di Enrico Giustacchini e Roberta Maresci
[“S]tile” prosegue la sua inchiesta sul futuro della storia dell’arte, effettuata raccogliendo le opinioni dei maggiori studiosi italiani. In quest’occasione abbiamo incontrato Achille Bonito Oliva. Docente di Storia dell’arte contemporanea alla Sapienza di Roma, Bonito Oliva è il fondatore della Transavaguardia. Autore di saggi fondamentali, ha curato e diretto numerosi grandi eventi espositivi, tra cui la 43.a edizione della Biennale di Venezia.
Com’è cambiata la storia dell’arte rispetto a cento, a cinquant’anni fa?
La storia dell’arte è cambiata nella misura in cui l’arte ne ha modificato il percorso. Prima era un tragitto lineare, seguiva una linea evoluzionistica che ho definito darwiniana, partiva dagli antenati nobili delle avanguardie storiche – cubismo, astrattismo, espressionismo, futurismo, dadaismo, surrealismo, costruttivismo, suprematismo, eccetera – ed arrivava alle neoavanguardie in maniera, appunto, geometrica. Con la Transavanguardia si verifica uno spostamento, un’apertura anche a linee laterali; c’è eclettismo, nomadismo culturale, e la storia dell’arte è diventata più ramificata e più complessa. Ci sono risposte che l’arte dà a problemi riguardanti la presenza dell’uomo in una realtà ad alto sviluppo tecnologico e ci sono domande che si sovrappongono a queste risposte, in quanto l’arte è principalmente investigazione sul mondo, ma anche sul linguaggio che essa adopera per esprimere il proprio parere stilistico sulle cose.
Secondo lei, la civiltà contemporanea sta perdendo il senso della storia? E tale aspetto, quanto può incidere nell’ambito più specifico della storia dell’arte?
Non a caso qualcuno ha parlato di post-storia, cioè a dire: laddove si smarrisce il senso della prospettiva del progresso lineare c’è come un contraccolpo all’idea di essere postumi al proprio presente. Diciamo pure che la storia ha una sua antievoluzione imprevedibile di cui va rispettata questa sorta di sorpresa. Non si può annullare la storia solo perché non riusciamo a controllarla con quella cultura delle previsioni a cui noi occidentali siamo altrettanto, e troppo, legati; non si esce quindi dalla storia come dalla superficie terrestre con l’astronave, ma si desidera sempre tornar dentro.
La storia dell’arte ha ancora un senso? C’è chi ha sostenuto che – tramontato quasi l’aspetto più strettamente filologico – sono altri i significati da ricercare.
Come la storia, non se ne può prescindere. E’ una storia – come dicevo – più complessa e più ramificata che va compresa in maniera inedita, nuova, meno frontale, con quella lateralità di cui io sempre parlo. Con più strumenti che non sono quelli della filologia in senso stretto. La filologia lasciamola agli accademici, a quei professorini che pensano di salvarsi col saggio a discapito della qualità dell’opera. La qualità dell’opera determina una realtà: la realtà dell’arte è imprescindibile per il critico, che progetta la storia, paradossalmente, attraverso le sue analisi. Il critico progetta il passato, non il futuro della storia dell’arte. Il critico è colui che riprende delle linee, e le rende attuali con letture capaci di coniugare nel presente dell’opera il passato e di lanciare un sospetto teorico verso il suo futuro.
Quali saranno, a suo giudizio, gli sviluppi futuri della storia dell’arte, anche alla luce delle nuove forme di comunicazione? Ed in che misura sarà possibile adeguare a tali nuove forme gli aspetti didattici e divulgativi dell’arte?
Veramente, per serietà, il critico non può mai fare come i cartomanti. Non può utilizzare la cialtronaggine delle tre carte da cui desumere l’imprevista forma che nascerà nel futuro. Io credo che un critico, come dicevo prima, possa lanciare dei sospetti teorici; ed il mio sospetto è che il contesto telematico è il contesto con cui tutti dobbiamo confrontarci. Il tema della comunicazione è un tema imprescindibile, in quanto l’industria della telematica riesce ad utilizzare gli esiti più avanzati del linguaggio dell’arte in maniera piacevole, ad assumere quindi la sperimentazione e a diffonderla come quantità. A tale quantità l’arte deve rispondere con la qualità di un lavoro solitario: questa è la sfida, e vedremo se sarà possibile dare ancora persistenza a quel bisogno biologico che è stata l’arte nella storia dell’umanità.
Parliamo ora di grandi mostre, momento chiave della comunicazione dell’arte. Può esprimere una valutazione su quanto sta avvenendo oggi in questo ambito nel nostro Paese?
Sono quel critico che da trent’anni ha teorizzato la mostra intesa come medium. La mostra è un mezzo di comunicazione. La mostra dev’essere un evento totale entro cui viene calato lo spettatore, e non un deposito di opere. Sempre più questa linea si è fatta strada e finalmente si è imposta anche nei grandi musei; al di là dei tragitti fisiologici e noiosi, si accetta quella che fu la mia proposta di decenni fa di lavorare per corticircuiti, accostamenti imprevedibili di opere, nuovi sensi che nascono dallo sfioramento di linguaggi differenziati, apertura verso la multimedialità, verso il multiculturalismo, verso la transnazionalità, che poi sono quei concetti evidenziati nella Biennale di Venezia ’93, da me diretta (“Punti cardinali dell’arte”). Mi sembra che questo sia diventato un modello, sia per le Biennali successive, sia per tante biennali aperte in altre parti del mondo (perché poi, in realtà, è diventato anche un po’ un vezzo quello di pensare che ogni Paese debba avere come fiore all’occhiello una Biennale che si rispetti). C’è un “mostrismo” in giro, c’è un eccesso espositivo, c’è un “mostrificio” tenuto in piedi anche da quelli che chiamo “i filippini della critica”, giovani falsi critici che – per un fatto anagrafico – vogliono dare spessore alla loro presenza, organizzando qualcosa per enti che non hanno un vero progetto culturale. Ma diciamo che, senza dubbio, se dovessi indicare lo stile con cui le mostre oggi si organizzano, parlerei, nei casi migliori, di uno stile che risente della preoccupazione di improntare la mostra a mezzo di comunicazione.
Ancora a proposito di mostre: che ne pensa delle “mostre-pacchetto”, acquistate in blocco e spesso riproposte acriticamente all’attenzione del visitatore?
Sono quelle che a Roma si chiamano “il pancotto”: un bidone. Un bidone sul piano morale, perché un amministratore pubblico ha il dovere – è stato eletto per questo – di sovrintendere e di controllare quello che c’è dentro, in qualsiasi pacchetto che arrivi, anche culturale. In questo caso, quindi, c’è una colpa molto grave di invigilanza, legata al cinismo di assessori che – pur di essere presenti sulla scena – accettano, come la macchina chiavi in mano già con la benzina e il motore acceso, qualsiasi operazione, che spesso porta un grande nome ma che in realtà propone poi pezzi minori, serigrafie, opere che dovrebbero già essere morte.
IMMAGINI DELLA TRANSAVANGUARDIA. IL FILMATO