di Federico Bernardelli Curuz
Immaginiamo una bottega simile a un basso napoletano, negli spazi angusti della città medioevale: bambini che gridano, madri che li inseguono, lavoranti ilari, pittori all’opera, colle animali in ebollizione, sacchetti di terre che si sfarinano sul pavimento, consentendo ai cani di lasciare impronte colorate sulle scale.
Tale arruffio caratterizzava l’atelier casalingo di Sandro Filipepi (Firenze, 1445-1510) detto Botticelli in onore del fratello Giovanni al quale era stato affibbiato quel soprannome, fino ad allora l’esponente più in vista del casato dei conciatori, colui il quale, lasciando il cuoio dell’officina paterna, si era fatto onore nella mercatura, specializzandosi nel campo della consulenza patrimoniale e nell’intermediazione economica nei contratti matrimoniali.
L’immaginazione non deve correre sbrigliata nel ricercare il rumore caotico e allegro della bottega botticelliana, almeno negli anni degli esordi e del successo pittorico, prima cioè che il vento dell’economia voltasse in un altro luogo, lasciando il pittore, nell’estremo degli anni, così povero che gli eredi giudicarono prudente rifiutare la scarna eredità per non essere costretti a digerire il boccone amaro dei debiti.
La famiglia Filipepi di Mariano Vanni galigaio – quest’ultimo sostantivo significa, appunto, artigiano del cuoio – era numerosissima, e Botticelli, almeno nel primo periodo, lavorava in una casa popolata di fratelli, cognate e nipoti, mentre nell’edificio accanto, ruotavano le pulegge infernali di un tessitore, che rendevano le notti insonni e i giorni grevi di rumorose vibrazioni. Ciò emerge dall’accuratissima ricostruzione compiuta da Alessandro Cecchi in un ponderoso ed elegantissimo volume dedicato all’artista, nel quale la serietà minuziosa delle indagini archivistiche è associata a una penetrante lettura dei dipinti, finalizzata a delineare, oltre al percorso esistenziale e artistico del pittore, l’humus sociale e culturale da cui fu generato. Un’esplorazione che trae alimento anche dai censimenti, dalle polizze d’estimo, dai contratti d’affitto, dalle lettere e persino dalle denunce segrete di anonimi cittadini che accusarono il pittore di inclinazioni sodomitiche. Discutiamo attraverso la ricostruzione compiuta da Cecchi, la bottega nella quale si muoveva un pittore la cui personalità, orientata alla facezia e all’ironia, era assai distante dagli esiti eterei della sua pittura bagnata di neoplatonismo ficiniano, frutto di serrati confronti iconologici con filosofi e poeti della corte medicea. Aspetto, questo che fornisce ulteriore conferma del fatto che Botticelli si trovò, soprattutto rispetto ai suoi celebri dipinti, ad essere regista che traduceva in immagini una sceneggiatura da altri vergata.
“Sandro, – scrive Cecchi – come altri artisti del suo tempo, dovette lavorare pertanto in una notevole confusione, accresciuta dalle chiacchere dalle burle e dalle celie dei garzoni che, secondo la prassi, avevano ottenuto da lui vitto e alloggio per le loro prestazioni e dovevano risiedere in bottega o nella casa, e dai clamori e dagli schiamazzi di una vita frequentata e densamente abitata, in una città popolosa come Firenze, ove si viveva “a strati” e gli opifici si mescolavano alle abitazioni”. Un melange che è speculare alla natura assai svariata dei lavori affrontati dall’équipe botticelliana, considerato il fatto che la bottega affrontava una produzione ad ampio ventaglio, “dai colmi di camera e pitture di cassoni, dalla pitture profane o devozionali, ripetute, anche in serie, alle pale d’altare di medie dimensioni per giungere ai ritratti, ai disegni per tarsie, ricami e incisioni o illustrazioni di libri. Le opere che sicuramente Sandro, contornato di collaboratori, non avrà potuto eseguire nei ridotti spazi della sua bottega dovettero essere tavole di grandi dimensioni come la stessa “Primavera”, degli Uffizi, verosimilmente dipinta in qualche villa suburbana di Castello”. Altre fonti, oltre a quella vasariana, -“Dicesi che Sandro era persona molto piacevole e faceta e sempre baie e piacevolezze si facevano in bottega sua, dove continovamente tenne a imparare infiniti giovani, i quali molte giostre e uccellamenti usavano farsi l’un l’altro” – confermano l’alto tasso di allegria che dominava questi ambienti permeati da un’atmosfera che, se lasciata a se stessa, avrebbe prodotto certamente una pittura satirica e burlesca e che, comunque – come vedremo – avrebbe pubblicamente lasciato qualche concrezione grottesca.
Dicevamo di altre testimonianze. E’ il Poliziano, il grande poeta che tanto dovette influire, a nostro giudizio, sulla stesura dell’impianto semantico-iconografico della “Primavera”, a dare conferma della natura scherzosa di Botticelli, che si divertiva anche a intrattenere gli amici con divertenti giochi di parole. Nei “Detti piacevoli”, l’illustre autore de “Le Stanze”, narra, tra l’altro, del giorno in cui l’artista venne messo alle strette da messer Thomaso Soderini che lo invitava a prendere moglie. Botticelli rispose che una notte aveva sognato di sposarsi e che il sogno l’aveva così spaventato che, temendo di ricadere nell’incubo, “andai tutta notte a spasso per Firenze come un pazzo, per non havere cagione di raddormentarmi”. Da questa allegra sceneggiata messer Thomaso capì che “non era terreno per porvi vigna”. Cecchi riprende poi, dalla fonte vasariana, la narrazione dello scherzo che ebbe come oggetto un ex allievo del pittore, il Biagio, che aveva prodotto un tondo. Il dipinto doveva essere venduto, sicché fu portato nella bottega del maestro. In breve giunse il compratore che prenotò l’opera. A quel punto, però, Botticelli e Jacopo, un aiuto, concordarono con il cliente uno scherzo ai danni dell’autore. Nel corso della notte, furono ritagliati nella carta alcuni cappucci rossi, simili a quelli indossati dai consiglieri civici ella Signoria, i quali vennero incollati sulla testa degli angeli che circondavano la Madonna. In mattinata giunsero autore e acquirente. Biagio ebbe l’impressione di svenire nel momento in cui vide il quadro così trasformato, ma sentendo che il dipinto veniva solennemente elogiato dal “collezionista” decise di tacere per portare a termine l’affare. E ciò avvenne in un’atmosfera surreale. Non appena fu possibile, Botticelli tolse, senza farsi vedere i cappucci. Biagio penso d’essere vittima di un’allucinazione, come gli venne fatto credere anche dal maestro e i garzoni. Ma la burla più artistica – perché strettamente collegata, e in modo imperituro, a un’opera d’arte – è quella compiuta nel “Sant’Agostino”, dipinto ad affresco attorno al 1480 nella Chiesa di Santa Lucia d’Ognissanti. Cecchi fa rilevare al lettore un periodo di senso compiuto all’interno delle “finte scritte del libro aperto sullo scaffale sopra il quadro”. Botticelli – o un allievo, che dovette ricevere certamente la sua approvazione – scrisse: ”Dov’è fra Martino? E’ scaphato. E dov’è andato? E’ andato fuor dela Porta al Prato”. Secondo Cecchi la frase si riferisce a “qualche frate Umiliato che, tentato dalle cose terrene aveva visto vacillare la propria vocazione, dandosi alla fuga e guadagnando la campagna fuor dalle vicine mura cittadine”. (Alessandro Cecchi, Botticelli, Federico Motta editore)