La tecnica dello sgraffiato, particolarmente raffinata negli esiti, era un tempo utilizzata per produrre l’effetto delle stoffe sulle sculture. Oggi può essere un’ottima idea se applicata ai dipinti o ai disegni di stoffe
di Mariella Omodei
La tecnica dello sgraffiato o estofado de oro, dal catalano estofar che significava, per i doratori del tempo, raschiare con un punteruolo il colore steso sulla doratura, era molto utilizzata nelle decorazioni della scultura lignea policroma. L’origine di questa ricca modalità sembra partenopea, quanto la diffusione del nome spagnolo della tecnica, giacché i campani, in seguito alla dominazione spagnola, si misuravano fittamente con la cultura iberica. Da qui discende la definizione di estofar, che appunto a quel mondo si riferisce. Da Napoli, poi, parecchi artisti partirono per altre località diffondendo la tecnica anche se questa decorazione su scultura si troverà in secoli e periodi diversi, diffusa in tutta Italia, in Europa ed in Spagna. La finalità dello sgraffiato era riprodurre e riproporre tessuti damascati, ricostruendoli illusionisticamente sulla scultura, arricchendo ed impreziosendo notevolmente le opere lignee. La tecnica è stata rilanciata nel Novecento, nell’ambito dell’arte moderna, con il termine francese grattage.
I disegni che venivano utilizzati, in antico, per decorare le figure riprendono quasi fedelmente le trame delle stoffe e, in altri casi, dove l’elemento decorativo configurato del graffito risulta più semplice, erano motivi di fantasia. La ricchezza delle finte stoffe era legata all’abilità dell’esecutore e dai fondi messi a disposizione dalla committenza; certo è il fatto che anche queste decorazioni seguivano, come veri tessuti, le mode del tempo e gli apparati simbolici dell’epoca. Un esempio? I tessuti raffiguranti la melagrana, spesso utilizzati nel Rinascimento, trasponevano sulle “Stoffe lignee” una precisa simbologia legata al concetto di eternità. Nella scultura sarda, molto frequente era la presenza tramata del fiore del cardo spinoso, simboleggiante la passione di Cristo; c’era poi una serie di altri disegni che rientra nella categoria “a schema fisso”: grafie e segni ripetitivi racchiusi ad esempio in riquadri – utilizzati nel XVI secolo -, mentre nel periodo barocco diventano a “schema libero”, più ricchi ed elaborati, consoni alla moda del periodo.
In Spagna – naturalmente – ed in varie zone del Sud America, dove forte è stata l’influenza spagnola, è riscontrabile un grande utilizzo della foglia d’oro e della tecnica a graffito. Con l’uso di diversi colori e disegni, l’artista riusciva a dare, con un’intensa resa realistica, un soffio illusionistico ai vari indumenti intagliati sulla scultura lignea; l’intervento poteva essere esteso completamente ai panneggi della figura o dare evidenza di stoffa semplicemente al manto, alle bordure dell’abito o ai risvolti delle maniche, diversificando il disegno, con un effetto finale realistico e sontuoso al tempo stesso. Durante gli anni, mi è capitato – attraverso la mia attività di restauro – di incontrare questa decorazione a graffito, caratterizzata anche da disegni più semplici, come in una statua di San Domenico e in un’altra dedicata a Santa Caterina (la veste bianca e il manto nero presentavano un graffito steso a righe orizzontali). Su altre sculture facenti parte di un altare dei Pialorsi detti “Boscaì”, famiglia di intagliatori lombardi che operò tra la seconda metà del XVII e per tutto il XVIII secolo, le figure degli angeli e quelle della Fede, della Speranza e della Carità avevano decorati solo i risvolti delle maniche degli abiti dorati con fiori, pallini e stelline. In un’altra opera, nella quale la decorazione era apposta alle nuvole di una scultura raffigurante Dio Padre – facente parte di un complesso d’altare della famiglia Fantoni di Rovetta (Bergamo) -, gli artisti utilizzarono, al di sotto della campitura di colore, la foglia d’argento applicata sempre a guazzo invece della foglia d’oro, graffiata poi con minuscole righe che seguivano le volute della nuvola; in un altro restauro ancora si è trovata la decorazione a graffito sui bordi del manto e della veste e sull’imbottitura del trono di una piccola scultura raffigurante Sant’Anna.
Il graffito, sgraffiato o estofado de oro, come già citato, si sviluppa in tutta Italia dall’area lombarda al Veneto, al Piemonte, alla Liguria sin dal XVI; ma sarà il XVII secolo – grazie alla sontuosità del linguaggio barocco – il periodo in cui si diffonderà maggiormente, soprattutto nell’area genovese, nel napoletano ed in Sardegna. Sicuramente l’epoca di massimo fulgore è stata quella che ha interessato il XVII ed il XVIII secolo.
La tecnica può apparire non eccessivamente complessa; presenta invece notevoli difficoltà di realizzazione. Dico ciò per esperienza personale, avendo provato manualmente a riprodurre questo tipo di decorazione, utilizzando vari leganti. La scultura o la parte interessata dalla decorazione veniva prima dorata a guazzo su bolo. La doratura doveva essere brunita, operazione che si effettuava generalmente con una pietra d’agata. Nella seconda fase della realizzazione, l’abito ligneo veniva dipinto completamente, celando la foglia d’oro con un colore coprente che doveva avere un legante non troppo forte per consentire la successiva raschiatura (senza correre il rischio di graffiare anche l’oro sottostante), ma nemmeno troppo debole, altrimenti lo strato si sarebbe sfaldato alla pressione del raschietto, offrendo, come risultato, un disegno con bordi non precisi, ma frastagliati. Secondo un documento di Domingo Sanchez (Andalusia), i colori dovevano essere macinati finemente. Successivamente erano miscelati con rosso d’uovo e alcune gocce d’acqua. Per rendere lo strato pittorico più duro, si addizionava aceto o lattice di fico. Si sono trovate anche sculture nelle quali i pigmenti erano stati miscelati con colla animale o, nel caso delle opere di figura intagliate per l’altare dei Fantoni, con una tempera a base di caseinato di calcio. Una volta che il colore era applicato ed asciugato, si procedeva alla realizzazione dl disegno, raggiungendo l’effetto della stoffa damascata. L’artista utilizzava appositi strumenti levigati con punte arrotondate di legno duro, in pietra od osso. Graffiando delicatamente – da qui il nome graffito o sgraffiato – ,il decoratore seguendo un disegno prestabilito, toglieva il colore, lasciando emergere la doratura sottostante e creando così un effetto molto appariscente nell’osservatore. La tavolozza cromatica varia a seconda dell’opera e dell’area geografica. Frequentemente è stata utilizzata la gamma dei rossi (costituita dalle lacche), degli azzurri, il bianco ed il nero. Con questa tecnica decorativa l’artista riusciva a conferire all’opera una particolare preziosità e raffinatezza.