Tra magia e studi antropologici, le immagini di difesa nei confronti del male inferto da “sguardi cattivi” (malocchio) o dalla percepita persecuzione causata dalla mancanza di fortuna. Vi invitiamo a leggere il testo per trovare, accanto alle immagini, le motivazioni del disagio e i consigli per porsi in un assetto di riequilibrio. Le scoperte neurologiche sulla reazione del cervello all’esclusione sociale
Le immagini e i simulacri, accanto agli amuleti, ebbero una funzione primaria, in ogni cultura per proteggere l’umanità dai demoni e dalle infauste sorti del caso. La funzione di rassicurazione e di celeste protezione offerte da un’immagine sacra o resa attiva da un pensiero magico ebbero una funzione psicologica fondamentale nella fortificazione dell’individuo,che poteva, grazie a un aiuto esterno, affrontare con maggior serenità i pericoli, le difficoltà.
Per questo, nell’ambito della storia dell’arte, troviamo numerose immagini agentes. Immagini non neutre né neutrali, che venivano utilizzate per richiamare la fortuna, per agire sulla memoria, ampliandone l’estensione, o per allontanare malattie e malocchio, cioè lo sguardo ostile di un avversario o di un nume che si trasforma in una sorta di maledizione. Gli interpreti principali di queste azioni difensive erano le raffigurazioni sacre. Nell’ambito della religione cattolica un ruolo particolare spetta a Maria, specialmente come Madonna dell’Apocalisse. Dobbiamo peraltro considerare che la vita umana non si svolge soltanto su un piano materiale, ma che si sviluppa in un contesto non materiale di tipo culturale e spirituale, che influenza poi la sfera della concretezza.
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COSA SIGNIFICA MALOCCHIO
Specie le popolazioni mediterranee assegnano allo sguardo un potere notevole nell’ambito dell’incisività del soggetto sulla realtà. Generalmente si ritiene che l’occhio o lo sguardo possano imprigionare chi lo riceve, come avviene negli sguardi amorosi lanciati dai maschi alle femmine. E ricambiati. In quel caso si parla di “malia amorosa“, con un fondamento di verità. Lo sguardo trasmette messaggi e suggestioni. E, nell’ambito sessuale, ci consente di capire, nello sguardo ricambiato, l’attenzione erotica di un possibile partner. Riusciamo anche ad afferrare, per converso, un bagliore negativo negli occhi di un nostro interlocutore, pur se esso finge cordialità, ma dentro di sé, nutre un pensiero negativo nei nostri confronti. Lo sguardo è pertanto sovrano nei rapporti interpersonali.
Amore e rovina si pongono agli estremi di una linea occupata da sguardi più o meno intensi o più o meno incisivi. Poiché effettivamente il linguaggio degli sguardi ha un notevole influsso nell’ambito del “rapimento amoroso” o della “malia” e costituisce un elemento centrale nel corteggiamento, si ritiene che, allo stesso modo, uno sguardo negativo – il mal occhio – possa condizionare negativamente la persona a cui è rivolto.
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Quando una persona inizia ad essere osservata con occhi cattivi, invidiosi o sospettosi, da qualcuno, presto potrà notare che quello sguardo passerà ad altre persone. Questo non per un potere magico, ma perchè il nostro avversario utilizzerà la maldicenza, la calunnia, la diffamazione, il pettegolezzo infondato per farci apparire negativi agli occhi degli altri, consumando così la propria vendetta.
Esiste un esempio semplice della funzione del cosiddetto malocchio. Proviamo a recuperare un ricordo scolastico. C’erano professori che, a ragione o a torto, non sopportavano un alunno. Ad esso rivolgevano sempre, anche in silenzio, sguardi di riprovazione o di disapprovazione. Un semplice sguardo era in grado di orientare negativamente la classe nei confronti del ragazzo colpito dal “mal occhio” del professore. Lo sguardo cattivo allontanava i ragazzi dell’oggetto di quelle occhiate; il destinatario dello sguardo si ribellava, diventando aggressivo. E iniziava un processo di isolamento. Il malocchio – sempre inteso, inizialmente, come sguardo avverso – crea inquietudine, agitazione, perdita del senso della realtà. Sotto il profilo psicologico ciò è comprensibile. L’umanità vive grazie a salde relazioni sociali che possono essere basate sull’affettività o sull’interazione economica. Il malocchio, percepito come inizio dell’esclusione sociale, mette in allarme la nostra mente e porta, se non viene risolto razionalmente e attraverso sistemi di recupero dell’aiuto sociale, a uno stato confusionale simile a quello che doveva colpire i membri delle nostre comunità arcaiche che venivano abbandonati in una foresta da parte del gruppo in cammino.
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Lo sguardo cattivo esiste e non ha fondamenti magici, ma psicologici che possono avere effetti molto gravi sull’equilibrio della persona che ne risulta oggetto. Gli effetti che può suscitare sulla psiche del singolo e del gruppo non possono essere sottovalutati perchè producono isolamento e discriminazione. E poi tutto va storto, come in un maleficio, poichè gli ostacoli che nascono dalle resistenze di chi ci attornia si moltiplicano.
Amuleti che contengono la figura dell’occhio, anche stilizzato, secondo la tradizione, sono in grado di rispondere allo sguardo avverso, fortificando la risposta psicologica di chi porta l’amuleto stesso. In realtà chi si sente addosso il malocchio dovrebbe cercare di disattivarlo, agendo sui membri della comunità e trovando il modo di annullare le maldicenze e di crearsi, attorno, una piccola comunità di amici sinceri. Gli amuleti hanno la funzione psicologica di concentrare il soggetto sulla ripresa. E di farlo sentire meno solo e con maggiori risorse.
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LA PERCEZIONE DEL MALOCCHIO E LA REAZIONE DEL CERVELLO. LE SCOPERTE NEUROLOGICHE
Il malocchio, che intende favorire l’esclusione sociale del soggetto, colpisce aree precise del cervello che creano il moltiplicarsi della focalizzazione dell’attenzione su una presenza persecutoria, creando agitazione, dolore e allontanandoci dall’equilibrio necessario per vivere senza problemi nella dimensione della quotidianità e inducendoci a pensare che ogni impedimento o incidente sia collegato a quella fonte primaria di negatività. Studi pubblicati nel 2017 affermano – e la reazione dei neuroni è stata documentata scientificamente attraverso immagini fotografiche del cervello di scimmie amazzoniche – che la percezione dell’esclusione sociale e della gelosia hanno reazioni simili sul cervello, poiché colpiscono pesantemente la corteccia cingolata. E in fondo la gelosia o l’invidia – che è una forma di articolazione della gelosia, al punto da confondersi, spesso, nel parlato con essa – possono essere fonte di quello che chiamiamo malocchio, finalizzato, nella mente di chi lo “produce” all’esclusione sociale del soggetto a cui è diretto. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica Frontiers in Ecology and Evolution. “Comprendere neurobiologia e origine delle emozioni può aiutare a capire le nostre emozioni e le loro conseguenze”, spiega Karen Bales della University of California.
IL MALOCCHIO COME ESCLUSIONE SOCIALE E COME DISCRIMINAZIONE
Anche chi non crede nelle potenze del male, deve comunque pensare che lo sguardo cattivo – dietro al quale si nasconde antipatia, augurio nefasto, invidia – possa essere percepito come un influsso ostile, in grado di incidere sulla psicologia del soggetto che lo riceve. Il malocchio – inteso nel suo senso etimologico di “sguardo cattivo” – si trasforma in maldicenza e in calunnia. Calunnia e maldicenza richiamano sulla persona il sospetto della comunità. Nasce così il dis-credito. La persona viene ritenuta inaffidabile o pericolosa per il gruppo e posta ai margini della società stessa. Nessuno più la aiuta o la comprende. Essendo giunta ai margini, essa non riesce più a condividere le fortune economiche o la solidarietà comunitaria, ed è lasciata a se stessa, se non perseguitata.
In queste condizioni è facile non essere perfettamente attenti alla realtà che ci circonda perchè siamo presi solo da un pensiero ossessivo. Così la distrazione ci espone maggiormente all’errore e al caos, che noi chiamiamo sfortuna. Ecco, antropologicamente, come il malocchio diviene sfortuna. L’amuleto, sotto il profilo psicologico, consente al soggetto di raccogliere le forze psichiche e di concentrarle su un oggetto che, se non idolatrato, può aiutare a sentirsi, dentro, meno soli di fronte al caso-caos e a concentrarci su azioni che abbiano esito positivo per il nostro ri-equilibrio. Per uscire da uno stato di questo tipo è molto importante non perdere i contatti con la realtà e chiedere che la compagnia di amici fidati e parenti sia intensificata, durante i momenti nei quali ci sentiamo più deboli e più esposti a sguardi cattivi. Trascorrere insieme i momenti di crisi diviene meno difficile. Ciò che è da evitare è il sospetto. E atteggiamenti di chiusura. Il caso avverso cambia direzione se mutiamo il nostro atteggiamento spaventato o negativo. In alcuni casi avvertiamo lo sguardo ostile perchè abbiamo un senso di colpa, per un’azione che abbiamo compiuto e per la quale ci sentiamo di aver sbagliato. E riteniamo che il fato ce la faccia pagare. Un tempo si ricorreva spesso alla confessione in Chiesa, proprio per togliere quella macchia che rende preda dell’infelicità e che ci fa sentire esposti a sguardi cattivi.
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LA SFORTUNA CHIAMA ALTRE SFORTUNE. E’ VERO?
Molto spesso chi si sente colpito da malocchio viene deriso da amici e parenti, che dicono di non credere a quelle stupidaggini. Questo comportamento di sufficienza o di condanna è dannoso per il soggetto, che si sente ulteriormente escluso e deriso. La situazione va affrontata invece con dolcezza e razionalità. Chi si sente colpito da malocchio vive un disagio autentico, probabilmente basato su veri conflitti con soggetti esterni, amplificati dalla propria psiche. Non sono allucinazioni – ma lo possono divenire se non ne capiamo l’origine reale e non iniziamo a collocarli in una corretta dimensione -. E’ inutile dire che nella nostra cerchia di conoscenze c’è chi ci vuole bene, chi è sentimentalmente indifferente alla nostra persona e chi, invece, soprattutto per il sentimento dell’invidia, dell’antipatia o per azione negative che pensa di aver ricevuto da noi, si pone, da lontano, contro di noi. Noi avvertiamo fortemente questa avversità. E, più o meno inconsapevolmente, a causa di quell’occhio cattivo, anche altri ci percepiscono come “qualcuno che ha fatto qualcosa di male”. L’atteggiamento degli altri cambia. Noi siamo sempre più ossessionati da quel pensiero persecutorio e perdiamo la serenità che ci consente di tenere la realtà sotto controllo. Sentirsi preda del malocchio indica la corretta percezione di un stato di cirsi o di difficoltà. I periodi difficili devono essere affrontati diminuendo le situazion stressanti e chiedendo a chi ci sta vicino che aumenti le attenzioni positive nei nostri confronti. Nelle società antiche, ad esempio, si tendeva, dopo la morte di persone care, a trascorrere un anno di lutto, che fungeva da protezione della persona colpita da una disgrazia. Il lutto avvertiva la comunità che avrebbe dovuto essere cauta, gentile, comprensiva. Che la persona vestita di nero stava attraversando un periodo terribile e altre sofferenze le andavano risparmiate.
Oggi una situazione luttuosa di distacco – morte di un familiare, di un amico o perdita del fidanzato o di legami di amicizia o di lavoro – non viene mai affrontata con l’aiuto della comunità. Veniamo, dopo poche ore, proiettati nell’obbligo ancor più crudele della quotidianità, del lavoro, dello studio, Ci si chiede, in un attimo, di dimenticare, a favore dell’efficienza. Ma noi siamo ancora malati. Il nostro pensiero non si stacca dal dolore e così siamo staccati dalla realtà. Ciò che facciamo quando siamo preda del pensiero del malocchio o di una disgrazia è compiuto automaticamente, senza particolare vigilanza e autocontrollo. In questi casi è molto più facile avere un incidente, cadere dalle scale, inciampare, sbagliare un lavoro. La mancanza di controllo della nostra sfera esterna ci espone maggiormente a quelli che un tempo venivano chiamate disgrazie e che oggi, in termini più razionali, chiameremo incidenti. Durante questi periodi difficili – anche quando ci sentiamo preda dello sguardo cattivo – dobbiamo avere accanto qualcuno che ci indirizza e ci programma la giornata. Per evitare che ci si esponga maggiormente alla possibilità di errore. Possiamo così evitare che “una disgrazia non venga mai sola”.
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AD OCCHIO RISPONDE L’OCCHIO
In antico, molte barche, nell’area mediterranea, erano dipinte. Sulle murate della prua recavano grossi occhi realizzati ad encausto, che fungevano da presidio contro il mare e il male. Ad occhio infausto si risponde con occhio combattivo. L’importante è non arrendersi. Non soggiacere. E’ necessario vincere queste situazioni con elementi di fortificazione, che inducano serenità e certezza. Ciò non significa affrontare il nostro presunto avversario, ma ignorarlo. Le barche con l’occhio dipinto correvano sul mare senza fermarsi, senza bloccarsi, ma scivolando ben sopra i mostri marini e i loro occhi iniettati di sangue. Nell’ambito antropologico la funzione di un “occhio esterno” od occhio supplementare, disegnato o dipinto che sia e conservato come amuleto, tende magicamente a compensare la forza di quello viene ritenuta la potenza di uno sguardo negativo da chi può osservare con occhio malevolo.
IL MALOCCHIO DEI MASS MEDIA
Un’attenta osservazione della politica utilizzata dai mass media ci pone al cospetto di diverse forme di malocchio-discriminazione, che colpiscono personaggi in auge che non sono graditi dai centri di potere. Campagne di stampa senza fondamento, notizie distorte che poi non verranno mai corrette, sospetti forniti dalla presunta autorevolezza di organi di informazione controllati dai poteri forti creano discredito nei confronti di una persona, fino a portarla all’esclusione, alla morte civile. Uno dei casi più eclatanti fu quello che colpì Enzo Tortora. Incolpevole, entrò nell’occhio della magistratura e dei mass media, a causa di un suo omonimo il cui nome era presente in un’agendina di un malvivente legato alla criminalità organizzata. Tortora era oggetto di molta invidia, a causa del successo dei suoi programmi, e probabilmente, a causa delle sua popolarità, era entrato in conflitto con centri di potere. Il malocchio massmediatico si concentrò su di lui, completamente innocente sotto ogni profilo, e lo distrusse. Nessuno più lo aiutò, lo soccorse. Gli amici scomparvero. Soltanto i radicali, controcorrente e dotati di un notevole senso civico, lo candidarono al parlamento per sottrarlo alla male-dizione. Una forma recente di persecuzione in cui l’occhio pubblico viene indirizzato dolosamente nei confronti di una persona riguarda il sindaco di Roma, Virginia Raggi. La nostra non è assolutamente una valutazione politica, ma antropologica. Quello che risulta chiaro è il fatto che i mass media la attaccano con ogni pretesto, cercando di creare, nei suoi confronti, tra la gente, uno sguardo di disprezzo e di discredito, cercando di giungere alla sua esclusione politica e sociale. Un trattamento analogo è stato riservato a Silvio Berlusconi. Quello che si chiama orientamento dell’opinione pubblica rientra in categorie arcaiche del rapporto tra il soggetto e la moltitudine della comunità.
CON L’AMULETO RAFFORZAMENTO RECIPROCO
Il ritorno a una religione che non sia basata su elementi superstiziosi, ma sull’affidamento della propria anima a una luce irradiante, è sempre il migliore modo di affrontare i periodi difficili. Il Cristianesimo ci aiuta a ricollocare il dolore e a lottare contro l’esclusione perpetrata dalla comunità. Comunque sia, per quanto la nostra religione sia contraria ai feticci, esiste la possibilità di plasmare le forze, utilizzando qualche piccolo, infallibile rimedio che ha un notevole effetto placebo su chi soffre della iettatura. L’immagine o l’amuleto, fortificano chi la possiede e viene fortificata dal possessore. E’ uno scambio costante di energie positive. Se così è, può contribuire, se non caricata eccessivamente, a farci uscire da un brutto periodo.
ANTICHE RISPOSTE AL MALE
La Madonna costituì un punto di riferimento, nell’ambito delle immagini sacre, contro le negatività del mondo e contro il demonio, che secondo le tradizioni popolari, sta dietro a chi intende indirizzare il male agli altri. E’ lei a intercedere per l’umanità, a cui appartiene. E’ lei a cui spetta il compito di schiacciare la testa al demonio-serpente.
Per questo la figura della Madonna è così diffusa e per questo motivo l’esorcismo è spesso collegato a luoghi di culto e a santuari mariani.Per questo il culto mariano è inteso anche con una forte connotazione di salvaguardia dal malocchio e dal Maligno. Maria è la celeste protettrice. Ricordiamo che lo stesso Caravaggio dipinse La Madonna del serpe, a protezione dal Male. La Madonna reggeva Gesù, ormai ragazzino, che premeva il piede su quello della madre. Costei, a sua volta, schiacciava il serpente. L’immagine di Maria evocata dall’Apocalisse veniva ritenuta massimamente idonea alla guerra contro gli influssi malefici. La cultura occidentale ha perso il segno del crocifisso, inteso come funzione di adorazione di Cristo e come richiesta di protezione. Fino agli anni Sessanta, tutti portavano al collo catenine con crocifissi o immagini della Madonna o dell’Angelo custode.
Accanto alle immagini religiose esistevano altre raffigurazioni, provenienti da credenze pagane o da saperi magici, che esercitavano azioni specializzate.
Un caso particolare di immagine magica è costituito da questo triangolo di Abracadabra ( qui lo vediamo estratto da un libro uscito a Parigi nel 1808, le Dictionnaire abrégé de la fable). Leggiamo il lemma dell’antica enciclopedia:
“Abracadabra, nome che serviva a formare una figura agente di natura superstiziosa alla quale si attribuivano la virtù di di prevenire le malattie e di guarirle, nonché di portare fortuna. Si pensava che le lettere dovessero essere disposte nel modo in cui vediamo nell’immagine”. Il triangolo veniva portato sul corpo, come le immagini sacre – anch’esse agentes – od osservato a lungo per assumerne la potenza.
Ecco, aggiungiamo noi, il motivo per il quale il termine abracadabra oggi è rimasto diffusamente – e ironicamente – a indicare una formula magica, ma che un tempo era tale e che veniva considerata estremamente efficace nella lotta ad ogni sorta di veneficio. Fu evidentemente il suo ampio utilizzo nella forma di triangolo scalare a giustificarne la lunga sopravvivenza del significante. Se osserviamo con attenzione quest’opera grafica antica, notiamo l’ordinamento perfetto delle lettere a partire dalla a – che equivale all’alfa, la prima lettera dell’alfabeto greco – la quale emana ordinatamente le altre lettere. Nella magia arcaica l’atto di riordinare costituiva un’azione fondamentale contro il disordine del caso. Per questo una forma geometrica aiuta nell’azione di riordino difensivo della psiche. Se osserviamo con attenzione la sfortuna viene richiamata in molti casi da azioni frutto del disordine.
Il compilatore dell’enciclopedia aggiungeva che Abracadabra derivava da Abrax una delle antiche divinità legate a Mitra, il dio persiano del sole.
LA FUNZIONE PROTETTIVA STRAORDINARIA DEL CORALLO E DELLE SUE IMMAGINI
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La vita fisica e simbolica del corallo è più varia e ricca di colpi di scena di un romanzo d’azione. Nato miticamente nel mare dal sangue della Gorgone Medusa decapitata, così ci racconta Ovidio nelle Metamorfosi, assume nel corso del tempo virtù e significati sempre più articolati e complessi, in parte già inscritti nella sua presunta triplice natura, animale, vegetale e minerale. Come ricordato da Plinio il Vecchio: “nasce negli abissi marini con l’aspetto di radice arborea contorta e ramificata; questa, una volta estratta dall’acqua, passa da una consistenza erbosa e molle allo stato solido come di una fronda pietrificata”. Tuttavia, nonostante l’intrinseca bellezza e l’abilità degli artigiani ne abbiano fatto nel corso del tempo un prezioso ornamento, sempre al sangue sembra destinato ad essere ricondotto.
Il corallo “pagano” incontra molto presto la religione cristiana, e di questo matrimonio magico-sincretico si trovano tracce già nei primi secoli del cristianesimo. Il passo per giungere alla sua trasformazione progressiva, e definitiva, in simbolo del sangue versato da Cristo sulla croce per la salvezza degli uomini – così come, per estensione, in presagio di Resurrezione – è stato abbastanza breve e quasi inevitabile.
La sua adozione da parte del cristianesimo non stupisce: nel corallo, infatti, si possono incrociare senza sforzo – in virtù di alcune caratteristiche peculiari – il corpo e il sangue. In tal senso basterebbe il solo richiamo al sistema circolatorio: “La somiglianza tra un groviglio di rametti di corallo e l’intreccio dei vasi sanguigni nel corpo umano potrebbe essere il motivo dell’antica convinzione medica che con esso si possano curare le anomalie del flusso di sangue” (Silvia Malaguzzi). Fino a qualche decennio fa era uso donare ai bambini una collanina d’oro con un’immagine sacra. Essa aveva funzioni protettrici. Ma in precedenza i bambini indossavano una cordina alla quale era legato un rametto di corallo.
Ma c’è dell’altro.
Il corallo si presta molto bene alla visualizzazione di alcune ossessioni. La prima delle quali trova appagamento nell’evidente forma di croce individuabile nei rametti più estremi, e questa individuazione altro non è che l’ennesima conferma di quella sensibilità che, anche in epoca moderna, ha ricercato spasmodicamente la cifratura del divino cristiano in fiori, piante e nella natura in genere. Mentre a una diversa ossessione palpitante: il timore per la perdita del sangue, avrebbero dovuto porre rimedio altre proprietà attribuite al corallo. E se Marsilio Ficino si limita a scrivere del pericolo: “E’ comune opinione che certe vecchie, che chiamiamo streghe, sugano il sangue de’ bambini, per ringiovanirsi quanto possono”, alla minaccia vampiresca (all’inizio strix è solo un uccello notturno succhia-sangue, ma in seguito diventa la strega propriamente intesa) le madri reagiscono adornando i propri pargoli con collanine e braccialetti di corallo per proteggerli dal male e infondere loro energia. Il corallo sostituì l’antica bulla dei romani, un sacchetto che veniva posto al collo del bambino, come la catenina in tempi recenti. Nella bulla venivano poste immagini, essenze e tutto ciò che secondo la magia poteva tener lontane le potenze aggressive del male e delle malattie che, purtroppo, infierivano spesso mortalmente sui bambini.
La bulla aveva anche la funzione di allontanare il malocchio dalla famiglia, proteggendo i bambini che erano considerati il primo obiettivo sensibile della famiglia. Altri elementi di protezione, nel medioevo fino all’Ottocento, erano considerati i reliquiari, a quadro o a medaglia, nei quali venivano posti frammenti del corpo o di oggetti appartenuti ad uno o a più santi. Nel caso di quadri più complessi – quelli dei reliquiari compositi – l’associazione di reliquie di santi con specializzazioni protettive diverse conferivano all’insieme, nel rapporto con i frammenti contigui, una specificità d’azione.
Incarnazione visiva di questa antica tradizione popolare è la larga diffusione – a partire dal Medioevo e fino al Cinquecento – del motivo iconografico della Madre col Bambino, dove il piccolo Gesù esibisce collanine e/o braccialetti di tale inequivocabile sostanza: “Area di particolare diffusione è quella umbra, piccole chiese e oratori, che si ricollega alla tradizione antica di Roma raccogliendo la sopravvivenza dell’antico fallo pagano nella forma del rametto naturale simbolo dell’‘infanzia dell’Uomo-Dio’” (Anna Maria Romano).
Abbiamo selezionato qui una copia del ciondolo in corallo rosso indossato dal piccolo Giovannino de’ Medici:
Diffusissimo nell’Italia centrale del XV e XVI secolo, quindi in un gran numero di manufatti, semplici e legati alla devozione popolare, è però ben presente anche in opere d’arte di tutt’altro spessore e lignaggio. Ed è il caso della produzione di artisti quali Antonio da Fabriano, Giovanni Boccati, Carlo Crivelli, Cosmè Tura, Andrea Mantegna, Pintoricchio, Piero della Francesca e Antonello da Messina, per citare solo alcuni tra i più noti. Ma se nella gran parte delle opere di questi autori il corallo appare in modo conforme alla tradizione esornativa più consueta, in altre, invece, sembrano manifestarsi quelle fessure di senso (salti semantici) che, secondo Jean Mukarovskij, caratterizzano il dettaglio nell’arte popolare, favorendo nuove combinazioni alla stregua delle tessere di un mosaico, con la conseguente offerta all’osservatore di possibili differenti interpretazioni.
Infatti se in Mantegna, ad esempio, la presenza del corallo nella Madonna col Bambino (oggi all’Accademia Carrara di Bergamo) s’inserisce in un solco iconografico senza sorprese, come pure nella Madonna Trivulzio, la stessa cosa non accade per la Madonna della Vittoria. La quale rivela aspetti assai diversi, seppur molto vicina temporalmente all’altra.
Qui, di fatto, il riferimento al sangue primeggia: il dipinto commemora la vittoria e lo scampato pericolo di Francesco Gonzaga nella sanguinosa battaglia di Fornovo (1495), e dietro al trono si scorgono i volti di sant’Andrea (il cui sguardo fissa l’osservatore) e san Longino, entrambi legati saldamente al culto del Prezioso Sangue di Gesù, la reliquia conservata a Mantova. Inoltre, mentre sul capo del Gonzaga si protende la mano protettrice della Madonna, su tutto campeggia, ed è variazione significativa rispetto ai consueti monili, un voluminoso albero corallino rovesciato, una sorta di macroscopico omaggio alla superstizione, ma soprattutto un richiamo a quel sangue divino lì conservato.
Circa vent’anni prima del Mantegna, Piero della Francesca dipinge una delle più suggestive pale d’altare della storia: la Pala di Brera. Impossibile non affiancarla a quella della Vittoria, sia per la collocazione delle figure in un’analoga struttura spaziale e la centralità degli oggetti sospesi – là un macroscopico corallo, qui un uovo di struzzo -, sia per la presenza del donatore in armatura.
Pure quest’opera è quadro votivo, verosimilmente il ringraziamento di Federico da Montefeltro per la vittoria ottenuta a Volterra (1472), vittoria che gli darà ulteriore fama di condottiero e diverrà tristemente nota per il lungo e feroce sacco della cittadina espugnata.
Forse, però, il ringraziamento è duplice e, contemporaneamente, si fa riferimento alla nascita del tanto atteso erede Guidobaldo, avvenuta anch’essa nel 1472. L’esigenza da parte di Federigo di richiamare la protezione sul sangue del suo sangue, ben spiegherebbe la presenza dell’evidente amuleto al collo del piccolo Gesù preda di un sonno parente della morte (una esplicita prefigurazione). Ulteriore richiamo al sangue, poi, si direbbe l’inserimento – secondo alcuni esegeti forzoso e tardivo – nella cerchia dei santi di Bernardino, il grande , santo predicatore francescano che riesce a riappacificare i cittadini dell’Aquila dopo la morte, in virtù del copioso sanguinamento del suo corpo esposto alla venerazione del pubblico. In questo caso lo “scaramantico” corallo si troverebbe in buona compagnia, proprio con quel santo accusato di eresia e idolatria – per tre volte processato, ma sempre assolto – a causa di un oggetto da lui realizzato e utilizzato durante le prediche: il cosiddetto trigramma, una tavoletta dai poteri taumaturgici sulla quale il francescano aveva disegnato un sole raggiante in campo azzurro con sopra la scritta IHS (le prime tre lettere del nome Gesù in greco, oppure, secondo altre interpretazioni, In Hoc Signo [vinces]).
Più esplicito ancora il legame tra il Santo, il Bambino e il corallo, in un’opera umbra attribuita al Pintoricchio: “rappresentante san Bernardino orante innanzi al Bambino con collanina e rametto di corallo al collo, mentre una corona di corallo pende da una lampada d’argento dell’arco centrale” (Giovanni Tescione).
Mediatori assai differenti nell’aspetto e nella sostanza il terragno corallo e il trigramma, ma entrambi rappresentativi del supposto potere racchiuso nelle cose e, soprattutto, del delicato compito salvifico affidato alle immagini. Con una differenza non trascurabile, la presenza del corallo è una sorta di segnale: “attenzione, si parla di sangue”.
Come accade nel singolare tondo di Cosmè Tura, Circoncisione, (qui sopra) dove la “fessura di senso” sembra manifestarsi come critica cristiana alla pratica stabilita da Mosè. Qui l’atteggiamento del piccolo Gesù non è affatto comune, e pare volersi sottrarre allo spargimento del proprio sangue allontanandosi dal sacerdote, mentre su tutto spicca come un sottile festone il corallo.
https://stilearte.it/var/www/vhosts/stilearte.ithttpdocs/vendi-da-qui-quadri-e-oggetti-allasta-catawiki-on-line-ti-pagherai-le-vacanze-ecco-come/
LA FUNZIONE DIFENSIVA DEL PENE E DELLA PIPI’ CONTRO LA SFORTUNA
Utilizzata nella medicina antica come sostanza disinfettante – lo attesta, tra gli altri Plinio, nella Storia naturale – e considerata, un tempo, un liquido corroborante, l’urina è sempre stata letta in una connotazione di fecondità-aggressività. Sin da bambino, il maschio inizia a considerare il proprio pene come un’arma da dirigere in modo offensivo, e ciò spesso capitava nelle società contadine, dove lo spruzzo d’orina, nel corso dei giochi infantili, veniva utilizzato per colpire insetti, uccidere farfalle, disegnare sulla neve o durante vere e proprie battaglie tra bande in cui l’arma era proprio quella. Si pisciava anche contro ciò che si disprezzava e, in senso più ampio, contro le forze oscure del destino, con una funzione magica peraltro testimoniata dai simboli della pittura. Ma ciò che distingue l’orina dalle feci è che essa, per quanto costituisca simbolicamente un proiettile, ha le caratteristica di un’arma lecita: all’orina, nei giochi contadini, si risponde con l’orina; l’orina si subisce, ma non costituisce un’offesa irrimediabile come essere colpiti dalle feci. Orinare pensando di distruggere il malocchio con il flusso d’orina è un ottimo esercizio per la psiche. Si tratta di uno dei tanti elementi che ci aiutano a uscire dalle suggestioni negative e ai assumere una corretta, per quanto infantile, reattività.
Se il pene si configura, fin dall’inizio – pur solo parzialmente sessualizzato – un’arma micidiale, i suoi proiettili, con il passare del tempo, sono ancor più dirompenti e possono essere sparati contro ciò che si detesta o per stabilire alleanze di caccia o di guerra. Per i maschi, orinare in compagnia, ponendosi sulla stessa riga, significa cementare l’unità di gruppo – “chi non piscia in compagnia o è un ladro o è una spia” dice un proverbio molto noto – e prepararsi per una possibile impresa.
L’orina, sempre a livello simbolico, è poi collegata alla fecondità, poichè sia nel maschio che nella femmina viene prodotta nell’area dei genitali. La storia della cultura ci permette di dire che questa escrezione, a livello simbolico, favorisce prosperità e allontana le negatività. E non è detto che non lo faccia davvero, se orinare diventa un rito di liberazione traslata di problemi o significa colpire idealmente con il flusso rumoroso quanto ci fa male; o se ci consente, in modo infantile, ma in alcuni casi, efficace, di ristabilire un equilibro di potenza e di auto-affermazione, nell’ambito del rapporto tra sé e il mondo, lungo la traccia vettoriale dello schizzo di pipì. Del resto l’urina è utilizzata anche da molti mammiferi come traccia di territorializzazione. La differenza fra la fisiologia dell’orina e la liturgia magica della stessa è molto collegata al luogo in cui avviene. Orinare nei luoghi aperti, durante l’oscurità ha una forte valenza di lotta e integrazione con ‘elemento naturale. Diversa è l’attività ordinaria di tipo fisiologico, alla quale l’umanità non dà peso, che si svolge in spazi riservati: anche se potrebbe essere oggetto di un’indagine psicologica e antropologica – in grado di rivelare segnali di frustrazione e di aggressività scaricati in bagno – l'”anarchia della collocazione dei bisogni”, sia nei bagni pubblici che in quelli aziendali, nei quali viene sovvertita, dai maschi, ogni regola di rispetto della pulizia del bagno stesso, forse a dimostrazione che fare pipì può significare ancora, nella mente profonda, territorializzare, annientare, distruggere e umiliare il proprio nemico. Il bagno aziendale che normalmente, in presenza di maschi, risulta impraticabile già poco dopo l’apertura potrebbe essere luogo che induce a un minor controllo dell’orientamento del flusso d’orina o un deliberato sganciamento dalla regola del rispetto degli spazi altrui in un punto incontrollabile dell’edificio. Un luogo di ritualizzazione occulta delle tensioni del lavoratore contro l’azienda, contro i superiori, contro i proprietari di quel bagno, contro i compagni di lavoro. L’orina considerata come segnale di un processo di territorializzazione e di indipendenza è, del resto, dimostrato dalle erme di Priapo,il dio del pene, che venivano collocate a difesa dei campi e della casa, cioè in luoghi territorializzati e da difendere. Nell’arte romana, veniva spesso raffigurato in affreschi e mosaici, generalmente posti anche all’ingresso di ville ed abitazioni patrizie.
La connotazione dell’orina
come portatrice di fortuna e di abbondanza
Presso alcune fonti romane o nel caso delle fontane dell’albero dei peni di Massa Marittima, la ricchezza d’acqua è segnalata e, al tempo stesso garantita, in modo magico dal pene. Il pene dà acqua e seme. Quindi veniva ritenuto punto di emissione di liquidi “magici”.
Secondo le tradizioni popolari è soprattutto la pipì dei bambini come quella degli angeli, a scacciare il malocchio e a portare fortuna. Per questo esistono statue di fontane che fanno la pipì. Lorenzo Lotto dipinse in affreschi angeli che orinavano verso il basso, distribuendo una benedizione di fortuna.
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In diversi casi, l’acqua delle fontane veniva convogliata dal pene di statue, in gruppi marmorei o bronzei. Il Manneken-Pis -il ragazzino che piscia, nel dialetto della capita belga- è una statua realizzata in fusione bronzo, alta una cinquantina di centimetri, che si trova nel cuore di Bruxelles. Essa, oltre ad essere correlata alla fortuna e all’abbondanza, è divenuta il simbolo d’indipendenza della capitale belga, non solo perchè era nota nel circondario, ma in quanto l’azione che essa svolge assume le caratteristiche di pronta aggressività contro il nemico.
L’opera fu plasmata e fusa, tra nel tardo Cinquecento e il Seicento, durante il regno di Alberto e Isabella Brabante, che ressero il ducato tra 1598 e il 621 -, riprendendo forse modelli rinascimentali toscani.Numerose sono le leggende fiorite attorno all’origine di questa statua, ma ne citiamo solo un paio legate a una lettura eroica del pene e dell’orina. Secondo una di esse, la statua ricorda un bambino che avrebbe spento con la pipì la miccia di una bomba che i nemici avevano lanciato sulla città alla città; un’altra narra che nel XII secolo un altro bambino, figlio di un celebre duca, fu sorpreso ad urinare contro albero durante le fasi cruciali di una battaglia. Così questa immagine simboleggiò il coraggio militare dei belgi.
Fu forse per l’intervento della chiesa locale che nacque l’uso di coprire con abiti eleganti la statua impudica. Il guardaroba attuale comprende più di ottocento costumi, che sono per lo più conservati nel museo della città. Il primo abito ufficiale realizzato per il “ragazzino che fa pipì” fu donato nel 1698 da Massimiliano-Emanuele di Baviera, governatore generale dei Paesi Bassi spagnoli. Nel 1747 il re di Francia, Luigi XV, pensò ad un vestito sontuoso per placare l’ira dei cittadini di Bruxelles, dopo il furto dell’opera in bonzo da parte dei soldati francesi. Il cerimoniale prevede che egli indossi uno dei suoi preziosi pezzi del guardaroba, trentasei volte all’anno, secondo un prefissato calendario dello sfoggio.
Nell’ambito della parità di genere, per assecondare le richieste delle donne di Bruxelles e riconoscere, in questo modo anche le loro virtù civiche legate all’indipendenza, è stata realizzata, sempre con una fusione in bronzo, la sorellina di Manneken- Janneke-pis, una ragazzina -Janneke ha questo significato – in miniatura – è alta circa trenta centimetri – che si accuccia per fare pipì e che, in questo modo, alimenta una fontana. Janneke è opera dello scultore Denis-Adrien Debouvrie (1985) ed è stata inaugurata nel 1987.
Non poteva certo mancare , in una città che onora, si diverte e fa folklore con le statue umane che fanno pipì, anche un bronzo dedicato al fedelissimo tra i fedelissimi: il cane. Ed ecco Zinneke Pis, il bel randagio che alza una zampa e schizza contro un paletto. Pensando che queste opere si trovano a Bruxelles,sede dell’Europa, e che celebrano l’autonomia, dovremmo pensare, come italiani, se usare le stesse armi rivolte a Bruxelles, appunto, e, non tanto al Belgio, quanto alla Germania.
Parrebbe pleonastico dire che il bambino che fa la pipì di Bruxelles è stato imitato da altri popoli, come è avvenuto per i giapponesi, che hanno collocato il loro ragazzino che orina, su un’altura della valle del fiume Iya, ricca di sorgenti termali.
DAL TINTINNABULUM CON PENI AI SONAGLI FUORI CASA
Un tintinnabulum polifallico trovato a Pompei. La forza magica dell’oggetto artistico antico risiedeva nella presenza di più peni, ai quali erano legati campanellini. Il pene, derivato dalle statue di Priapo, è abnorme, trasformato in una sorta di bastone, un’arma di difesa e di offesa. Probabilmente la fusione del pene di Priapo, dei tintinnabula e del corallo magico, dà origine al corno rosso della tradizione napoletana
I tintinnabula itifallici erano oggetti dalla forte valenza apotropaica, data dall’unione del simbolo fallico, dispensatore di fortuna e prosperità, con l’elemento sonoro, da sempre atto ad allontanare il maligno. Utilizzati talvolta durante i sontuosi banchetti per chiamare le portate, più di frequente erano sospesi alle porte delle abitazioni private e, soprattutto, degli esercizi pubblici, in modo da risuonare al passaggio dei visitatori e per tenere lontano il malocchio, in qualche modo alla stregua del Priapo conservato in situ sullo stipite destro della porta che dà sull’atrium della Casa dei Vetti di Pompei.
IL CORNO NAPOLETANO: ORIGINE E VALENZA MAGICA
Il corno napoletano si configura l’unione della potenza del pene di Priapo, del corallo accanto alla potenza offensiva del corno di bufalo e alla violenza urticante, ma difensiva e terapeutica del peperoncino rosso, introdotto in Italia in seguito alla scoperta dell’America e molto diffuso al Sud. Al tempo stesso il corno napoletano ha attinenze formali con la cornucopia, dispensatrice di beni e di fortuna, secondo gli antichi. La potenza dell’immagine apotropaica scaturisce proprio dalla sovrapposizione formale di più elementi magici di tipo offensivo-difensivo.
LA CLAVA E L’HOMO SELVATICUS CHE AIUTA I VIRTUOSI
[D]a dio pagano a figura socialmente emarginata nella tradizione medievale, quando per la Chiesa era una personificazione del demonio, fino ai santi eremiti di Lorenzo Lotto. Questa è la parabola che, nel corso dell’evoluzione storico-artistica, ha mutato i connotati simbolici dell’uomo selvatico.
L’essere, che trova la propria origine nel nume latino Silvano, entità dapprima assimilata a Pan, ma poi, come conseguenza di un processo di emancipazione del ruolo, diventata autonoma, acquista su di sé alcune caratteristiche strettamente legate alla tradizione più arcaica.
Per certi aspetti ricorda la figura di Marsia, il cantore vinto e scuoiato da Apollo, a dimostrazione di una lettura traslata dell’evoluzione nell’ambito delle arti e della cultura. L’aspetto animalesco dell’uomo selvatico che si riscontra nei quadri medievali e rinascimentali è retaggio della sfera mitologica, ma si nutre, al contempo, della presenza, in zone isolate di montagna, di genti che vivono in uno stato che sfiora l’animalità.
Eccone, in un bestiario dell’VIII secolo, la descrizione: “… pilosum toto corpore quoddam genus hominum didicimus, qui in naturali nuditate, setis tantum more ferino contencti”, un uomo selvaggio che vive allo stato ferino ricoperto solo dal proprio pelo. A documentazioni di questo genere può essersi ispirato Albrecht Dürer (1499)per i due battenti che in origine dovevano chiudersi a libro sul Ritratto di Oswolt Krel, ricco rappresentante di una nota impresa commerciale a Norimberga. Le tavole (qui sotto) mostrano due uomini selvatici che reggono con una mano le insegne araldiche di Krel e della moglie, Agathe, e con l’altra un nodoso e massiccio bastone. La scelta iconografica è sicuramente curiosa, ma una spiegazione può essere avanzata confrontando i dati biografici dell’effigiato con le caratteristiche comunemente attribuite all’essere primitivo raffigurato sui pannelli.
Quest’ultimo è un individuo restio a conformarsi alle regole civili, non addomesticabile, incontrollabile, violento nonché privo di ragione, simbolo dell’altro, del folle, del diverso, di tutto ciò che esula dalla “normalità” stabilita dalle convenzioni sociali e come tale schiavo della natura e del desiderio – per tale ragione avrà fortuna come maschera carnevalesca e sarà annoverato tra i protagonisti della Commedia dell’arte -.
Gli aggettivi utilizzati per descrivere l’essere sono conciliabili – che sia solo un caso? – con il carattere di Krel. Dalle note storiche che ci sono pervenute emerge il temperamento irrequieto del personaggio, un temperamento che lo porta alla carcerazione, cosa assai grave considerando il rango familiare. Inoltre, la tracotanza con la quale scruta il mondo che si dispiega oltre i confini del quadro, esplicitata dai tratti del viso, in particolare gli occhi e la bocca, e il gesto pomposo con cui stringe il bavero di pelliccia che lo circonda, fanno intuire il genere di comportamento al quale doveva essere uso.
Caratteristiche queste che, in qualche modo, si accordano con l’indole dell’uomo selvatico, al quale sembra essere affine sotto certi aspetti, tra cui l’incapacità di rispettare le regole sociali o l’impossibilità di porre un efficace freno alle pulsioni più rudi. Ecco allora una spiegazione coerente del motivo per il quale Dürer ha scelto un tema così particolare per dipingere le ante. Gli esseri rappresentati dovevano forse svelare l’animo tumultuosamente aggressivo di Krel.
Altri sono i contesti in cui si ritrova questa singolare figura. Come uomo-scimmia risulta scolpito sulle guglie del duomo di Milano. In tal modo lo effigiano anche gli artisti attivi nell’arco alpino, dalle valli bergamasche a quelle di Bolzano. Spicca per bellezza l’affresco dell’“homo selvadego” di Sacco, in Valtellina, XV secolo, che reggendo un grosso bastone di legno esclama: “Ego sonto un homo selvadego per natura, chi me ofende ghe fo paura”.
Persa ogni prerogativa divina, con l’avvento del Cristianesimo la creatura è simbolo dell’altro, di tutto ciò che esula dall’ambito sacro, sicuro, protetto – è il lato oscuro e incontrollabile della natura alpina -, in un gioco di contrari che lo portano ad essere emblema di luoghi incerti, di boschi tenebrosi sede di sabba, di un’ignoranza che scade nel diabolico contrapposto alla morale sapienza. E’ chiara quindi la valenza didascalica, che trova la propria funzione primaria nell’ambito della formazione del buon cittadino.
Nelle valli del Canavese, invece, il personaggio assume un ruolo positivo, essendo assimilato ad un eremita, uomo saggio ma solitario, conoscitore dei segreti della lavorazione del burro, dell’arte casearia, dell’allevamento e, ritornando alle credenze condivise nel mondo latino, possessore di una sapienza super-umana trasmessagli dalla natura stessa – ricordiamo che il nume Silvano era in grado di predire il futuro ascoltando il fruscio del vento tra le foglie -.
Si è visto come la religione abbia nutrito una certa avversione nei confronti di questa divinità pagana – in quanto la intendeva come un pericolo per il popolino, che ne poteva subire nefasti influssi -, e per tale ragione l’aveva identificata con il Male, attribuendole, in gran profusione, significati negativi. C’è però un’eccezione anche in ambito religioso, chiaramente esplicitata nel dipinto di Lorenzo Lotto Madonna col Bambino e i santi Ignazio di Antiochia e Onofrio.
Quest’ultimo è rappresentato nudo, coperto nella zona inguinale da poche frasche. La figura dell’eremita ricorda molto quella dell’uomo selvatico “buono” dell’area canavese. La decisione di effigiare un santo in tale sembiante ha origine proprio dalla presenza di quei connotati positivi che descrivono l’essere in accordo con la natura, più vicino ad una vita ascetica e pura, lontano dalle tentazioni della città: aspetti che calzano a pennello per un santo come Onofrio, che fu eremita nel deserto. La devozione per il il “santo pilosu” fu intensa anche a Costantinopoli e nel meridione d’Italia, specialmente in Sicilia e a Palermo. La diffusione del culto in diverse aree della nostra penisola è dimostrato da affreschi e dipinti da cavalletto. Anche Ribera detto lo Spagnoletto (1637) ritrae il santo peloso in preghiera. (qui sotto), evitando effetti grotteschi.
Possiede connotazioni religiose anche l’episodio della fuga senza speranza di Caino sulla terra arida e inospitale, episodio dipinto da Fernand Cormon, che descrive un’umanità abbietta, lurida, priva di divinità, sola. Un umanità primitiva che per tanti aspetti rammenta l’essere selvatico della tradizione. In Caino i corpi sono lisci, paradossalmente non privi di una certa grazia ma in essi, instillata in modo irremovibile, vi è la presenza di una ferinità che riconduce e risale al medesimo tempo alla tradizione figurativa dell’uomo selvatico, essi stessi uomini selvatici in una terra selvatica.
Infine, una curiosità. Nel complesso sistema iconografico dedicato al soggetto, troviamo situazioni nelle quali il primitivo è ritratto sorridente quando c’è brutto tempo e triste quando c’è il sole. Un comportamento dovuto alla sua malvagità? Secondo l’interpretazione più comune, gli atteggiamenti in apparenza discordanti sono sintomo di previdenza: se piove, egli ride perché è conscio che dopo verrà il sereno e viceversa.
Una cosa simile accade pure in ambito religioso, con protagonisti san Giovanni Battista e san Giovanni Evangelista. Il primo è triste nel solstizio estivo perché, nonostante il bel periodo, da quel momento le ore di luce sono destinate a diminuire; il secondo ride durante il solstizio invernale perché, anche se l’effetto non è immediatamente visibile, le giornate ricominciano ad allungarsi.
Una delle rappresentazioni più incisive di questo personaggio si trova in Valtellina.
Nell’abitato di Sacco di Cosio Valtellino, all’inizio della Val Gerola, vi è un edificio (antica abitazione di notai) che riporta una preziosa testimonianza, perfettamente conservata, del mondo orobico del XV secolo. La camera principale fu utilizzata come fienile fino agli ultimi decenni del secolo scorso, questo uso continuato nel tempo non ha però leso la superficie intonacata e affrescata delle pareti: come altre “camere picte” di questo periodo ha decorazioni floreali stampigliate e cartigli con preghiere e proverbi. Diverse figure si succedono sulle pareti: un cacciatore, una grande Pietà con San Bernardo, il committente inginocchiato, i tre volti della trinità sull’architrave di ingresso e un uomo nudo, ricoperto di peli, che porta una lunga clava, è l’uomo selvatico, dalla cui bocca, come un fumetto, esce la frase:
” Ego sonto un homo salvadego per natura, chi me ofende ge fo pagura ”
Sopra la Pietà si legge Simon et Battestinus pinxerunt (forse pittori della famiglia Baschenis di Averara, artisti itineranti, famosi per le loro danze macabre) e la data in cui fu conclusa l’opera: “18 maggio 1464”; sotto fino a qualche anno fa era leggibile anche il nome del committente, raffigurato in ginocchio in preghiera, sul lato destro della Pietà: “Augustinus de Zugnonibus”.
Il VALORE APOTROPAICO DEI MASCHERONI PER LA DIFESA MAGICA
L’attenzione per l’arte di d”origine greco-romana ed etrusca, portò, tra Cinquecento e Seicento a un notevole recupero di antiche immagini atropopaiche- termine che deriva dal verbo greco “allontanare”-che ebbero, pertanto non soltanto fini decorativi, ma la funzione di imagines agentes in grado di preservare la casa e allontanare il malocchio, quanto possibili infiltrazioni demoniache. La diffusione di mascheroni inquietanti nell’arte della seconda metà del Cinquecento e nel secolo successivo non risulta soltanto legata all’espandersi formale dei disegni romani delle cosiddette grottesche, pitture decorative di fantasia, anche inquietanti, che si diffusero anche grazie alla scoperta della Domus di Nerone, ma evidentemente fu sorretta da una svolta nel campo della magia e della superstizione. Moda e necessità si unirono indissolubilmente.
Poichè i riformatori del Concilio di Trento, di fatto, sfrondarono il culto dei santi e ogni aspetto leggendario legato alla religione, per riportare questa sfera a un legame sempre più stretto con la Bibbia e con il Vangelo, veniva ad essere osteggiato o comunque censurato, il ricorso superstizioso a figure intermediarie di santi, beati e spiriti esorcisti che, nel passato, avevano costituito un pullulante neo-olimpo cristiano. A fronte di queste restrizioni – i cui effetti sono ben visibili nell’arte sacra, con un’aderenza assoluta ala verità delle Scritture, come effetto palese di una tendenza riformatrice – e nel clima del recupero del patrimonio iconografico ellenico, romano, ellenista o etrusco fu possibile aggirare l’ostacolo, facendo ricorso ad immagini di difesa magica provenienti dall’antichità. Può parere eccessivo, tutto questo, al lettore di oggi; ma basterebbe tornare alla memoria alla vita novecentesca, nelle aree non ancora investite dalla razionalismo post-positivista, per comprendere quanto la magia e la superstizione fossero diffuse.
I mascheroni ebbero maggior fortuna apotropaica nel declino della centralità economica dell’Italia, a partire dal grave trauma del Sacco di Roma (1527), nella rottura insanabile tra il mondo protestante e quello cattolico, tra le inquietudini del Manierismo e, successivamente, nell’avanzare seicentesco del pensiero razionalista che tendeva a lasciare sempre più l’umanità a se stessa, senza celesti protezioni. Così, sia per motivi di funzione magica che per adeguamento a temi iconografici tanto in voga nella Roma della seconda metà del Cinquecento,, i mascheroni in marmo – ma più spesso in pietra o stucco dipinto – furono collocati a protezione dei palazzi, in una fitta rete difensiva. Ciò è facilmente riscontrabile negli edifici italiani del XVI e XVII secolo, come nella facciata seicentesca di palazzo Mazzola, già Pulusella, a Cellatica, in provincia di Brescia. Mascheroni segnano ogni mensola del tetto. E laddove la mensola manca – per la necessità d’aprire un rettangolo di luce e d’aria per la soffitta, il decoratore non lascia spazio all’esercizio del caso e fa plasmare la maschera sopra il finestrino stesso, come se ogni varco dovesse essere coperto dall’azione magica di un protettore oltre che costituire un elemento di continuità decorativa. L’azione svolta da questi volti oltre a costituire un presidio magico – rafforzato, alla base di uno dei mostri dall’apposizione di una croce – aveva la funzione di rendere inquietante il palazzo alla vista dei passanti, rendendo evidente la potenza dei proprietari.
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L’uso di protomi o mascheroni appare sin da tempi antichissimi sia nell’architettura dell’estremo Oriente, che in quella egizia, con una funzione che – se consideriamo la presenza di analoghi elementi nell’America precolombiana – deriva da un’esigenza comune dell’umanità di collocare immagini sacre o di antenati o di demoni protettori all’esterno di edifici sacri o di abitazioni. Pertanto l’uso ornamentale può essere considerato, all’origine, secondario alla necessità di sacralizzazione del luogo in cui essi vengono collocati.
Si ritiene che in Italia l’uso di volti nell’architettura sia giunto attraverso la Grecia, a partire dall’arcaica maschera preellenica usata nei riti di esorcismo, che rappresentava un mostro al quale era stata mozzata la testa, forse un segno di esibizione di potenza, simile a quella sottesa all’ostentazione di trofei di guerra o di caccia. Mascheroni di Gorgoni, cioè donne mostruose dell’Aldilà con serpi al posto dei capelli, mani di bronzo e sguardo che impietriva chiunque le osservasse, furono collocate dai Greci sulla sommità dei timpani di edifici sacri – acroterî – nelle antefisse – parti finali delle tegole – dei tetti, sulle mura delle città (mura ciclopiche presso Argo).Le figure delle Gorgoni, che avevano una funzione magica difensiva giacchè si riteneva avessero, appunto, il potere di pietrificare chiunque incontrasse il loro sguardo, venivano alternate, nell’uso, a maschere tragiche, che forse sostituivano il volto dei morti, teste che nel passato più remoto erano trofei di guerra, con il fine di inquietare il nemico che vi si avvicinasse. Protomi di leoni, musi felini o d’altri animali eletti quali antenati mitici costituivano una diffusa variante iconografica apotropaica. Mascheroni mostruosi convogliavano le acque delle fontane, depurandole così, ritualmente, dalla contaminazione dei mondi inferi, dai quali provenivano.
Lo stretto collegamento culturale e/o etnico con il mondo ellenico e del vicino Oriente, portò gli etruschi ad essere, nella penisola italica, tra i più antichi,se non i più antichi, produttori di mascheroni in campo architettonico, con soluzioni formali di grande pregio, tese a forzare, rispetto ai Greci, mostruosità e colorazione delle figure, come appare nelle teste di Gorgoni del tempio di Portonaccio, a Veio. La porta di Volterra, che presenta la raffigurazione di numerose teste umane, nella chiave e nelle spalle, porterebbe far pensare al fatto, come si diceva, che si fosse giunti a una sostituzione dei cruenti trofei capitali con materiali fittili o lapidei. Nè appare escluso il fatto che si volesse sottolineare che la città o la casa fosse protetta dai morti, dagli antenati, reali o mitici che fossero. L’uso di protomi passò – per convergenza delle culture greche ed etrusche – agli antichi romani che usarono frequentemente mascheroni con fattezze umane o animali, nonché maschere tragiche, nelle architetture, sui sarcofagi, negli arredi domestici. Teste di uomini e di animali che,in una simbologia strettamente collegata al cristianesimo, apparvero con funzioni difensive analoghe nelle chiese romaniche e gotiche. E’ comunque a partire dal XV secolo che i protomi di diffondono, per giungere poi ai culmini espressivi della seconda metà del Cinquecento e dell’intero Seicento. Saranno poi ripresi – con funzioni invece più semplicemente formali e prive di accentuazioni – in età neoclassica.
LE IMMAGINI DELLE GEMME ROMANE CHE AGIVANO CONTRO IL MALE
Fin dagli arbori delle civiltà sono esistite credenze e pratiche occulte volte a scacciare demoni e fantasmi, ritenuti i responsabili di maledizioni e malattie. Tra i metodi adottati per proteggersi, quello relativo alla fabbricazione di amuleti e portafortuna risulta curioso ed affascinante, anche da un punto di vista artistico ed iconografico. Le “gemme magiche” comprendono una variegata categoria di intagli in pietre semipreziose, scelte in base alla loro presunta capacità di contrasto degli influssi negativi. Nell’età classica, uno dei soggetti ricorrenti era Tyche, la dea alata della Fortuna, che presiedeva alla prosperità della città. Di solito veniva raffigurata stante – meno spesso seduta -, con cornucopia e timone, oppure con delle spighe. Nell’intaglio in corniola, proveniente da Ercolano (1), la Tyche panneggiata è girata di tre quarti, con la cornucopia appoggiata al braccio destro mentre il sinistro regge il timone. Oltre alle divinità dell’Olimpo, pure alcuni animali erano considerati di buon auspicio, come ad esempio lo scorpione. Secondo il mito, il gigante Orione, dopo aver tentato di abusare di Diana, era stato ucciso da uno scorpione che la dea gli aveva mandato. Nell’intaglio in diaspro, anch’esso ad Ercolano (2), l’aracnide, visto dall’alto, è riprodotto con efficace resa naturalistica. La commistione tra magia e religiosità persiste in epoca giudaico-cristiana, come testimoniano le gemme di contenuto biblico, collocabili tra il III e il IV secolo. Uno dei personaggi che vi compaiono con più frequenza è Salomone. Egli infatti era considerato un mago e un esorcista, e in tale ruolo appare effigiato su talismani e porta fortuna. La gemma in corniola con invocazione al Dio supremo (3) presenta una serie di formule esoteriche, e cita il celebre “Sigillo” (più noto in verità come “Stella di David”), lo strumento che avrebbe consentito a Salomone di dominare i demoni. Si diceva che egli l’avesse utilizzato per chiamarli a sé, far costruire il tempio di Gerusalemme, e poi allontanarli. Il re d’Israele ricorre anche nella gemma in ematite (4), in cui è raffigurato a cavallo mentre sta uccidendo con la lancia una donna nuda a terra, probabilmente un demone femminile. Così fede e superstizione si fondono e si confondono al limite umano della paura.
NUMERO 72 COME PROTEZIONE PERCHE’ RAPPRESENTA IL NOME DI DIO
Nel 1523, uno spirito inquieto come Parmigianino giunge al castello del conte Galeazzo, un edificio elegante, posto a balconata sullo spiazzo al margine del quale sorgono le dimore civili di Fontanellato.
Galeazzo Sanvitale è un giovane dal volto regolare e dallo sguardo limpido. E’ nato agli inizi del 1496 ed ha ereditato dal padre le proprietà, divise poi con il fratello Gianfrancesco. Nel 1516 ha sposato Paola Gonzaga, figlia di Ludovico, marchese di Sabbioneta. E’ proprio in questo palazzo che, pochi mesi prima dell’arrivo dell’artista, è morto – in circostanze misteriose – il figlio della coppia. Ed è al bambino e alle presunte colpe della madre che è dedicata una straordinaria, ermetica stanza affrescata nella quale Paola, nella finzione pittorica, assume gli attributi di Atteone, il cacciatore che s’imbatte malauguratamente in Diana e nelle sue Ninfe, venendo per punizione trasformato in cervo e poi sbranato dai suoi stessi cani.
La disgrazia è avvenuta da qualche mese soltanto, come si diceva, quando Parmigianino giunge nel castello con l’incarico di eseguire l’enigmatico ciclo d’affreschi, e presto il suo lavoro si estende alla realizzazione del ritratto del conte. Galeazzo dimostra una grande attenzione al proprio aspetto: vestito alla francese, seduto su di una savonarola, ha barba e baffi perfettamente curati. La presenza dell’elmo, della corazza e della mazza ferrata sottolineano l’identità di un combattente valoroso. Dal fianco spunta l’elsa della spada decorata con la conchiglia bivalve, simbolo della famiglia. Abbozzando un lieve sorriso, il conte esibisce e tiene stretta, nella mano destra guantata, una medaglia dorata su cui è scritto il numero 72.
Evidentemente siamo di fronte all’appalesamento di un amuleto dal quale l’uomo traeva forza e sicurezza. Il 72, secondo la Cabala, che in quegli anni era assai diffusa anche nella sua versione cristianizzata alla quale tanto lavorò Pico della Mirandola, rappresentava la totalità delle lettere che compongono il nome di Dio. Tale numero viene ricavato da alcuni versetti del capitolo 14 dell’Esodo – 19, 20 e 21 -, ciascuno costituito, nel testo originale ebraico, da 72 lettere. In particolare, il nome sarebbe ricavato dal passo in cui Mosè divide le acque. E’ questo il nome ineffabile del Creatore che mormorava il gran sacerdote tra le urla della folla, e che venne sostituito più tardi dal Tetragramma sacro, YHWH.L’antico cabalista Rav Shimon Bar Yochai ha scritto nello Zohar che fu Mosè, e non Dio, a dividere le acque del Mar Rosso. Mosè una fede incrollabile ad una tecnica spirituale molto efficace. La formula è nota come i 72 nomi di Dio, altrettante sequenze sequenze di lettere ebraiche che hanno il potere straordinario di superare le leggi della natura in tutte le sue forme. La formula era nota solo a una cerchia ristretta di cabalisti.
Nel Rinascimento, le appassionate ricerche magico-religiose occupavano le giornate di letterati e filosofi, i quali tentavano di fondere, in un’armonia utopica, i saperi e le tradizioni, così da trarre vantaggi per l’uomo, nel raccordo tra il mondo, appunto, magico-religioso ed il mondo sublunare, cioè la nostra realtà. Minore è il nostro Ego e maggiore sarà il potere dei 72 appellativi dell’Onnipotente. Perché Galeazzo mostra la medaglia numerata? Egli si rapporta a Dio, ne regge magicamente il nome, propizia su di sé favori e benignità, considerata la drammatica instabilità della vita e l’inquieto gelo emanato dagli strumenti di guerra. (ebc)
Parmigianino, Ritratto di Galeazzo Sanvitale
L’effigiato mostra la medaglia sulla quale appare il numero mistico-magico 72, cifra che rappresenta il nome esteso di Dio. Evidentemente un amuleto che trae la propria origine dalla Cabala
L’IMMAGINE DELLA LUNA CRESCENTE PORTA FORTUNA
La luna, anche in virtù della funzione esercitata sulle maree, è sempre stata considerata un elemento magico che si riteneva potesse profondamente condizionare le vite dei vegetali, degli animali e dell’uomo. Proprio per questo, in pittura è stata di solito rappresentata nel legame diretto con la prosperità e molto spesso utilizzata con finalità benaugurante quando non direttamente magico-apotropaica.
Nella maggior parte dei dipinti, essa appare nella benigna versione “crescente”. Essa disegna cioè una “C” inversa, col dorso orientato alla destra di chi guarda oppure con il dorso in basso. Il simbolo ha avuto tale fortuna e diffusione da entrare persino, con la sua forma, nel novero dei generi di pasticceria: il croissant (crescente) non indica la lievitazione del soffice prodotto, quanto la fase lunare della prosperità. Il croissant indica la luna con due corna e va servito con le stesse corna che puntano verso l’alto oppure come una “C” posta al contrario, perchè, in questo modo, appare in cielo la luna crescente. La gobba deve stare alla nostra destra. Gobba a ponente, luna crescente. E’ pertanto un augurio. Un augurio mattutino.
Ma torniamo alla pittura del tardo medioevo e del Rinascimento, quando la luna era considerata portatrice di fertilità e di abbondanza, un presidio contro il malocchio e persino un antiepilettico. Hieronymus Bosch, curiosamente, nella Nave dei folli dipinge il satellite, nella fase crescente, su una bandiera posta al culmine dell’albero maestro di un vascello. L’artista fiammingo, che eseguì quest’olio su tavola nel 1494 circa, colloca i suoi piccoli e quasi caricaturali personaggi all’interno di un’imbarcazione che va interpretata quale simbolo dello Stato, della Chiesa, della fede o della vita. La navicella galleggia in un’acqua che si può associare alla limpidezza, al rinnovamento del proprio animo ma pure al pericolo o meglio al peccato, come ci ricordano le figure nude nel liquido cristallino.
A bordo, però, è anche rappresentato uno dei sette vizi capitali: la lussuria. Essa avvolge le figure al centro del quadro, un frate francescano ed una monaca che suona un liuto, i quali, cantando, tentano di morsicare una focaccia penzolante da una corda. Il liuto, va sottolineato, era simbolo dell’organo sessuale femminile, e suonarlo era ritenuto gesto di estrema lascivia, soprattutto da parte di una religiosa.
E su tutti questi significati si staglia quella bandiera, con l’effigie della luna crescente – non è un simbolo musulmano come alcuni critici hanno affermato – richiamo alla prosperità assoluta. L’albero della nave diviene allora albero di cuccagna, con un’anatra arrosto appesa, non lontana da uno dei pazzi che, coltello alla mano, cerca di appropriarsene. La luna, quindi, agisce pure sulle “acque della mente” dei folli. La pittura di propiziazione prevede anche le immagini dell’abbondanza, che fungevano da richiamo del destino affinchè concedesse ricchezza e prosperità. Divinità come Flora, con una cornucopia piena di fiori, o la Fortuna, rappresentata su una palla, per dimostrarne il procedere imprevedibile e rapido rientrano nelle immagini antiche di propiziazione. Anche le nature morte o dipinti di mercati del Cinquecento avevano la funzione di attrarre la benignità del Caso.
Originariamente il dipinto con la luna crescente faceva parte di un polittico (o di un trittico) composto dalla tavola di cui abbiamo parlato – collocata sinistra – dalla Morte di un avaro – a destra – e dall’Allegoria dei piaceri – parte inferiore -. Apparteneva allo stesso ciclo la figura del Venditore ambulante che forse era collocato nella parte posteriore della tavola a sinistra e che fu tagliato, successivamente, nel senso longitudinale dello spessore, per ricavarne due dipinti. Secondo gli studi di Mia Cinotti il soggetto appartiene alla tradizione popolare e letteraria tedesca di matrice carnascialesca. Nella regione del Brabante una barca carica di “folli” si dava al piacere e agli scherzi, mentre una confraternita con lo stesso nome criticava i potenti. Questi costumi entrano a far parte del il poema De Blauwe Scuut di Jacob van Oestvoren (1413). Proprio nell’anno della realizzazione del dipinto di Bosch (1494), Sebastian Brandt pubblicava il poema satirico La nave dei folli, che fu tra le principali fonti d’ispirazione per L’Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam.
Questi soggetti, di origine carnascialesca, presentano una voluta ambiguità. Non sono tanto – o soltanto – una critica ai vizi e agli eccessi, come avviene nel Carnevale, l’esaltazione. Questo concetto ambivalente è ripreso dallo stesso Erasmo da Rotterdam che nel suo notissimo libro satirico ascrive alla follia la perpetuazione del genere umano, l’autoconservazione, il desiderio di creare e di affrontare imprese. Senza Follia il mondo non potrebbe crescere. Essa vitalistica insita nella natura umana.
L’IMMAGINE DELLA PARCA LACHESI ALLUNGA LA VITA
Rappresentazione del memento mori e dell’aleatorietà dell’umana esistenza, le Parche sono state spesso protagoniste della pittura come ammonimento attorno alla brevità della vita e, pertanto, nonostante la loro origine pagana, assunsero – con il Cristianesimo – la funzione di avvertire l’uomo dell’esiguità del tragitto terreno da indirizzare, con fatti, opere e preghiere, a una proiezione eterna. Immagine speculare tremendamente invertita delle tre Grazie, come colpite dal flagello inclemente di una vecchiaia crudele, le anziane tessono il filo dell’umana esistenza, lo allungano e lo tagliano, dividendosi scrupolosamente ogni sequenza dell’operazione.
Loto, con la conocchia, è intenta a filare, Lachesi tende, in misura variabile, il filo stesso; alla terribile Atropo – che deve il proprio nome all’aggettivo inevitabile, saldamente ancorato al concetto di morte – spetta l’operazione del taglio definitivo. Lachesi – il cui nome greco ci conduce al concetto di destino – è pertanto la figura centrale; colei che in misura del movimento del braccio – più o meno vigoroso, più o meno esteso – determina la lunghezza dell’esistenza. Tra le tre è pertanto colei che è in grado di svolgere un’azione positiva nei confronti degli uomini, giungendo a favorire alcuni, come Sofocle, il quale, si diceva, aveva contato sulla collaborazione della vecchia signora, ottenendo un filo lungo novant’anni.
Questa funzione permise evidentemente a Lachesi di acquisire un significato magico beneaugurante quando diviene oggetto di un ritratto che esclude le due compagna. Un dipinto che diviene omaggio a colei che può tirare il filo alla massima estensione possibile, che trasforma il quadro in una sorta di richiesta di grazia. La rappresentazione esclusiva di Lachesi diviene infatti un’immagine agente sul gioco del destino; una sorta di laica divinità da onorare attraverso l’immagine.
Un “fotogramma” dedicato totalmente a Lachesi è quello realizzato da Pietro Bellotti (1625-1700), che riporta su di un piano completamente umano la parca. Non c’è più il filo, le sorelle con canocchia e forbici sono scomparse. E’ il primo piano di una vecchia. Non vi è altro elemento che indichi un’ascendenza mitica. Ma in un secondo dipinto del Bellotti, che mostra lo stesso soggetto e margini più ampi, come se il pittore avesse agito, allargando il campo del proprio zoom, appaiono il filo – stretto tra mani da lavoratrice, popolane – e, sullo sfondo, i fusi.
Non vi sono dubbi che sia proprio lei, Lachesi. Il pittore ne indica il nome sul cartiglio sul quale appone la propria firma.
Giuseppe Maria Crespi (1665-1747), affrescando la Sala dell’Olimpo di palazzo Pepoli Campogrande a Bologna, fornisce al destino e alla morte un’immagine gentile – come richiede l’ambientazione – dipingendo due giovani Parche, Lachesi e Atropo, mentre tagliano il filo.
Esse passeggiano spensierate e allegre in un parco; ridono, scherzano come se stessero solo giocando, con quel filo, le vesti mosse dal vento, i corpi atteggiati in un abbozzo di corsa leggere. Sono più simili a Grazie che a Moire greche. La morte, così, assume un’aura rocaille. E’ un erotico assopirsi dopo l’appagamento dei sensi, sotto il cielo, sull’erba.
Diverse, certo, dalle consorelle delle rappresentazioni Medioevo, che non appaiono sedute ma ritte, nei pressi del corpo esanime della vittima, che giace a terra, ai loro piedi. Ricordano che di “doman non c’è certezza” e che anche i più giovani e ricchi non possono sempre sfuggire alle loro attenzioni.. Un chiaro monito attorno alla fragilità della vita, nel solco di una tradizione che trova il proprio punto apicale nelle Danze Macabre, affreschi nei quali creature scheletriche tornano alla luce del sole per coinvolgere i vivi d’ogni classe ed età in un ballo travolgente che porta direttamente all’Aldilà.
Un’aria contemperata dall’umanesimo attraversa l’opera di Francesco del Cossa (1436-1478) che in un affresco della Sala dei mesi di Palazzo Schifanoia di Ferrara dipinge tre donne – che per alcuni rappresenterebbero, appunto, le tre parche – sedute ad un telaio come comuni filatrici, circondate da numerosi cittadini che compiono il loro lavoro quotidiano, mentre Minerva attraversa il paesaggio trionfante su un carro trainato da imponenti cavalli bianchi. E’ un lieve accordo, che ricorda soltanto incidentalmente la morte, togliendole ogni velo di cupezza.
Secondo alcuni critici la presenza delle filatrici sarebbe funzionale a un’esaltazione del duca che aveva promosso le attività tessili nella città estense; per altri simboleggerebbero la propensione dei nati sotto il segno dell’ariete (marzo, appunto) a questo tipo di mansioni. Altri studiosi però fanno notare come le donne stiano compiendo le tre azioni tipiche delle Parche – tessitura, filatura, taglio – e possano pertanto costituire un concreto riferimento ad esse. Ma, come ben sappiamo, la pittura del Quattrocento e del Cinquecento, s’apre alla polisemia. E pertanto i significati non si escludono a vicenda; anzi coesistono, uscendone, dall’interlocuzione, rafforzati.
Di forte impatto simbolico è l’opera di Marco Bigio, artista toscano del Cinquecento. Nella sua composizione compaiono Amore, la Morte, due puttini, una persona di colore – che assume il significato dell’eros primordiale – un gruppo di cigni e un cane. I personaggi attorniano le giovani e generose parche, interpretate dall’artista nella foggia di donne mature dai seni floridi e dai nudi corpi sodi, coperte solo da un esiguo lembo di stoffa.
Francesco Salviati (1510-1563) esalta la carnalità del trio in un’opera del 1550; tra Lachesi ed Atropo si assiste ad un perverso gioco di sguardi, che lascia intravedere una preminenza del ruolo della seconda, colei che recide il filo della vita. Cloto, la tessitrice, è in disparte, sullo sfondo, e assiste impotente alla scena. L’atmosfera è cupa, sinistra, permeata da un’aura morbosità; la tensione è quasi palpabile, preludio a un momento drammatico.
Le parche di Bernardo Strozzi (1581-1644) sono invece popolane, abbigliate con vestiti colorati. Hanno visi carnosi. Donne mezza età, guardano in un punto imprecisato, esterno alla tela, ad eccezione di Lachesi che è intenta a tendere il filo in modo che Atropo lo possa ben tagliare. La scena è permeata dalla pacata tranquillità del quotidiano. Una pittura che rende la verità dei domestici interni, ponendo, in cauda venenum, l’allusione allegorica al mito. E’ un’azione indispensabile e per questo è inutile disperarsi troppo. Va fatto. E’ la natura del mondo. Tanto basta.
Piegate dall’immaginario romantico, le Parche di Johann Heinrich Füssli (1741-1825) sono divenute streghe minacciose e crudeli. Appartengono a una dimensione infernale. Non stanno più come nel passato sulla linea della domestica quotidianità.
Atmosfere tendenti al magico, gesti violenti che non conoscono più la mediazione di una parvenza – per quanto inquietante – di ordinaria quotidianità, un pathos sbrigliato e oscuro, fanno esplodere il tema in tutta la sua dirompenza. Le donne di Füssli sono sadiche esponenti di un mondo terrifico.
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