Gianni Clerici era un lettore di Stile arte, un nostro abbonato speciale. Il giornalista sportivo – scomparso nelle ore scorse – aveva uno spiccato interesse per l’approfondimento dei temi culturali. Amava l’arte. Si era occupato anche dell’iconografia del tennis. Fu per questo che venne intervistato da Enrico Giustacchini. Riproponiamo quell’incontro.
di Enrico Giustacchini
[F]u al culmine di una lite seguita ad una partita di tennis che il 28 maggio 1606 il terribile Caravaggio ammazzò Ranuccio Tomassoni, suo rivale in amore oltre che avversario sul campo di gioco. La strada di Roma teatro dell’assassinio si chiamava (e si chiama) via di Pallacorda. Nulla di più facile supporre che al misfatto fosse presente Francesco Boneri, l’allievo-modello-amante prediletto di Michelangelo Merisi, colui che avrebbe raggiunto in seguito ampia notorietà tra i seguaci del maestro con l’appellativo di Cecco del Caravaggio.
Gianni Papi, uno dei più accreditati studiosi di Cecco, ha attribuito a lui La morte di Giacinto, un quadro prima genericamente assegnato ad un non meglio precisato pittore di ambito caravaggesco. Giacinto vi è effigiato agonizzante tra le braccia di Apollo: entrambi i personaggi hanno con sé una racchetta.
L’insolita iconografia è solo all’apparenza un enigma. La spiegazione è tutta in un nome, quello di Giovanni Andrea dell’Anguillara. Poeta e traduttore, l’Anguillara era stato un celebrato autore di best seller. La sua disinvolta versione delle Metamorfosi, edita a Venezia nel 1561, aveva ottenuto da subito un successo clamoroso, che si sarebbe protratto fino al XVIII secolo. Al pubblico era piaciuta l’idea di attualizzare il capolavoro ovidiano, inserendo senza troppi scrupoli elementi di contemporaneità nelle architetture ineffabili del mito. Cosicché, ad esempio, la famosa sequenza della gara di lancio del disco tra Apollo e Giacinto si era trasformata
– metamorfosi nelle Metamorfosi – in un’improbabile partita a tennis, e a colpire fatalmente il principe spartano non era stato il disco ma una più prosaica pallina, scagliata con forza dalla racchetta del nume. E’ su tale base che Cecco realizza il suo dipinto. Sovrapponendovi limpidi rimandi biografici e simbolici. Affidandovi un messaggio accorato, per conto dell’amato maestro (come rileva anche Cees de Bondt nel saggio The Death of Hyacinth, contenuto nel volume Royal tennis in Renaissance Italy, edito da Brepols).
Se Giacinto è Ranuccio Tomassoni, allora Apollo è Caravaggio. Se il figlio di Zeus e dio della bellezza e delle arti ha accidentalmente provocato la morte di un uomo durante un incontro tennistico, è troppo implorare un briciolo di comprensione per un artista – ossia per un seguace di quel dio – che ha fatto altrettanto? pare chiedere Merisi per mano del fedele allievo. E guardate – sembra aggiungere – quale disperata tenerezza nello sguardo del feritore, mentre sorregge la sua vittima, in una sorta di laica Deposizione. Non merita, questo disgraziato sconvolto dai rimorsi, un po’ di pietà, un po’ di pace?
La morte di Giacinto è solo uno dei tanti quadri che hanno per soggetto il tennis. Un viaggio all’interno del filone può risultare intrigante e pieno di sorprese, come conferma a Stile uno dei massimi esperti al mondo di questo sport, anche nelle sue implicazioni storiche e culturali, ossia Gianni Clerici. A partire da un’opera di Giambattista Tiepolo, ad analogo tema, e sempre ispirata alla traduzione ovidiana dell’Anguillara. Curiosamente, pure questo dipinto, che risale al 1752-53, contamina il contesto favoloso della narrazione mitologica con elementi reali (ne abbiamo parlato in Stile 112). La tela fu infatti commissionata al pittore veneziano da un nobile tedesco, il conte Wilhelm di Schaumburg-Lippe, che intendeva così perpetuare la memoria del suo amante, un musicista spagnolo appassionato tennista il quale – proprio come il Giacinto in versione Anguillara – era morto in un incidente di gioco, colpito dalla pallina.
“E tali incidenti non erano rari – spiega Clerici -. Le durissime sfere di cuoio potevano fare davvero molto male. Nel quadro del Tiepolo, di fianco al protagonista, ci è consentito peraltro di ammirare uno dei più raffinati e meglio rifiniti esempi di racchetta. Le corde, che attorno al 1750 erano ancora, spesso, diagonali, sembrano già annodate secondo l’uso contemporaneo. Meno tese, e per ovvie ragioni, sono invece quelle della racchetta da volano che impugna la dolce bambina ritratta da Chardin nel dipinto conservato agli Uffizi. La tecnica di lavorazione del legno è simile a quella immortalata dal Tiepolo, ma lo shuttlecock, in preziosa piuma d’oca di Boemia, richiedeva più modesta propulsione delle pesanti palle di cuoio”.
Ma qual è stato, nella storia dell’arte, il primo quadro in cui viene mostrata una partita di tennis?
“E’ un’opera fiamminga, il cui soggetto, in realtà, con lo sport ha ben poco a che fare
– risponde Gianni Clerici -. Il tema è biblico, e riguarda la vicenda di David e Betsabea. Inopinatamente, nel paesaggio di contorno ai protagonisti compare con grande evidenza un campo di gioco dove si sta svolgendo un incontro tennistico. Oltre al dipinto originale, firmato da Lucas Gassel (qui sopra, ndr.) e databile attorno al 1540, sono riuscito a rintracciare ben otto successive versioni di vari autori, la più accattivante delle quali è quella del Marylebone Cricket Club di Londra, attribuita dubitativamente a Joos van Amstel”.
E la prima rappresentazione di una racchetta così come la intendiamo oggi, ossia cordata?
“E’ in un ritratto di Carlo Massimiliano duca d’Orléans – il futuro Carlo XI – all’età di due anni, di mano di Germain Le Manier, risalente al 1552. Le corde sono oblique, e annodate ad ogni incrocio. Ciò perché all’epoca era necessario tener ferma la distanza tra corda e corda, compromessa dalla durezza e dal peso della pallina. Il ritratto sembra anticipare le propensioni del sovrano, che da adulto sarebbe diventato un incallito praticante di paume, l’odierno tennis. Basti pensare che nel 1572, quando gli fu comunicata la notizia dell’assassinio di Coligny e dell’inizio della strage di san Bartolomeo, egli era appunto impegnato al Louvre nella sua attività preferita. Le cronache ci dicono che reagì urlando: ‘Non avrò mai riposo! Sempre nuovi fastidi!’ e scagliando lontano l’inseparabile racchetta”.
Molti altri dipinti, nel corso dei secoli, hanno raccontato il tennis. C’è il ritratto di un giovane della nobiltà italiana della seconda metà del Cinquecento attribuito a Sofonisba Anguissola.
C’è il ritratto di Federico Ubaldo della Rovere, lui pure alla tenera età di due anni, eseguito probabilmente da Federico Barocci nel 1607.
Ci sono Carlo Emanuele II di Savoia e il fratello effigiati bambini, attorno al 1636, da Francesco Cairo. Tutti con la loro brava racchetta”.
Racchetta che nello stesso periodo i pittori fiamminghi includeranno tra i simboli della Vanitas: così è per Jan Bruegel il Giovane (Allegoria del mondo); così è per Jan van Kessel (Ecclesia). Nel Settecento e nell’Ottocento, il tennis diventerà per gli artisti anche reportage di costume, come nella rissa fra teatranti e giocatori dipinta da Jean Baptiste Joseph Pater, o strumento di denuncia e satira sociale, come in The Mock Election di Benjamin Robert Haydon.
“Nel secolo scorso, questo sport irrompe nel repertorio iconografico delle avanguardie – osserva Clerici -. Ovviamente non potevano ignorarlo i futuristi: vorrei citare ad esempio un bellissimo quadro di Arturo Ciacelli, del 1918, intitolato Dinamismo Tennis.
Ma non dimentichiamo che racchetta e pallina fanno la loro comparsa pure in un rarefatto capolavoro della Metafisica – La musa metafisica di Carlo Carrà -, poste tra le mani di un’inquietante statua-manichino”.
Il binomio tennis-pittura non cesserà di produrre risultati considerevoli negli anni più recenti, sino ad oggi. A confermare la malia, capace di stregare gli artisti di ogni epoca, di quello che – è sempre Gianni Clerici a ricordarcelo – fu definito non per nulla “il gioco dei re, il re dei giochi”.