di Enrico Giustacchini
Poche settimane prima di morire in seguito a una caduta da cavallo, il futuristissimo Umberto Boccioni conosce una nobildonna trascurata dal marito, annoiata, persa negli entusiasmi fievoli da little gardener tra le essenze della sua personale isola lacustre, e inopinatamente vacilla nelle fedi che credeva incrollabili. Nell’arte, nella vita.
Nel 1916, Vittoria Colonna ha trentacinque anni ed è sposata da quindici con Leone Caetani. Dopo la fiammata iniziale, Caetani si è molto allontanato da lei, e da tempo preferisce alla sua la compagnia degli amati studi (è un celebre orientalista), intervallati da non infrequenti scappatelle sentimentali.
Vittoria è una bella signora, dai capelli scuri, dai grandi occhi castani e malinconici, dall’affascinante sorriso dove traspare sempre un fondo di ironia. I pettegoli le hanno attribuito in passato relazioni – o almeno, amicizie assai intime – con numerosi vip, da Churchill all’Aga Khan, da D’Annunzio al re d’Inghilterra Edoardo VII.
Arrivata, come si diceva, alla boa dei trentacinque anni, la donna sta scivolando però adesso dentro il pozzo di un’esistenza solitaria e rassegnata. Unica gioia, l’Isolino, ossia la piccola isola di San Giovanni, sul lago Maggiore, che ha affittato e dove ormai vive praticamente sempre.
E’ qui che si dipana l’intenso idillio tra lei e Boccioni. Il pittore, più giovane di due anni, è un uomo attraente, atletico, simpaticissimo, e ha nomea di conquistatore di cuori femminili. Da qualche tempo è a Pallanza, ospite del compositore Ferruccio Busoni, del quale sta eseguendo un ritratto che diventerà giustamente famoso. Umberto e Vittoria si incontrano la sera del 6 giugno, ad una cena presso amici comuni. Il giorno successivo, l’artista, senza dir nulla a nessuno, sale su una barca e, a forza di remi, raggiunge l’Isolino e la sua solinga abitatrice.
Comincia così la più imprevedibile tra le storie d’amore, quella tra il rivoluzionario pittore italiano ed un’aristocratica dama dai gusti retrò, autosepoltasi negli effluvi languorosi di un decadente hortus conclusus circondato dall’acqua. Una storia destinata a rimanere “privata”, se non fosse per il casuale ritrovamento da parte di Marella Caracciolo Chia di alcune lettere che i due si erano scambiati all’epoca. Lettere che evidentemente Vittoria non aveva osato distruggere e che hanno fornito alla ricercatrice il più straordinario degli spunti per scrivere un libro, pubblicato da Adelphi (Una parentesi luminosa. L’amore segreto fra Umberto Boccioni e Vittoria Colonna, 180 pagine).
Dopo la prima visita, i due si incontrano quasi quotidianamente. Finché, la sera del 13…
“Quella del 13 giugno sarebbe stata una notte di luna piena – racconta Caracciolo Chia -, e Vittoria aveva suggerito a Umberto di venirla ad ammirare dalla sua isola. Prima avrebbero goduto assieme il tramonto e avrebbero mangiato all’aperto, sul terrazzo a strapiombo sul lago. In quei giorni il giardino era ‘pieno di profumi: di giglio, gelsomino, verveine (verbena)’…”.
A seguito del romantico appuntamento notturno, la relazione fra il pittore e la nobildonna sembra compiere una brusca accelerazione. “Quello che c’è tra noi è una profonda realtà – le scrive Umberto durante una breve assenza -, è nato come una realtà. Prima ci siamo conosciuti, poi abbiamo simpatizzato, poi… poi c’è il nostro segreto, quel meraviglioso crescendo… Oh! Le nostre notti! Il tuo pallore, il tuo smarrimento, il mio terrore, la nostra infinita comunione di corpo e di spirito. Divina mia!”.
“Con Vittoria e il ritratto di Busoni – osserva Marella Caracciolo Chia – succede qualcosa di simile. A mano a mano che il lavoro avanza e le visite di Boccioni all’Isolino si intensificano, i colori del dipinto diventano più compatti e accesi. Predominano i verdi, il blu oltremare e il blu elettrico. Le pennellate sono piene e scattanti. Il pittore ha attaccato la tela con straripante energia, con aggressività quasi, trasformando le emozioni nascenti in colori vibranti e pennellate dirompenti. E’ un ritratto, quello di Busoni, pervaso di felicità”.
Lo stesso Boccioni, del resto, confiderà a un amico, rievocando quell’esperienza: “Dipingevo con pennelli che non erano più pennelli e anche con le dita che andavano per conto loro… io non so come sia saltato fuori quel ritratto, che tra le altre cose è somigliante”.
Già, somigliante. Come se il più grande dei Futuristi avesse deciso d’incanto di rituffarsi nell’interpretazione del visibile, faccia faccia col passato: proprio alla stregua di quanto stava avvenendo in quei giorni, in quelle ore, nella minuscola isola sull’acqua, tascabile Citera del Ventesimo secolo dove il tempo, però, pareva essersi fermato per sempre.
Poi, arriva per Umberto il richiamo alle armi. Lui, che allo scoppio della guerra si era gioiosamente arruolato con la sua combriccola di spavaldi compagni, uniti dal credo artistico e dalla comune religione interventista, ora risponde a malincuore all’appello. E se ne può capire il motivo.
Separato per forza da Vittoria, le scrive lettere ardenti: “C’è qualcosa di così armonicamente legato nei nostri atti ch’io rimango stupito! E faccio proponimenti pazzi per l’avvenire e non lo saranno! Saranno belle realtà, amica mia! Purezza mia! Bellezza mia! Dolcezza. Profumo. Estasi! Con Voi tutto è possibile! Mi duole non poter per lettera dirvi tutte le bellissime cose che sento. Temo di non essere degno, di non essere all’altezza né adesso mentre scrivo né domani all’Isolino. Ma Voi mi incoraggerete, avrete uno di quei Vostri gesti muti che mi elettrizzano. Che mi danno coraggio! Se no, sapete, con Voi torno timido e bambino. E’ perché Voi infiammate quello che in me è più profondo e puro, quello che più è nobile in me come uomo e come artista! Voi sola potreste leggere nel mio pensiero, e non un sentimento trovereste che non sia rivolto a Voi! Che non Vi guardi come una luce! Se leggeste nella mia anima, sareste orgogliosa del sogno che avete creato in me! Buona notte, amica mia! Scrivo in fretta per impostare per domani”.
In luglio, Boccioni godrà di una settimana di licenza, che trascorrerà naturalmente all’Isolino. Di quei momenti restano alcune fotografie, immagini di Vittoria scattate con ogni probabilità proprio da Umberto. Poi, il ritorno tra i ranghi. I due amanti non si rivedranno più. Le ultime lettere della donna non arrivano a destinazione, con grande sconcerto di Boccioni, che non si capacita di quel silenzio e teme chissà quale disgrazia. Vittoria, da parte sua, sospetta che le proprie missive siano state intercettate dalla servitù, e magari fatte finire nelle mani del marito. Decide così di impostare di persona l’ennesima lettera ad Umberto. Lettera che giungerà al recapito, però, solo il 17 agosto, ossia il giorno dopo la morte del pittore.
Il 16, Boccioni esce dalla caserma per un’escursione a cavallo, dopo aver scritto ancora alla sua adorata, che forse – egli pensa – lo ha abbandonato per sempre, e senza un perché. Ed è certo immerso in queste tetre considerazioni quando, ad una curva, scivola di sella e stramazza al suolo con la testa in avanti.
Morirà di lì a poche ore. Una morte assurda, diranno tutti, per un incidente inspiegabile. “Sei caduto?” gli aveva chiesto per due volte il suo tenente, durante la lucida agonia. E per due volte, Boccioni aveva risposto, lucidamente, di no.
“Io credo all’amore come un’idea assoluta, che si integra con il salto nell’infinito – aveva annotato, tempo prima, Umberto nel suo diario. – E’ chiaro che coloro che vogliono l’assoluto amore, essendo due fisici in continua trasformazione, debbono adattarsi a raggiungerlo o a perire, non potendosi esso in alcun modo ripetere”.
Vittoria Colonna manterrà per sempre un geloso riserbo su questa sua vicenda sentimentale. Abbandonata dal marito, emigrato in Canada con una soubrette, detto addio all’Isolino, soffocherà ricordi e rimpianti in un insensato tourbillon di viaggi e mondanità. Morirà in età tarda, nel 1954. Lasciando di quella “parentesi luminosa” la sola, esilissima traccia di un pacchetto di lettere dai fogli ingialliti. Su uno dei quali aveva scritto: “Se la vita non mi ha dato di più è anche perché non ho saputo e non ho voluto prendere: ora voglio trovare la vera felicità”.
Ma così non doveva essere. Non per Vittoria, non per il suo pittore, venuto in barca da un altro mondo per salvarla e finito invece a brutto muso sulla terra dura: senza potersi rialzare, senza poter volare via, né lei con lui.