SALVATOR ROSA (1615-1673)
di Annalisa P.Cignitti
(versione ampliata su rocaille.it)
Un pittore troppo moderno?
La straordinaria potenza della pittura di Salvator Rosa sta nel sembrare terribilmente fuori epoca, quasi fosse stata dipinta nell’ottocento. Invece è il seicento il secolo in cui Rosa nacque e morì, un periodo che sicuramente gli andava stretto.
Dimenticato in Italia dopo la morte ed eroicizzato invece all’estero, possiamo pensare a vari motivi per cui questo accadde: in primo luogo perché, come ogni pittore del seicento, fu assai disprezzato dalla critica italiana almeno fino ai primi decenni del ‘900. Fu ripescato solo nel 1963 da Luigi Salerno, con il suo famoso articolo sui pittori del dissenso. Possiamo aggiungere il fatto che non fu pittore di affreschi, le sue opere sono tele comprate da collezionisti privati, i quali le hanno poi rivendute determinandone la dispersione in tutto il mondo, rendendo quindi difficile una visione globale. Ma c’è da aggiungere, infine, che il suo tipo di paesaggio fu letto in chiave anticlassica nel settecento e poi preromantica nell’ottocento, favorendone così la popolarità in quegli ambiti dove questi generi erano di moda e ciò esclude l’Italia.
La sua fortuna fu davvero atipica, sebbene già in vita non fosse stato un pittore particolarmente popolare.
Un artista sganciato dalla committenza e quindi libero dalla dipendenza di un mecenate, che si esprime attraverso mostre e grazie ad intermediari, anche in questo incredibilmente moderno.
Pittore, ma anche filosofo nonché poeta e commediante. Della sua vita sappiamo molto grazie alle lettere che scriveva continuamente ai suoi amici; scrisse le Satire in cui criticò la realtà dei suoi tempi. Si interessò di filosofia, come dimostrano i numerosi ritratti di filosofi e fondò l’Accademia dei Percossi. Non da meno la curiosità per temi ai limiti del proibito, come le stregonerie, ci descrivono un intellettuale interessato a tutte le attività del suo tempo, con cui è fortemente in lotta.
Pittore sì di contrasto, ma non di contestazione: la sua critica era più sottile e guardava tutto attraverso la consapevolezza disincantata che nulla è durevole tranne l’Arte, tutto il resto è vanità delle vanità.
Salvatoriello da Napoli
Salvator Rosa nasce a Napoli nel 1615, dopo aver perso i genitori entra a bottega per imparare a dipingere e si sostenta da vivere vendendo paesaggi e marine a poco prezzo. La formazione napoletana è fondamentale e rimarrà un segno di originalità per tutta la sua carriera: una pittura densa, materica, che ha evidenti radici in Jusepe de Ribera, da cui riprese anche le composizioni ardite, la rappresentazione della cruda realtà di origine caravaggesca e un impasto terroso.
Altri due maestri furono suo cognato e amico Francesco Fracanzano, che sposò sua sorella Rosa nel 1632 e Aniello Falcone, il pittore delle battaglie. Nella sua bottega stringe amicizia con un altro apprendista, Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro, tanto che alcuni lavori degli anni ’30 sono frutto di collaborazione tra i due. La giovinezza è fatta di lavoro in bottega e di scorribande con gli amici, che saranno per lui un legame fortissimo e imprescindibile “ho sempre creduto che l’amico sia un altro me medesimo”.
Un’esistenza umile dunque, ma la bravura dei pennelli lo mise ben presto a contatto con ambienti più elevati. E’ difficile infatti credere che Rosa non venisse influenzato dai dibattiti intellettuali della Napoli degli anni ’30, come quelli che si tenevano nell’Accademia degli Oziosi, fondata dal cardinale Francesco Maria Brancaccio, che tanto importante diventerà per gli sviluppi della sua carriera. Possiamo anzi pensare che l’interesse per la filosofia, che accompagnerà il pittore per tutta la vita, nacque proprio da qui.
Il breve soggiorno a Roma
Il motivo per cui Salvatoriello lasciò Napoli non si conosce con esattezza. Secondo il biografo De Dominici la causa potrebbe essere stata la concorrenza con l’amico Micco Spadaro, il quale riceveva importanti commissioni, come quella nel 1639 per la Certosa di San Martino, mente lui passava inosservato. O forse Rosa guardava già oltre l’orizzonte partenopeo? Non è un caso che nello stesso anno lasciava Napoli anche il cardinale Francesco Maria Brancaccio, un personaggio di spicco nella Roma barocca, legato ai Barberini e appassionato di arte e teatro.
Rosa era già stato a Roma nel 1635, ma questa volta lascia Napoli definitivamente. Era diventato abbastanza conosciuto come pittore di paesaggi e marine ed era molto richiesto per questo genere. Roma doveva sembrare al ventenne pittore un mondo grandioso e al contempo spietato. Nella città pontificia può contare su un grande amico, Nicolò Simonelli, il guardarobiere di Flavio Chigi (il nipote del papa Alessandro VII), il quale lo introdusse alle commissioni importanti e soprattutto alla collezione di mirabilia di Flavio Chigi, conservata presso il palazzo alle Quattro Fontane a Roma, poi dispersa.
Lavorò subito nelle proprietà del Brancaccio a Viterbo, dove infatti lascia “L’incredulità di San Tommaso” (1638), la sua prima opera ad argomento sacro. In pochissimo tempo il suo stile evolve verso una visione più classica e monumentale, grazie all’influsso di Claude Lorrain, Nicolas Poussin e Pietro Testa.
Rosa è anche un attore, partecipa alle rappresentazioni teatrali, questo sì da vero napoletano, da cui prende spunto per le sue pitture e che gli servono come mezzo di diffusione per il suo nome. Durante uno di questi spettacoli prese in giro Bernini e per ripicca Castelli rappresenta una commedia tutta contro di lui. Probabilmente a causa di questa tensione creatasi con il più importante degli artisti di quegli anni e forse, anche in seguito al rifiuto di essere accolto nell’Accademia di San Luca, Rosa accetta volentieri l’invito da parte del cardinale Giovan Carlo de’ Medici di trasferirsi a Firenze nel 1640.
Firenze
Fu Giovan Carlo, fratello del Granduca Ferdinando II, a chiamare a Firenze gli artisti che negli anni ’40 modificheranno il gusto della città medicea: Pietro da Cortona, impegnato per gli affreschi di Palazzo Pitti, e Salvator Rosa. Rosa si ritrovò a vivere in un ambiente più libero della Roma papale dal punto di vista delle idee, oltre che delle commissioni. In questi anni iniziò a scrivere le Satire in terzine, in cui esprime la sua visione di una pittura di ispirazione letteraria e filosofica. Sono anni felici quelli di Firenze, in cui resterà quasi dieci anni e durante i quali conosce Lucrezia, la donna che amerà per tutta la vita.
Rosa riesce subito ad addentrarsi nell’ambiente letterario fiorentino grazie anche all’Accademia dei Percossi, da lui fondata. Il suo migliore amico fu Giovan Battista Ricciardi, che conobbe in questi anni, autore di commedie teatrali così come Rosa ne era attore.
Tra i suoi amici c’erano soprattutto ricchi borghesi, che per lui rappresentavano una committenza più libera e idealmente affine ai suoi interessi. Tra questi Carlo Gerini, maggiordomo di Giovan Carlo de Medici, il quale aveva diversi quadri di Rosa: “Fortuna”, “Selva dei Filosofi” e il suo pendant “Cratete che si disfa del suo denaro disperdendolo in mare”, “Battaglia con il turco” e il “Tizio”, oggi di ubicazione ignota (da non confondere con il Prometeo, più tardo, oggi alla Galleria Corsini di Roma).
La cosa più interessante del periodo fiorentino sono i dipinti a tematica stregonesca-magica, le cosiddette Magherie o Incatesimi. L’attenzione per le raffigurazioni diabolico-stegonesche di origine nordica, risale in realtà al periodo napoletano. Il gusto del macabro e del magico era presente da sempre a Napoli, dove circolavano le opere dell’olandese Leonard Bramer e Jacob Swanenburgh e ne subiscono il fascino anche Filippo Napoletano e Monsù Desiderio.
Rosa inizia ad interessarsene solo a Firenze, dove il collezionismo per questo tipo di soggetti magico-stregoneschi era comune ad alcuni nobili-borghesi tutti legati alla casata Medici, che invece rimase estranea a questo tipo di gusto: il marchese Corsini, destinatario della celebre Stregoneria Corsini; il marchese Filippo Niccolini, maestro di camera di Giovan Carlo de Medici e poi di Vittoria della Rovere, possedeva i quattro tondi con stregonerie oggi a Cleveland; il banchiere Carlo de Rossi, suo amico e collezionista-mercante, aveva sia la stregoneria ovale su ardesia, oggi di collezione privata, sia la più famosa Stregoneria di Rosa, oggi alla National Gallery la quale, come dice Ricciardi, era conservata dietro una tendina. Sono infatti opere di fruizione privata, tenute segrete e mostrate solo ad una cerchia ristretta di amici, un pubblico elitario di collezionisti. Si ricollegano dunque a quel tipo di cultura da camerino che Rosa già conosceva tramite Nicolò Simonelli.
Il ritorno a Roma
Nel 1650 Rosa torna a Roma da dove non si sposterà più fino alla morte. Non vuole più lavorare per le corti, gli da fastidio che gli venga detto cosa dipingere, vuole essere libero. Dopo la corte fiorentina rifiuterà qualsiasi altro invito di corte, seppur lusinghiero, come quello rivoltogli da Cristina di Svezia, dall’imperatore d’Austria e dal re di Francia. Si sostenterà vendendo battaglie e paesaggi, che detesta, ma sono gli unici lavori che sembrano dargli guadagno: “la repugnanza che io ho in si dato genere di pittura, attesoché questo è il mio luogo topico da superar quanti pittori che mi vogliono dar di naso…”.
Rosa sembra conoscere bene le potenzialità di un rapporto diretto con il pubblico (cosa assai eccezionale per un’artista di quell’epoca) e divenne assiduo espositore alle mostre romane di San Giovanni Decollato o al Pantheon, una cosa non molto decorosa per un pittore affermato, esponendo in genere una sola opera di grandi dimensioni, che teneva segreta fino a quel momento. Rifiutava le richieste, odiava le commissioni, non accettava caparre perché queste poi lo vincolavano, spesso non si curava di vendere, diceva che dipingeva per sé e oltre a decidere il tema, fissava anche il prezzo. Pretendeva cifre altissime come per il “Democrito in meditazione”, presentato al Pantheon nel 1651, e il suo pendant “Diogene che getta via la scodella”, del 1652. Rosa richiese 250 scudi per ognuno: saranno acquistati solo dopo due anni dall’ambasciatore veneziano Niccolò Segredo e soltanto per 300 scudi entrambi.
Finché ci fu l’aiuto del banchiere Carlo de Rossi, che gli comprava tutti i quadri senza mercato, non ci furono problemi, ma successivamente Rosa cominciò anche a cimentarsi nell’incisione, che si poteva vendere più facilmente. Non ebbe una scuola né allievi, ma suo figlio Augusto cominciò ad aiutarlo nei paesaggi che vendeva ai turisti, soprattutto inglesi.
Morì a Roma il 15 marzo 1673 e fu sepolto in Santa Maria degli Angeli, dove ancora oggi si trova nel monumento per lui costruito dal figlio.