di Enrico Giustacchini
[A]gnès Sorel, la bellissima Agnès, è la favorita di Carlo VII. Piace molto anche al potente ministro del re, Étienne Chevalier. Quando la donna muore, nel 1450, Chevalier commissiona al maggior pittore francese del tempo, Jean Fouquet, un’opera per la chiesa di Melun. Un’opera che effigi la Vergine, ordina l’affranto uomo di Stato. E la Vergine – è sottinteso – dovrà avere le sembianze dell’amata che non c’è più.
Fouquet, che è tornato da poco dall’Italia ed ha gli occhi e il cuore sfolgoranti di luce colorata, circonda la sua Madonna-Agnese di angioletti rossi e di angioletti blu, a simboleggiare il giorno e la notte, meriggi di sole infuocato e silenti tenebre illuni. Lei, incoronata Regina coelorum, è seduta sul trono, le palpebre socchiuse, la pelle dal chiarore di perla. Il bustino, che la fascia fino alla vita sottile, ha i lacci allentati. La camicia, dall’ordito lieve come tela di ragno, l’orlo del mantello, di stoffa robusta, si sono fatti da parte. Lì, tra le crespe sommosse delle vesti, è sbocciato il seno più perfettamente sferico della storia della pittura. Un globo sodo e alabastrino, sul quale gioire, piangere, rammemorare od annichilirsi per sempre.
Sia detto con il massimo rispetto: mai, in alcuna delle innumeri raffigurazioni di Maria che allatta il Bambino, quest’ultimo è sembrato così superfluo. Non per nulla, lo vediamo distratto, intento a guardare altrove, privo di legami apparenti con chi pure lo dovrebbe accudire e nutrire. Una presenza decorativa, né più né meno di quella degli alati putti bicolori d’intorno.
Perché l’unica protagonista del dipinto aveva da essere lei, Agnès, la bellissima Agnès, tanto bella da poter prestare senza scandalo le proprie fattezze alla madre di Dio, per sopravvivere alla morte nel ricordo dell’inconsolabile adoratore.