Perché Luca Giordano era chiamato"Luca Fapresto"? Ce lo spiega il grande Nicola Spinosa

All’inizio della carriera faceva il falsario per il padre mercante d’arte, ma la sua straordinaria capacità di imitare i grandi lo portò presto ad assumere registri estremamente variati, come prescriveva il Barocco - Non dipingeva con un solo stile, ma li diversificava quasi la pittura fosse un immenso concerto per organo e orchestra - Nicola Spinosa, Soprintendente di Napoli, racconta i segreti di quell’artista geniale che pose le basi internazionali al rococò.

“Stile” intervista Nicola Spinosa, già Soprintendente ai Beni artistici di Napoli 
luca41Luca Giordano non è un pittore facile da inquadrare. Sembra un personaggio delle “Metamorfosi” d’Ovidio. Forse un trasformista all’italiana. E’ un artista che riesce a far convivere per un lungo periodo diverse maniere, prima d’essere lo straordinario anticipatore della stagione rococò e di trovare il modo d’essere essenzialmente se stesso e un punto di riferimento per la pittura europea. La sua personalità pittorica si compone di diverse maniere: da quella di Ribera – caratterizzata da un naturalismo che parla con i toni di terre povere, verdi vescica, marroni sacco, eccetera -, dalla pittura veneta di Tiziano e Veronese – che potremmo sintetizzare nella dominanza di una tavolozza oro-flava -, da quella dei neoveneti come Poussin e Pietro da Cortona – azzurri smaltati e rossi -, o da quella dei monumentali concerti di colori e di corpi di Rubens – policromie ascendenti -. Da cosa discende questa estrema versatilità?
E’ un tipico esponente della cultura del barocco, con un potenziamento di quelle che sono le peculiarità degli artisti del periodo. Egli assume stili diversi secondo il committente, secondo l’opera che deve realizzare. Sa insomma operare con più registri. Usa la maniera di Ribera o di Rubens o di Pietro da Cortona o ancora di Paolo Veronese. Se il contenuto ha finalità etico-moralistiche – che a Napoli, in quel periodo, assumono caratteristiche neostoiche – assume la verità pittorica di Ribera; eccolo poi, se si tratta di raccontare una favola cavalleresca che riecheggia la “Gerusalemme liberata” o la stratificata mitologia dell’“Adone” di Marino, produrre favole colorate che rinviano a Pietro da Cortona. Se invece si tratta di raccontare una storia miracolosa, come quella di San Gennaro che intercede presso la Madonna, lo vediamo usare lo stile neoveneto, caratterizzato da un’accensione, da una luminosità intensa, da una tavolozza rischiarata. La componente più importante rilevata negli ultimi anni è la riscoperta in chiave pittorica della grande lezione di Rubens e di Gian Lorenzo Bernini, che risulta il massimo interprete del concetto di spazio infinito; attenzione: non dico indefinito, ma infinito. E così dicendo, mi riferisco a una realtà nella quale si combinano natura ed artificio. Pensiamo al Bernini. Al Bernini da noi tutti ben conosciuto, quello di piazza Navona e di San Pietro. Bernini, che configura una straordinaria continuità spaziale in cui lo spettatore diventa protagonista della scena che egli calca. Luca Giordano applicherà lo stesso concetto in pittura, a differenza di altri pur autorevoli colleghi, che lavorano in direzione dello sfondamento dello spazio, che rompono con la pittura la crosta delle cupole e lasciano entrare un cielo fittizio.
Luca Giordano giunge ad un’implosione dello spazio, a un risucchio del mondo esterno nello spazio chiuso, anziché all’esplosione. E’ come se, da una breccia, il mondo della strada penetrasse nella chiesa. 
Consideriamo un suo collega: Pietro da Cortona. Nei suoi affreschi Pietro da Cortona giunge allo sfondamento della volta e della cupola. Nella decorazione elusiva di Giordano, lo spazio esterno penetra nell’edificio affrescato e lo dilata. E questa invasione del mondo negli spazi chiusi realizza un’opera che sta tra sogno e verità, che per un vero napoletano è dimensione psicologica quotidiana: la capacità di coniugare corpo e spirito, miseria e nobiltà. Direi che è una peculiarità tutta mediterranea la combinazione dei contrasti, orchestrata al punto tale da inserire armonicamente gli elementi reali in un sogno fantastico. Tutto ciò è raggiunto da Luca Giordano attraverso straordinarie qualità tecniche e un’ottima organizzazione della bottega. Dipinge moltissimo, anche con grande rapidità. Prestissimo copia Dürer, Michelangelo e Raffaello. Dispone, come dicevamo, di una bottega di carattere imprenditoriale, con una perfetta suddivisione degli incarichi. Quando viene ben pagato – e si affermava che Luca Giordano fosse particolarmente sensibile al fascino del denaro, se non apertamente esoso – interviene lui stesso nella realizzazione dell’opera, mentre affida alla bottega i lavori meno retribuiti.
luca giordano copertina
E tutto il lavoro avveniva con grande rapidità.
Da qui nasce il soprannome di “Luca fa presto”, che gli viene attribuito alla fine del Settecento in un periodo antibarocco, quindi particolarmente ostile nei confronti della presunta superficialità degli artisti di quel periodo… Quando il maestro ha una forte personalità è particolarmente difficile riconoscere la bottega, poiché egli tende ad estendere il controllo di qualità e a richiedere ai collaboratori la permanenza a certi livelli qualitativi. Oggi siamo in grado di distinguere la mano del maestro da quella dei collaboratori. E’ possibile ad esempio “smascherare” quadri di Nicola Malinconico che, per tradizione, ci vengono fatti passare come del maestro. Lo si vede. Lui disegna rapidamente, ha già in testa quello che deve realizzare. Non è michelangiolesco, sofferto, non è neoplatonico – non deve cioè scavare faticosamente nella materia per trovare in essa l’idea dell’opera d’arte che giace nascosta, nel profondo, ndr – ma berniniano.
Quindi rapido e leggero. E che può dire della presunta superficialità di Luca Giordano?
Lui non era un uomo di cultura. Era però un uomo di grande cultura pittorica. Ed aveva numerosi intellettuali attorno a sé, esponenti del movimento galileiano e dell’Accademia dei cartesiani, che preparava il terreno all’illuminismo settecentesco. Lei citava, giustamente, il poeta latino Ovidio. Non a caso “Le metamorfosi” sono testi fondamentali per l’opera di Luca Giordano. Questo continuo divenire, questa inesauribile trasformazione delle forme – che sta alla base dell’opera di Ovidio – è riscontrabile in Giordano. C’è una tale ricchezza di iconografia…
Una metamorfosi che mette in luce anche le straordinarie capacità mimetiche di Giordano. Il pittore spesso indossa la maschera, si cala schizofrenicamente nella personalità degli altri artisti. Per un certo periodo, all’inizio della carriera, farà anche il falsario.
Il padre è un modestissimo pittore, ma pure un mercante d’arte con ottime intuizioni. E’ il padre ad indirizzarlo a Roma, dove si trova al cospetto delle opere di Annibale Carracci, di Michelangelo, di Raffaello… A Napoli c’è un’“Annunciazione” di Tiziano che viene osservata dal pittore fino a farla propria… Copiare Dürer significava poi “farsi la mano”… Viaggiava molto, si muoveva incessantemente, non stava fermo nella propria città come capita – e capitava – alla maggior parte dei napoletani. Va a Roma, a Firenze. Si fa mandare le stampe di Rubens. Per un certo periodo fa il falsario? Certo, ma per lui produrre il falso non significa truffare, quanto misurare concretamente la capacità di mimesi. C’è un simpatico episodio, contenuto in un resoconto settecentesco, che fa capire cosa significasse produrre quadri falsi a quell’epoca. Il padre di Luca vende al priore della certosa di San Martino di Napoli un’opera prodotta alla maniera di Dürer. La vende come Dürer autentico. Il priore è tutto soddisfatto, il dipinto gli piace molto. E in quel momento Giordano senior confessa con soddisfazione al religioso che l’opera è stata prodotta dal figlio. Non scoppia nessuno scandalo. La capacità di Luca di arrivare a notevoli vette espressive viene interpretata come un dono, come una conferma del livello a cui è giunto il giovane pittore.
Qual è il suo giudizio su Giordano nell’orizzonte complessivo della pittura barocca italiana?
Non c’è dubbio che egli abbia una capacità superiore. A Napoli e in tutta l’area italiana è la personalità che meglio interpreta in pittura il barocco come gran teatro nel quale si fondono il naturale e l’artificiale. E’ lui che riesce a tradurre tutti gli aspetti della retorica del barocco in atti figurativi straordinari. Anche questo variare degli stili è capacità, di volta in volta, di mutare atteggiamento di fronte alle infinite sfumature di un secolo molto complesso.
Non è pertanto facile, all’interno di questo variare delle “maniere” pittoriche, un denominatore comune che unisca tutte le opere dell’artista.
Direi che gli elementi distintivi della sua pittura sono l’attenzione alla realtà e la nuova concezione illusionistica dello spazio. Ogni affresco di Luca Giordano fa sentire lo spettatore protagonista di un sogno colorato. Egli, per giungere a questa finalità, non annulla gli aspetti del reale, né sotto il profilo fisico né sotto quello sentimentale. Per questo non cancella le prime esperienze maturate sotto l’influsso di Ribera, che era un artista di forti concretezze pittoriche, un uomo molto attento alla realtà, anche a quella meno gradevole. In Luca Giordano le epidermidi, le luci, le emozioni, i gesti, restano concreti. Il naturale è sempre presente anche nella trasfigurazione fantastica.
Quante opere sono state dipinte dal maestro?
Ne sono state censite 750, ma questo conteggio deve essere rivisto in eccesso. Credo che egli abbia prodotto un migliaio di dipinti tra bozzetti, modelli, composizioni autografe, affreschi. Una quantità di lavoro che risulta comunque più bassa rispetto, ad esempio, ai lavori di Rubens, che giunge addirittura a tremila opere.
E quali sono i serbatoi non totalmente esplorati?
Quello spagnolo, indubbiamente.  Lui è un furbo alla napoletana. Quando va in Spagna e si accorge di quanto Velázquez sia là presente, rende omaggio al pittore con una di quelle opere mimetiche dipinte “alla maniera di…” che gli permetteranno rapidamente di ottenere consensi.
Lei prima accennava a una diversa concezione dello spazio.
Abbiamo approfonditamente studiato anche disegni copie dell’antico. Da qui emerge l’origine della nuova concezione dello spazio. Lui copia una statua girandole attorno, secondo l’idea rotatoria dello spazio berniniano… Ci sono disegni realizzati mentre lui “gira” intorno alla statua.
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E ora possiamo stabilire quale fosse il suo criterio di lavoro.
Dal disegno passava al bozzetto, con tocchi a macchia. Già nel modello cominciava a “creare spazio”. La creazione dello spazio è l’elemento centrale. Torniamo al discorso di prima, con un esempio: la “Cacciata dei mercanti dal tempio”. Qui crea scene di vita popolare, con mercanti, venditori di pane. Tutta la Napoli popolare entra nella chiesa sotto forma di personaggi dipinti. Facciamo un secondo esempio. Il “Perseo e Fineo”, oggi conservato a Londra – e in precedenza nella collezione del marchese del Grillo -, è stato da noi collocato in mostra quasi a livello del pavimento, contrariamente a quanto avviene, appunto, a Londra. Così l’opera può essere letta in tutt’altro modo. Il quadro dà la forte illusione di uno spazio esterno che penetra nella sala.
L’artista, agli esordi – rifacendosi al Ribera – dipinse una serie di ritratti dedicati alla filosofia. Sono quadri interessanti perché fortemente ambigui. Non si capisce quanto il pittore celebri la povertà degli intellettuali e quanto, invece, abbigliandoli con sacchi da pitocchi contribuisca, moderatamente, a deridere la velleità di chi legge il mondo, essendo poi condannato a rimanerne grottescamente estraneo. Come nasce questa serie che sarà in parte – ma solo in parte – sconfessata dai grandi, irreali quadri di mitologia degli anni successivi? 
Lui ovviamente deve illustrare con i dipinti i tratti-base del neostoicismo, le reali virtù fondate sulla filosofia – e sulla scarsa attenzione al tumultuare delle cose del mondo, ndr -. Prima di lui anche Ribera ha raffigurato i filosofi, con una concretezza fisica e morale quasi si trattasse di statue dipinte. I filosofi, le scene di storia romana, i màrtiri sono tutti bloccati come rappresentazioni di un altorilievo. Luca Giordano legge invece i suoi protagonisti nel divenire, non sono più statuari: li legge nel culmine del dramma, ma al tempo stesso allude al prima e al dopo. Tornando ai filosofi, devo ammettere che Giordano lascia anche spazio all’ironia, prende in giro se stesso e gli altri, caricando espressivamente i personaggi. Un lieve accenno al grottesco che in Ribera non c’è mai. Pure nel celebre dipinto “La donna barbuta” o nel “Sileno ebbro” non appaiono mai, in Ribera, i registri del grottesco, ma vengono più semplicemente sottolineati elementi di grande drammaticità.
Dicevamo, all’inizio, che quest’artista – partendo dall’oro di Tiziano, dai quadri di architettura e di storia del Veronese e dai “monumenti ascensionali” di Rubens – giunse alla produzione di affreschi che avrebbero inciso nella storia della pittura europea. Una ventata nuova, una fiducia smisurata nell’azzurro e nel bianco…
Quando lui dipinge gli affreschi di Galleria Medici Riccardi, arriva il veneziano Ricci. Venezia riscopre le proprie origini, guardando Giordano. I veneti capiscono che la costruzione attraverso la luce colorata – da lui utilizzata – aveva precedenti in Veronese e Tiziano. Giordano fu così un punto di riferimento. Dietro le grandi opere di Sebastiano Ricci, Piazzetta, Giambattista Tiepolo, s’avverte la scoperta di questo modo all’apparenza leggero. E siamo a un passo dalla grazia sontuosa del rococò. Lo stesso Goya guarderà estasiato alle opere di Luca

 
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