Michelangelo Antonioni andò a lezioni di regia dal pittore Giorgio Morandi

Il detto pascaliano che Antonioni ripeteva citando Morandi: “Il vero artista è colui che sa stare da solo in una stanza”, rende il senso di autosufficienza creativa che non prevede un ruolo autonomo per gli interpreti. L’uso di colori freddi e opachi gli permette di arrivare al “non figurativo”, all’eclisse stessa dei personaggi, in un parossismo di alienazione. Con un “silenzio a colori” (anche quando i colori sono l’intensità del bianco e del nero), Antonioni evoca le proprie storie costruite intorno al vuoto eloquente di inquadrature indirette, a cogliere sottilmente sospensioni di immagini che enunciano le realtà interstiziali natura morta foto 5 interna già con dida

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di Stefano Roffi
Scrive Giorgio Morandi nel giugno 1957: “Purtroppo per l’umanità si intendono generalmente quegli affetti, quelle passioni, anche nobili, proprie degli interessi e i rapporti umani, ma che nulla hanno in comune con quei sentimenti che sono generati nell’animo umano, [nell’animo] dell’artista, dal mondo formale, di una complessità e vastità infinite, inesprimibili colla parola, ma unicamente dalle forme, dalla luce, dai colori, hanno diritto di chiamarsi umani”.
 
Una Natura morta di Morandi, a lungo desiderata, ritirata nel 1960 da Michelangelo Antonioni direttamente presso il pittore, indica un’affinità elettiva che aveva portato il regista fin dalla metà degli anni Cinquanta a riscontrare nel risoluto sottotono e nell’evanescenza temporale delle opere morandiane il codice espressivo rarefatto, involontario e interstiziale che troverà congeniale nel rappresentare, in un messaggio di silenzio, spaccati umani autistici e straniti nella tetralogia esistenziale filmica dei primi anni Sessanta (L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso),anticipata con Il grido del 1957 in cui, superati stili e tematiche dei precedenti lavori di impronta neorealistica, egli inizia a concentrare l’attenzione sull’individuo contemporaneo, sulle sue crisi, sul vivere fragile e disturbato in una società che sente estranea. Una lettera di Antonioni, datata Roma 9 novembre 1955, già avvertiva della sintonia tra i due: “Caro Professore, ho visto due giorni fa una sua mostra alla Medusa in via del Babbuino. Non è una grossa mostra ma è quanto basta per riceverne, a mio avviso una forte impressione. […] Di fronte ad una raccolta di suoi quadri si ha, a tutta prima, la sensazione che sia stata applicata alla perfezione la teoria jamesiana del “punto di vista limitato”; […] è proprio la esiguità di questo orizzonte che dà la misura della prodigiosa coerenza fantastica di un artista, e che quella esiguità,  altro non è che lucida coscienza del proprio ambito spirituale. Anche perché, andando avanti nello studio e nell’analisi dei quadri, si vede che la fantasia si è sbizzarrita in quelli che sono i modi dell’espressione, ossia nel linguaggio, addirittura nella tecnica, il che vuol dire: in senso prettamente pittorico.


Così l’insistere su certi temi è attuato attraverso esperienze pittoriche così diverse, che quegli stessi temi risultano essi stessi differenti. Ed è così che alla tecnica viene attribuita la sua vera funzionalità poetica […]. Alcuni anni più tardi, nel 1961, il regista sceglierà ancora una Natura morta di Morandi, asceticamente isolata nel biancore di una parete dello studio contrapposta a un’altra parete di indistinta esagerazione libraria, come simbolo di spiritualità e chiave di lettura della personalità dello scrittore protagonista de La notte, film interpretato da Marcello Mastroianni, con le musiche distaccate e monotone di Giorgio Gaslini, costruito in distonia fra disagio esistenziale ed entusiasmo da boom economico. Mastroianni, indotto dal regista ad una recitazione pressoché assente, nella sua anemica partecipazione ricorda la remissiva fissità degli Autoritratti di Morandi; Jeanne Moreau, moglie filmica, gli è affiancata come a forza, nolente e in preda a un disorientamento di cui inutilmente vengono cercate ragioni, in una progressione non lineare di introspezione all’interno di un’atmosfera di dissoluzione e annientamento delle personalità.
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Dalla narrazione morandiana, definita in impersonali termini cromatici e spaziali, Antonioni assume qui l’arte di schierare i personaggi senza personalismi e senza graduatorie, evidenziando nebbiosamente lo stesso senso di solipsismo e di travaglio insolubile che pare far parte del mondo del pittore.  Morandi usa il colore per far apparire gli oggetti nella luce, in confronto complice, la stessa luce nitida e diffusa portata nella pittura bolognese da Francesco Francia a fine Quattrocento col suo classicismo glaciale; quello del demiurgo Morandi è un colore interpretativo che connota le cose scelte e allineate in disciplinata soggezione sulla ribalta del proprio teatrino, identificando in esse intime variazioni emozionali, in un codice semantico cromaticamente declinato.
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La realtà è il vuoto, il nulla; è la mente dell’artista che assegna corpo alle proprie emozioni e ne costituisce le interazioni sceniche catturando dalla luce l’attimo gelido e disanimato di un’implosione, al quale seguirà il buio cosciente, restando “impresso” sulla tela nella propria dimensione di frammento mnemonico di  veritiera abbacinazione. Morandi decide il destino dei propri oggetti, pilotandone la valenza espressiva in paratattica giustapposizione a creare forzate aggregazioni antinaturaliste in cui gli oggetti assumono il ruolo loro attribuito nel misterioso copione del pittore-regista, dove le dimensioni di durata e istantaneità vengono a coincidere, mentre l’emozione è portata dal colore e dalla linea del piano d’appoggio, ora rassicurante confine di narrazione domestica ora angosciante e luttuoso precipizio, senza che le perdine di cui egli si serve per le proprie trame mentali assurgano mai al ruolo di un’autonoma, compiuta rappresentazione che possa promuoverle dal serraglio di provenienza.
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Già nella pittura metafisica, Morandi aveva iniziato a separare l’oggetto-personaggio dal suo significato comune e a investirlo di una valenza simbolica attraverso un procedimento di banalizzazione e repressione di ogni velleità espressiva individuale a favore dell’esito complessivo della scena. Dalla mortificazione delle connotazioni dell’oggetto, che assurge a rilevanza artistica in virtù del proprio annichilimento, trovandosi coinvolto in un progetto estraneo alla propria natura, deriva, da parte del pittore, un atteggiamento disinteressato del valore dell’oggetto in sé, scelto da Morandi in aderenza a un preciso concept mentale nella sfilza di bottiglie, barattolame e simili che teneva pronti su un tavolaccio per il casting quotidiano, spesso “truccandoli” con coloriture di scena per renderli più vicini alla propria idea. Analogo è il procedimento di Antonioni, regista-pittore che non consente ai propri attori virtuosismi interpretativi ma esige una composta adesione al dettato registico con recitazioni di indifferente sottomissione all’insegna di un collettivo straniamento, in cui le personalità si neutralizzano per farsi duttile materiale scenico.
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Il detto pascaliano che Antonioni ripeteva citando Morandi: “Il vero artista è colui che sa stare da solo in una stanza”, rende il senso di autosufficienza creativa che non prevede un ruolo autonomo per gli interpreti. L’uso di colori freddi e opachi gli permette di arrivare al “non figurativo”, all’eclisse stessa dei personaggi, in un parossismo di alienazione. Con un “silenzio a colori” (anche quando i colori sono l’intensità del bianco e del nero), Antonioni evoca le proprie storie costruite intorno al vuoto eloquente di inquadrature indirette, a cogliere sottilmente sospensioni di immagini che enunciano le realtà interstiziali, i momenti in cui l’azione non procede, in cui il tempo predomina in espressività, quei punti di vista insoliti che sfuggono alla narrazione e si spingono verso un altrove enigmatico. La “storia” è nei particolari, nei silenzi, nel guardare all’assenza tramite l’assenza: Antonioni preferisce filmare i contorni della vicenda (come ne L’eclisse, dove  le inquadrature iniziano prima che entrino in campo i personaggi e finiscono quando sono già usciti), le piccole pause inutili, i vuoti, facendo supporre che il senso di incomunicabilità che pervade i suoi film si fondi sull’inadeguatezza ad afferrare l’immagine nella sua verità, non riuscendo a valicare il confine tra visibile e mistero.


Il silenzio delle storie e delle relazioni umane, nel regista conduce con immota tensione verso lo spazio puro, e da esso al vuoto, cui il colore fornisce una base di approccio emozionale; un colore psicologico che cuce il rapporto fra l’attore-oggetto e l’osservatore, in reciproca suggestione. Nel suo primo film pensato e realizzato a colori, Il deserto rosso, parabola di insoddisfazione e inadeguatezza, egli usa deliberatamente il colore in funzione espressiva, arrivando a far tingere di grigio il bosco per rendere cromaticamente lo sbiadire della realtà tradizionale e naturale sottomessa alla nuova realtà industriale. I colori, in Antonioni, sono sempre utilizzati con finalità simboliche, come segno di un’atmosfera o di un sentimento; mai prevedibili, hanno l’obbiettivo di porre lo spettatore nello stato idoneo a recepire una determinata scena, nella sua presentazione visionaria e artificiale. Ciò anche attraverso la sperimentazione di inediti linguaggi, come Il mistero di Oberwald del 1980, con il ricorso alle tecnologie più avanzate per la coloritura elettronica di sequenze e dettagli, così da ottenere gli effetti psicologici che vengono sottratti agli attori, al pari degli oggetti di cui si serviva Morandi.

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