olio su tela, 80 x 50 cm) è giunto a noi e, depositato presso il Museo Civico di Vicenza, è esposto oggi nell’antiodeo del Teatro Olimpico. Palladio vi appare –annota Camillo Boito – “ nell’età matura. Barba piuttosto corta ricciuta, baffi abbondanti, (…) una corona bassa di capelli alla maniera fantesca; affatto nudo nell’alto capo, le orecchie un po’ grandi; la fronte solcata da rughe, il naso dritto con narici ampie; gli occhi spalancati, fissi, come d’uomo che mediti senza passione (…). L’abito di una persona modesta, da artefice; l’espressione delle faccia ha un po’ dell’impacciato (…). Stringe un compasso con la mano destra che ha srotolato un foglio su cui campeggia la scritta: ”ANDREA/PALLADIO/ARCHITET[T]O/VICENTINO/1576”. Non staremo qui ad arzigogolare attorno all’occasione che poté aver suggerito l’esecuzione del ritratto (forse, la celebrazione di giochi “a honor del gran “Hecole” e per lo spasso di quanti – patrizi e ambasciatori degli Stati esteri, signori d’ogni rango – erano riparati tri i Berici nell’autunno del 1576 a fuggir la peste che infuriava a Venezia, e, progettista Palladio, era stato “ inalzato un circo”, “nel gran campo di Marte” e “con stupor del mondo”, per la corsa dei cavalli): va, piuttosto, constatato che esso costituirà, a partire dalla sua sollecita divulgazione a stampa, la referenza esclusiva e insindacabile per ogni tentativo a venire a rintracciare altri, eventuali ritratti di Andrea: se continuerà, d’inerzia, ad esser riproposto, con mille variazioni di positura, in incisioni, pitture, marmi, bronzi, simo al Novecento (ne ha compilato l’inventario una giovane studiosa, Raffaella Piva, prematuramente scomparsa), il suo reperimento aveva autorizzato, offrendo un orientamento sicuro, il perseguimento d’altre testimonianze della vera imago del Palladio. E ci saranno sorprese. Tralasciamo di indugiare sul volto dell’architetto fissato su una tela – da Francesco dal Ponte? Dal fratello Leandro? – emersa circa vent’anni or sono dai depositi del Museo Civico di Vicenza ed esposta adesso nell’antiodeo del Teatro Olimpico accanto al caposaldo di Maganza: o disegnato da Federico Zuccari, forse nell’occasione dell’incontro con Andrea in Venezia all’inizio del 1565, su un foglio oggi presso lo Snite Museum of Art dell’Università di Nôtre-Dame di New Orleans; o affacciato da Giannantonio Fasolo in una affresco di Villa Caldogno a Caldogno; e concentriamoci sulla rivelazione più stupefacente.
Si tratta di un ritratto di una figura maschile stante, ripresa di tre quarti: veste un semplice abito scuro, da borghese, con mantello, anch’esso scuro, buttato alla buona sulle spalle, il colletto bianco della camicia fuori dal giubbotto quasi ad incorniciar la barba corta e nera; una gran pelata, abbastanza grandi le orecchie, narici larghe, sguardo ed espressione della faccia un poco impacciati, come il gesto della mano destra sporta appena in avanti, mentre la sinistra preme uno spesso libricino in sedicesimo poggiato su una sorta di mensola. Un gran bel ritratto, e la sua storia esterna assicura che fu assai apprezzato dai collezionisti: era stato, in effetti, nelle raccolte di Rubens per passare in seguito alla loro dispersione all’incanto nel 1641, a quelle di Michele Comte de Vence e, da queste ultime acquistato dal mercante d’arte Morel l’11 febbraio 1761, ai sovrani di Danimarca che, due anni dopo lo ricoverarono nel castello di Christianborg per trasferirlo, quindi e alfine, nel Museo Reale di Copenhagen, dove attualmente è custodito. Ma chi ne è l’autore? Chi è il personaggio ritratto? Rubens era convinto si trattasse di un autoritratto di Tintoretto; e come opera del Tintoretto, ma di soggetto non riconoscibile, passava dal De Vence al Morell e a Christianborg. Del 1898 sarà un primo coup de thèatre, quando K. Madsen scopriva sul margine inferiore destro della tela (116 x 98 cm le sue misure) la segnatura in capitali greche di Domémikos Theotokòpoulos – che diverrà, a partire dal suo trasferimento in Spagna, tout-court El Greco -; di poco meno di trent’anni appresso, un secondo colpo di scena, allorché J. F. Willumsen, nel suo saggio rivoluzionario su La jeunesse du peintre El Greco, pubblicato a Parigi nel 1927, a capo di un confronto serrato con la referenza maganzesca, nel suo personaggio ritratto riconosceva le fattezze di Palladio, scartando precedenti proposte di identificazione con l’erudito napoletano Giambattista della Porta, di fatto insostenibili nel confronto con fonti iconografiche sicure. Dunque, El Greco, giacché la firma non lascia dubbi; dunque, Palladio? L’identificazione, accettata da J. Camòn Aznar nella sua torrenziale monografia Dominico Greco edita a Madrid nel 1950, e rilanciata da chi scrive nel lontano 1976, non ha, veramente, riscosso consenso unanime, e v’è chi ha preferito lasciare nell’anonimato il personaggio ritratto, riconoscendovi, genericamente, ora uno studioso, ora una studioso ebreo, ora un architetto e basta; o chi la propensione ad ammettere che di Palladio si tratti ha moderato e temperato, accompagnandone l’espressione ad un prudenziale punto interrogativo. In realtà, l’esito sostanzialmente positivo, ancorché non del tutto scevro di piccoli scarti e sfocature, dal controllo fisionomico sul testo del Maganza, trova conforto nel fatto – che parecchi indizi inducono ad ammetterlo – che un incontro personale del Theotokçpoulos con Palladio poté avvenire, ed è proprio il primo ci autorizza a sospettarlo. Non solo, infatti, postillando passi dei Commentari vitruviani di Daniele Barbaro nell’edizione princeps del 1556, che possedeva, e delle Vite di Giorgio Vasari nell’edizione giuntina del 1568, che del pari arricchiva la sua affollata biblioteca toledana. Doménikos lascia intendere che i cantieri palladiani, di Venezia ma puranco di Vicenza, li conosceva bene, ma giunge a proclamare esser Andrea il “mayor arquitecto de nuestro tiempo”. Ed è il tono, pur nell’assenza di un’affermazione esplicita, fermo e quasi perentorio, delle espressioni di consenso, che legittima la convinzione che non si trattava di un giudizio scaturito dalla mera esperienza delle opere. Si fiuta, si annusa – se possiamo dir così – che ci doveva essere stato qualcosa di più: un incontro, qualche conversazione, ché di architettura, e quanto meno al livello delle teorie, il Thetokòpoulos doveva saperne abbastanza. Certo: è difficile, anzi impossibile, allo stato attuale delle nostre labili conoscenze dei movimenti e dei rapporti personali del pittore candiotto a Venezia, immaginare le circostanze dei suoi incontri con Palladio e, poi addirittura, dell’occasione allorché qualcuno poté chiedergli di ritrarre Andrea; e lo metterà in posa, non già come architetto che esibisce l’armamentario della professione, ma come studioso che rivendica la propria sovranità nel possesso del sapere, designato dal libro. Sul quando, viceversa, potremmo sbilanciarci, persino rettificando l’ostinato convincimento già pronunziato e ribadito sino alla scheda che abbiamo redatto nel catalogo della mostra che in Palazzo Barbaran da Porto a Vicenza, celebrò nel 2008 il quinto centenario della nascita di Palladio. Non – dunque – nel corso del secondo soggiorno veneziano, tra il 1573 e il 1576, del Theotokòpoulos, ma alla conclusione del primo: magari, poco prima di partire, nell’autunno el 1570, per Roma dove Giulio Clovio lo presenterà al cardinal Alessandro Farnese, non solo come “raro nella pittura” ma quale abilissimo ritrattista (“ha fatto un ritratto di se stesso che fa stupire tutti questi pittori di Roma”). E, a guardare il ritratto che, poco più tardi Doménikos farà proprio al Clovio i conti tornano. D’altra parte, potremmo spingerci ad avanzare, in forma di quesito, una non irrilevante osservazione. Perché il “pittor greco” fa poggiar la mano del suo modello sopra un libricino (che potremmo riconoscere come un volumetto ricucente insieme gli opuscoli palladiani de L’antichità di Roma e de Le chiese di Roma), anziché sull’in quarto del trattato dei I Quattro Libri? Ovviamente perché – è sin troppo facile rispondere – le pagine del trattato de I Quattro Libri erano ancora sotto i torchi dello stampatore o, impresse, tra le mani del rilegatore. La dedica dei primi due libri a Giacomo Angarano reca, infatti, la data dell’1 novembre 1570.
Tiriamo le somme, per concluderne che della vera imago – e sarà pur stato riluttante Andrea a far tramandare ai posteri il suo aspetto fisico – i documenti sembrerebbero non far difetto, riservandoci, anzi, una sorpresa fascinosa. Il pittore tra i sommi di ogni tempo ritrae l’architetto alla sua volta tra i più grandi personaggi di ogni epoca. Non siamo però così superficiali e fatui da dimenticare che i traguardi attinti, e il più ambizioso in primo luogo, sono conseguiti sul terreno fragile dei raffronti di somiglianza e degli indizi non dimeno plausibili: là dove l’involontaria forzatura soggettiva dei dati è rischio ineluttabile. I visitatori dell’esposizione palladiana del 2008 a Vicenza hanno avuto la ventura di ammirare l’enigmatico ritratto del Greco che, per l’occasione, ha lasciato il Museo Reale di Copenhagen dopo che ve n’era uscito solo un’altra volta più di quindici anni fa per raggiungere Atene. Non avranno mancato di dire la loro, anche se ad essi è stata negata la verifica diretta sulla testimonianza certa del Magonza ( dipinto che è stato esposto più tardi, nella mostra palladiana in Venezia).