Si fa luce sul “torinese” Cemì. Fu preso a colpi di lama, in una grotta, perché ritenuto un fantasma. I documenti ritrovati

Il Cemì visto frontalmente, di lato e dal retro @ Museo di Antropologia ed Etnografia, Torino

TORINO – Un torinese sui generis proviene dall’altra parte del mondo, portando con sé un enigma millenario. Il misterioso “pellegrino dell’Oltretomba” è stato studiato attentamente da archeologi e antropologi, rivelando una storia affascinante che intreccia antichi spiriti con le vicissitudini coloniali. L’oggetto del mistero è un cemí, una statuetta sacra degli indigeni Taíno, scoperta nell’Ottocento in una grotta nella Repubblica Dominicana, e oggi conservata al Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università di Torino. In questi giorni, Archaeology ha dato la notizia relativa al ritrovamento di un manoscritto che narra le vicende legate a questo misterioso antico feticcio, rivelando dettagli inediti che offrono uno sguardo più profondo sulla sua storia e sul popolo che lo venerava. Il cemí è ora ospitato nelle collezioni del Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università di Torino.

Joanna Ostapkowicz dell’Università di Oxford ha trascorso innumerevoli ore a esaminare attentamente i documenti conservati nei tre chilometri di scaffali dell’Archivio antropologico nazionale (NAA) dello Smithsonian Institution ed ha trovato in questi giorni la carta che ricostruisce il ritrovamento del prezioso oggetto. Lei e l’antropologa Cecilia Pennacini dell’Università di Torino, in precedenza, avevano condotto un’analisi non invasiva che ha rivelato la struttura interna del manufatto e l’indagine al radiocarbonio che lo colloca tra il 1441 e il 1522, prima o poco dopo l’arrivo degli europei nel 1492. Alcuni dei primi studiosi avevano ipotizzato che fosse stato creato molto più tardi, da schiavi africani.

I cemís: simboli di spiriti ancestrali

I cemís sono sculture sacre realizzate dall’antico popolo Taíno, l’antica civiltà che popolava i Caraibi prima dell’arrivo degli europei. Queste statuette raffiguravano spiriti divini o ancestrali e fungevano da strumenti di comunicazione tra il mondo terreno e quello ultraterreno.

I Taíno credevano che gli spiriti potessero intervenire nella vita quotidiana attraverso questi manufatti, usati in contesti religiosi e cerimoniali per invocare protezione, fertilità o per ottenere consigli divinatori. Alcuni cemís erano utilizzati come oracoli e, secondo la tradizione, le divinità parlavano attraverso di essi, spesso modellando la bocca delle statuette in modo da sembrare animate. Ma da dove veniva questo particolare “ometto”?.

Il cemí fu scoperto nella grotta di Petitrou, come indicato nel manoscritto scoperto dall’archeologa Joanna Ostapkowicz, è uno dei pochi sopravvissuti al tempo e alla distruzione coloniale. Questo particolare esemplare è realizzato in cotone e ossa umane, più precisamente con un cranio e una mandibola. L’uso di resti umani non era raro nelle pratiche Taíno e serviva a collegare in maniera simbolica gli spiriti ancestrali al mondo fisico.

Chi erano i Taíno?

Il popolo Taíno era un’importante cultura indigena che abitava le isole dei Caraibi, tra cui Cuba, Hispaniola (oggi divisa tra Haiti e Repubblica Dominicana), Porto Rico, Giamaica e le Bahamas, prima dell’arrivo degli esploratori europei. I Taíno vivevano in società organizzate e agrarie, con un sistema politico guidato da capi locali chiamati caciques. Le loro tradizioni spirituali erano profondamente radicate nella natura e negli antenati, e i cemís giocavano un ruolo chiave in queste pratiche religiose.

I Taíno erano conosciuti per le loro abilità agricole e artigianali, ma con l’arrivo di Cristoforo Colombo nel 1492, la loro civiltà subì un rapido declino. Malattie, schiavitù e guerre portarono quasi all’estinzione della popolazione Taíno nel giro di pochi decenni, anche se tracce della loro cultura e delle loro credenze spirituali sono sopravvissute.

Un enigma scoperto per caso

Il cemí torinese -come riferisce Antiquity, esaminando il manoscritto – è stato ritrovato per caso da un cacciatore dominicano nell’Ottocento, che lo scambiò per uno spirito maligno e, preso dal terrore, lo colpì con il suo machete, danneggiandone la testa. Questa vicenda è documentata nel manoscritto redatto da Rodolfo D. Cambiaso, giornalista dominicano, nel 1907. Cambiaso fu una figura importante non solo per la sua carriera giornalistica, ma anche per il suo impegno nel preservare il patrimonio culturale della Repubblica Dominicana.

Il manoscritto chiarisce che il cemí fu scoperto nella grotta di Petitrou, nella regione sud-occidentale della Repubblica Dominicana. Questo dettaglio geografico ha cambiato il modo in cui gli archeologi comprendono la storia del manufatto, poiché lo collega ai regni caciques locali, fornendo un contesto più preciso per la sua origine.

Chi era Rodolfo D. Cambiaso?

Rodolfo D. Cambiaso, il giornalista che documentò la scoperta del cemí, era figlio dell’ammiraglio Juan Bautista Cambiaso, una figura di rilievo nella storia della Repubblica Dominicana. Juan Bautista Cambiaso fu uno dei fondatori della Marina dominicana e, nel 1882, acquistò il cemí dopo che era stato recuperato dalla grotta. Rodolfo, seguendo le orme del padre, si dedicò alla conservazione di manufatti storici e culturali della Repubblica Dominicana, contribuendo a tramandare informazioni preziose su un periodo di grande importanza nella storia indigena dell’isola.

Il documento scritto da Rodolfo Cambiaso nel 1907 ha permesso agli studiosi di collegare il cemí ai siti archeologici della regione e di comprendere meglio il contesto in cui veniva utilizzato. La descrizione accurata del luogo di scoperta e delle circostanze ha reso possibile tracciare una storia più completa dell’oggetto.

L’arrivo del cemí a Torino

Noi non siamo al corrente del momento preciso in cui il cemí giunse a Torino, ma si sa che entrò a far parte delle collezioni del Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università di Torino presumibilmente dopo l’acquisizione da parte di un collezionista europeo. L’ammiraglio Juan Bautista Cambiaso, che aveva acquistato il manufatto nel 1882, era in contatto con esponenti della borghesia culturale europea, e ciò potrebbe aver facilitato il passaggio dell’oggetto in Italia. Il trasporto di manufatti precolombiani verso l’Europa era comune tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, e Torino, con il suo Museo di Antropologia, rappresentava un importante centro per la conservazione di questi reperti.

L’importanza della scoperta

Oltre a gettare luce su un antico mistero, la scoperta del cemí e del manoscritto che lo descrive rappresenta un’importante lezione sul valore della ricerca archivistica. Come sottolineato da Joanna Ostapkowicz, scavare tra i documenti storici può essere altrettanto importante quanto scavare un sito archeologico. Gli archivi del National Anthropological Archives (NAA) dello Smithsonian Institution sono una fonte inestimabile per ricostruire storie dimenticate, come quella del cemí torinese, e restituire voce a culture scomparse o marginalizzate.

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Stile Arte è una pubblicazione che si occupa di arte e di archeologia, con cronache approfondite o studi autonomi. E' stata fondata nel 1995 da Maurizio Bernardelli Curuz, prima come pubblicazione cartacea, poi, dal 2012, come portale on line. E' registrata al Tribunale di Brescia, secondo la legge italiana sulla stampa