LA MOSTRA
C’è chi lo ritiene un narratore di storie e chi, al contrario, l’unico che ha saputo fermare l’attimo – cristallizzato nel tempo – di un panorama, come di una persona. È stato lo stesso Edward Hopper (1882-1967) – il più popolare e noto artisti americano del XX secolo – uomo schivo e taciturno, amante degli orizzonti di mare e della luce chiara del suo grande studio, a chiarire la sua poetica: “Se potessi dirlo a parole, non ci sarebbe alcun motivo per dipingere”.
La mostra aperta dal 25 marzo 2016 al 24 luglio 2016 a Palazzo Fava – Palazzo delle Esposizioni di Bologna, prodotta e organizzata da Fondazione Carisbo, Genus Bononiae. Musei nella Città e Arthemisia Group in collaborazione con il Comune di Bologna e il Whitney Museum of American Art di New York , darà conto dell’intero arco temporale della produzione di Edward Hopper, dagli acquerelli parigini ai paesaggi e scorci cittadini degli anni ‘50 e ’60, attraverso più di 60 opere, tra cui celebri capolavori come South Carolina Morning (1955), Second Story Sunlight (1960), New York Interior (1921), Le Bistro or The Wine Shop (1909), Summer Interior (1909), interessantissimi studi (come lo studio per Girlie Show del 1941) che celebrano la mano di Hopper, superbo disegnatore: un percorso che attraversa la sua produzione e tutte le tecniche di un artista considerato oggi un grande classico della pittura del Novecento.
L’esposizione è curata da Barbara Haskell – curatrice di dipinti e sculture del Whitney Museum of American Art – in collaborazione con Luca Beatrice
. Il Whitney Museum ha ospitato varie mostre dell’artista, dalla prima nel 1920 al Whitney Studio Club a quelle memorabili del 1960, 1964 e 1980. Inoltre dal 1968, grazie al lascito della vedova Josephine, il Museo ospita tutta l’eredità dell’artista: oltre 3.000 opere tra dipinti, disegni e incisioni.
INFO
INFOLINE E PREVENDITA
T +39 051 0301089
( attiva dal lunedi al venerdi dalle 10.00 alle 17.00 )
Orari di apertura
Lun – dom 10.00 – 20.00
(la biglietteria chiude un’ora prima)
Il servizio di biglietteria termina un’ora prima della chiusura.
Aperture straordinarie
Domenica 27 marzo 10.00 – 20.00
Lunedì 28 marzo 10.00 – 20.00
Lunedì 25 aprile 10.00 – 20.00
Domenica 1 maggio 10.00 – 20.00
Giovedì 2 giugno 10.00 – 20.00
Chiusure straordinarie
martedì 19 aprile dalle 10.00 – 15.00;
BIGLIETTI
Intero € 13,00 (audioguida inclusa)
Ridotto € 11,00 (audioguida inclusa)
65 anni compiuti (con documento); ragazzi da 11 a 18 anni non compiuti; studenti fino a 26 anni non compiuti (con documento); militari di leva e appartenenti alle forze dell’ordine; portatori di handicap; giornalisti con regolare tessera dell’Ordine Nazionale (professionisti, praticanti, pubblicisti); Guide con tesserino se non accompagnano un gruppo; possessori di un Biglietto City Red Bus; possessori di un biglietto di un’altra sede Genus Bononiae”; possessori Bologna Welcome Card; possessori di un biglietto della mostra “Street Art – Banksy & Co. L’arte allo stato urbano.
Ridotto Gruppi € 11,00
prenotazione obbligatoria, min 15 max 25 pax
microfonaggio obbligatorio
Universitari € 8,00 (ogni lunedi escluso i festivi)
Ridotto bambini € 5,00 (audioguida inclusa)
bambini da 4 a 11 anni non compiuti
Ridotto Scuole € 5,00
prenotazione obbligatoria min 15 max 25 pax
microfonaggio obbligatorio
Omaggio (audioguida inclusa)
Bambini fino a 4 anni non compiuti; accompagnatori di gruppi (1 ogni gruppo); insegnanti in visita con alunni/studenti (2 ogni gruppo); soci ICOM (con tessera); un accompagnatore per disabile; possessori di coupon di invito; possessori Membership Card Genus Bononiae; possessori di Vip Card Arthemisia Group; giornalisti con regolare tessera dell’Ordine Nazionale (professionisti, praticanti, pubblicisti) in servizio previa richiesta di accredito da parte della Redazione all’indirizzo press@arthemisia.it o silvia.quici@genusbononiae.it
Diritti di prenotazione e prevendita:
Gruppi e singoli € 1,50 per persona
Scolaresche € 1,00 per studente
Visite guidate
(tariffe biglietto escluso, prenotazione obbligatoria min 15 max 25, microfonaggio obbligatorio)
Scuole € 80,00
Scuole lingua straniera € 110,00
Gruppi € 100,00
Gruppi misti (adulti e bambini) € 100,00
Lingua straniera € 110,00
Laboratorio didattico
Per bambini da 4 a 11 anni
(tariffe biglietto escluso, prenotazione obbligatoria min 15 max 25 pax)
€ 80,00
Attività didattica a turno libero
(visita + laboratorio)
€ 5,00 + € 5,00 (biglietto d’ingresso) a bambino
Microfonaggio
Gruppi € 30,00
Scuole € 15,00
Informazioni e prenotazioni
+39 051 03 01 089
LA SOLITUDINE ESISTENZIALISTA DI HOPPER
James Hillman (1926-2011), un tempo allievo di Jung, è stato il pensatore Junghiano senza alcun dubbio più carismatico dei nostri anni. Il celebre analista – in una conferenza dedicata a Edward Hopper, che si tenne a Roma dal titolo “Finestre. Gli occhi dell’immaginazione architettonica”- ha sottolineato puntualmente quanto il pittore americano sapesse che la finestra è l’anima dell’edificio. Sempre secondo l’opinione di Hillman, sia in pittura che nel cinema, questo elemento architettonico ha svolto e svolge tuttora un ruolo decisivo per il nostro immaginario. E proprio Hopper è stato un “genio della finestra”, colta sia dall’interno che dall’esterno.
Prima di lui, nell’affrontare il tema, “geni” erano stati Rembrandt, Vermeer e molti altri. Tornando ad Hopper, è d’obbligo riconoscere che egli sia stato, con i suoi ambienti silenziosi e le scene distaccate, un interprete profondo delle relazioni umane. Al tempo stesso, le architetture rivestono un ruolo primario all’interno delle sue composizioni, e per questo motivo il pittore ha giocato con elementi lontani dalla mera realtà: finestre sproporzionate rispetto alla mute figure umane e una luce il più delle volte “tremenda”. Hopper interpreta la vasta solitudine dell’anima contemporanea rispetto al nulla. L’attesa di qualcosa o di qualcuno che non verrà. Un vuoto degli sconfitti.
COME LAVORAVA HOPPER, DAL DISEGNO DELLA REALTA’
PASSAVA A DISTANZIARE IL SOGGETTO DAL MONDO
IL SENSO DELL’INCOMUNICABILITA’ESISTENZIALISTA
L’osservazione della sequenza realizzativa delle opere di Hopper, consente di comprendere snodi tecnici fondamentali che divengono poi la radice del suo linguaggio espressivo. Ogni opera del maestro americano, interprete di un esistenzialismo doloroso, privo del ribellismo dell’esistenzialismo europeo, ma conchiuso in se stesso, nell’immane dolore dell’incomunicabilità, nasce da un raggelamento proegressivo dell’idea pittorica. Osserveremo che il maestro statunitense opera come un pittore antico o come un pittore accademico, attraverso diversi passaggi che non sono solo tecnici.Egli, generalmente fissa, probabilmente cogliendola da una situazione reale, un’idea, a matita o con il carboncino. Nella seconda fase passa a un disegno più dettagliato, nel quale inizia a raggelare la posa, paralizzare il movimento delle sue figure, ad eliminare ogni tratto che possa riferirsi a una quotidianità superficiale. Nella sequenza, abbiamo collocato lo schizzo, il bozzetto di preparazione e studio, l’opera finita. Lo schizzo iniziale viene studiato e mutato e raggelato. Il nuovo disegno presenta numerose annotazioni vergate a matita, che si riferiscono ai colori che egli intende usare, alla luce e ad ogni dettaglio.
Successivamente trasferisce il bozzetto sulla tela o sul cartone, in un’operazione meticolosa che tiene conto di ogni particolare. Sempre a matita, come vediamo qui sotto, egli stende sull’underdrawing, persino le ombre, con il lapis scuro che si mescolerà evidentemente con il colore, rendendolo più cupo. La procedura seguita, piuttosto laboriosa per collocare sulla scena questi soggetti semplici, nasce dalla necessità di un progressivo raggelamento dei suoi protagonisti, che diventano prigionieri del disegno e pertanto completamente immobili, incapaci di agire o di parlare. Egli giunge, attraverso a un momento congelato, a una sorta di metafisica del nulla, alla quale non possono dare vie d’uscita nemmeno le numerose finestre che appaiono nelle opere hopperiane. Sono cavità aperte su paesaggi insignificanti, dominati da una polvere di luce malinconica, tendende al rosa e all’arancio. Gli sguardi dei soggetti non mettono a fuoco nulla, ma sono persi in un punto al di là dell’orizzonte.
Anche osservando, qui sopra, lo schizzo e il quadro finale, ci accorgiamo di quanto l’artista utilizzi lo schizzo per cogliere un momento, che egli va a sistemare e caricare di un silenzio metafisico. Ciò appare molto evidente in queste due tavole consecutive. Hopper muta la postura dell’uomo in piedi, che nel bozzetto parlava con la moglie, piegandosi verso di lei. Nel quadro è perfettamente eretto, non esiste più una conversazione dominata dall’affetto, ma un puro guardare nel vuoto. L’isolamento di ogni singolo personaggio è rafforzato dalla sostituzione dell’uomo alla nostra destra con una ragazza bionda, che appartiene a un’altra generazione – ed è di per sè molto distante dai due anziani – e che è totalmente addentro al libro che sta leggendo, senza percepire altre presenze nella piccola hall.
Analoga è la procedura eseguita per quest’altra nota opera di Hopper. Lo schizzo coglie una segretaria di spalle nell’ufficio vuoto, mentre consulta lo schedario. Nel bozzetto successo, l’artista sistema il capufficio alla scrivania, mentre poi, nella stesura definitiva, elimina il possibile colloquio tra i due.
Le due immagini, qui sopra, mostrano il riporto del disegno sul supporto pittorico, con la realizzazione delle ombre a matita. Il disegno è molto dettagliato, come possiamo osservare, e il nero del lapis viene incorporato nel colore, contribuendo a creare quel grigiore delle carni, sotteso all’epidermide, che caratterizza la pittura di Hopper
QUANTO VALGONO LE OPERE DI HOPPER
Quanto può valere un dipinto di Hopper. uno dei massimi risultati per un dipinto di Edward Hopper(Nyack, 22 luglio 1882 – New York, 15 maggio 1967), pittore statunitense noto soprattutto per la rappresentazione della solitudine esistenziale nella vita americana contemporanea, è stato stabilito nel 2013
Riguarda l’olio su tela battuto da Christie’s di New York per 40,5 milioni di dollari e acquistato, durante l’asta, attraverso telefono, da un anonimo collezionista. Il precedente record economico era stato conseguito con la vendita di “Hotel Window”, che era stato acquisito per 26,9 milioni di dollari.
L’opera andata ora all’incanto raffigura, nel 1934, nell’atmosfera malinconica seguita alla Grande Depressione (1929), una via della città del New Jersey, al di là del fiume Hudson. Il range della stima iniziale era compreso tra i 22 e i 28 milioni di dollari, ma in questi mesi, per la pittura americana, è il momento d’oro, e le cifre di previsione sono state quasi raddoppiate, con il raggiungimento di 40milioni e 485mila dollari, segno della vitalità di un collezionismo che tende a far emergere con sempre maggiore forza i valori statunitensi, come linguaggio universale delle modernità. Il quadro firmato in basso a destra “E. Hopper” ha un’altezza di 86,4 centimetri e una base di 127,6 centimetri. L’opera era stata acquistata nel 1952 dalla Pennsylvania Academy of Fine Arts, che ha deciso di venderla per finanziare le proprie attività.
Interessante, a questo punto, si rivela un viaggio tra tutte le quotazioni delle opere di Hopper
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Hopper e la casa di Psyco: analisi pittorica e influenze filmiche
Il pittore americano fu influenzato dal cinema, per poi influenzare a propria volta con le sue opere molti grandi registi: da Hitchcock a Wenders, da Jarmusch a Lynch e Robert Altman
di Stefano Roffi
[R]icorda lo scrittore americano John Dos Passos: “Hopper stava seduto nello studio per ore bevendo tè. Ogni tanto sentivo che era sul punto di dirmi qualcosa, ma poi non lo faceva…”. Esattamente come tanti personaggi dei suoi dipinti: sembrano lì lì per dire o fare qualcosa, ma restano afasici e immobili, chiusi in una solitudine irreversibile, ai limiti dell’autismo, pur in evidente stato di attesa di un che di decisivo, di una sorta di Annunciazione che cambi loro la vita.
Forse attendono la realizzazione delle promesse del proprio sogno americano? Trapela la sensazione che, per accadimenti imperscrutabili, tutto possa repentinamente mutare, che nulla sia definitivo, che la frammentarietà del vivere quotidiano non sia altro che la percezione parcellizzata di una superiore e inconoscibile complessità.
Le letture giovanili, Coleridge e Hemingway, insieme agli interessi psicanalitici, non portano in Edward Hopper contaminazioni patetiche o narrative. Domina un sentimento di distacco antipoetico verso personaggi che esprimono nell’incomunicabilità una desolazione dura ed enigmatica, sentimento che potrebbe sembrare disumano se il pittore si sentisse coinvolto emotivamente anziché sospendere la tensione in glaciali fermo-immagine in cui la dissoluzione atmosferica del pudore si traduce in strumento di sincerità: un invisibile sipario si apre a rivelare scene dove attori inconsapevoli sono indifferenti nell’essere sorpresi e persistono imperturbabili nell’istantaneità della propria compressione esistenziale.
Come Vermeer, l’artista guarda i suoi soggetti in vetrina con la consapevolezza di non essere osservato a sua volta, stabilendo una distanza invalicabile tra sé e figure che vivono una loro propria vicenda, ignare di essere spiate, nel contesto irreale di un non-luogo caratterizzato dall’assenza, nell’atmosfera vuota e silenziosa di ambienti rarefatti, trasmettendo così un’acuta sensazione di monadismo.
Attraverso il nitore indagatorio della luce, una luce nordica disvelante che emana radioattiva dalla materia stessa dei corpi, anche questa assunta dai Vermeer visti ad Amsterdam e a New York, il pittore punta il riflettore su brani intimi, rubati ai cittadini americani, in una dimensione di lancinante realismo, di sospensione del desiderio nell’attesa del compiersi di un destino che non consente di distinguere fra fiducia e rassegnazione.
La dimensione temporale viene cristallizzata sottraendo ai soggetti ogni possibilità di mutamento, spazio e tempo vengono brutalmente a coincidere; ugualmente risulta estranea all’artista ogni forma di partecipazione emozionale o di denuncia dello stato di solitudine che pervade le scene, dove i personaggi paiono colti in un attimo di interrotta vitalità, come calchi delle vittime dell’eruzione di Pompei.
E’ l’America la protagonista della pittura di Hopper, col suo messaggio iniziatico, quasi fideistico di promozione individuale, di felicità possibile per tutti; l’America ordinaria del XX secolo, sintetizzata in chiave anti-drammatica di pacatezza atemporale, coi suoi silenzi monumentali, con le americanissime location, dove il quotidiano si sublima in esperienza real-pop, dove l’aspettativa, semplice frammento di un racconto di cui non è dato conoscere la trama, non prevede necessariamente un esito. Una realtà ottimistica che facilmente esclude.
Anche la frequente rappresentazione di figure femminili all’interno di camere di motel, capsule di sospensione nell’ambito di uno status migratorio che isola dalla ripetitività della vita di tutti i giorni, induce un senso di impersonale destabilizzazione in una visione americana altrimenti on the road in cui si consuma il mistero di esistenze necessitate; come nei drammi di Ibsen, in particolare Casa di bambola, nei quadri di Hopper l’azione non è progressiva ma statica, ed è rivelata non dagli eventi ma da segni emblematici, simbolici. I personaggi di entrambi sono schiavi di un vitalistico assoluto morale, pagando, senza colpa, per la propria fiducia virtuosa andata delusa.
Nella costruzione dei dipinti, Hopper evoca in chiave metafisica la “messa in scena” di un set cinematografico, infondendovi la forza comunicativa mitica e universale delle immagini filmiche attraverso soggetti di estrazione quotidiana. L’arrivo a Hollywood, fin dall’inizio degli anni Venti, di grandi registi tedeschi quali Lubitsch e Lang, oltre che dell’architetto Dreider, memore degli insegnamenti del Bauhaus, aveva portato nel cinema, e nell’immaginario di Hopper, funzionalità rigorosa, eleganza disadorna, illuminazione nitida entro scenografie diafane e riflettenti, senza ostacoli per la luce che va così a diffondersi su corpi e volti dei protagonisti, marcandone la presenza in un’aura di magnetica luminescenza, quasi füssliana.
Nello stesso periodo gli Stati Uniti ospitano, tra gli intellettuali profughi dall’Europa, architetti quali Gropius, Mies van der Rohe, Neutra; la loro spazialità rigorosa ed essenziale, particolarmente espressa negli interni, diviene un’immagine pervasiva e riconoscibile della modernità che si ritrova in alcuni quadri di Hopper, nello specifico quelli con scene di uffici, Office at Night (1940), New York Office (1962), o con volumi candidi che la luce coagula in un razionalismo da manuale.
Un taglio razionalista anche per le inquadrature su tele spesso dal formato allungato, come si trattasse del cinemascope, conferisce ai dipinti l’aspetto di un’istantanea distaccata dallo spazio e dal tempo, quasi che un film si fosse interrotto in un momento di indecidibile culmine, lasciando un senso di isolamento e intrusione.
In New York Movie (1939), la maschera di un cinema deserto si appoggia solitaria alla parete della sala, dando le spalle allo show e mostrando come l’oggetto dell’interesse dell’artista non sia lo spettacolo, ma lo stato di attesa, di incomunicabilità e di esclusione attorno allo spettacolo stesso.
Hopper meccanicizza il proprio approccio pittorico facendosi “cinepresa” fissa rispetto alla scena in movimento, che viene scrutata voyeuristicamente e “bloccata” senza alcuna interazione; come un “grande fratello” anaffettivo ma molto ricettivo, si nasconde dietro lo schermo della pittura gettando sul mondo uno sguardo freddamente documentario ed elaborando un tipo di composizione figlio della fotografia, che consente allo spettatore di cogliere un’immagine momentanea.
Come in un processo di rigenerazione delle origini del cinema americano, diversi registi della seconda metà del Novecento subiranno l’influenza di Hopper nell’esprimere per simboli e atmosfere una certa evidenza Usa in bilico fra realismo e metafisica.
In Hitchcock si ritrova l’insistenza nel rappresentare interni scrutati impudentemente dall’esterno, tema centrale de La finestra sul cortile; il regista, inoltre, guarda alla casa vittoriana del dipinto House by the Railroad (1925) come modello per l’edificio in cui si svolge Psyco, con le sue luci lattiginose, interrotte da ombre nettissime, in una sospensione paralizzante del tempo.
Wenders, in The end of violence, riproduce il celebre Nighthawks (1942) come tableau vivant, con la sua atmosfera noir. Assistiamo ma non possiamo fare niente; un impenetrabile vetro separa due mondi. La sera prima di iniziare l’opera, Hopper era rimasto colpito da una scena di The Killers, con Burt Lancaster e Ava Gardner, ambientata in un “diner”. Afferma Wenders: “In quel quadro c’è un po’ lo spirito del mio film; a prima vista, sembra una scena pacifica, distesa, ma sotto si percepisce la tensione. Come se, dalla strada buia, improvvisamente, arrivasse un’auto con dei killer armati. Ecco, la violenza non è tanto il mostrare sparatorie e ammazzamenti, quanto proprio questa sensazione che tutto può improvvisamente essere sconvolto”.
All’interno di scenari sospesi e privi di punti di riferimento, ma dallo spiccato protagonismo emozionale, gli inquieti e riflessivi personaggi di Wenders e di Hopper sembrano sempre alla ricerca della propria identità, in attesa di qualcosa che rivoluzioni le loro esistenze. Wenders dichiara che “i quadri di Hopper riguardano l’America non solo in superficie, ma scavano in profondità nel sogno americano, esaminando in maniera radicale il tipico dilemma tra apparenza e realtà”. In Paris, Texas (1984), Nastassja Kinski assume un ruolo che ricorda le donne dipinte dall’artista, forse con un passato felice ma che nel presente sembrano costrette in una dimensione di rassegnazione e isolamento.
Altro regista hopperiano è Jarmusch, coi suoi paesaggi urbani nitidi e immediati, la ricerca della sospensione del tempo nell’immagine, la diluizione esasperata dell’attimo.
In Lynch si ritrova lo stato di disorientamento che coglie lo spettatore – insieme al personaggio – di fronte a eventi inspiegabili o in attesa di soluzione, spesso in periferie americane tipicamente hopperiane; sapere che qualcosa di tremendo e ignoto è accaduto o dovrà forse accadere produce un senso di angoscia, di onirismo, di indicibilità.
C’è Hopper anche nei frammenti esistenziali che Altman ricompone nei propri film: “Io non racconto mai nulla, non ho messaggi da comunicare. Tutto quello che faccio è costituito dall’immettere nei film sentimenti e visioni che ho, e utilizzo la tecnica per permettere al pubblico di scoprirli, di comprenderli”. “Durante le riprese nella San Fernando Valley, un immenso dormitorio, studiai i quadri pieni di solitudini di Hopper. Cercavo tutte le ombre dei destini delle storie”.
IN Radio America accenna al declino di una civiltà, dietro all’idea che lo show debba svelarsi e terminare.
A Hopper, l’editore Phaidon ha dedicato una bellissima monografia, a firma Walter Wells: Il teatro del silenzio. L’arte di Edward Hopper (240 pagine, 220 illustrazioni).
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